Premessa
In questo libro, la logica del discorso, attraverso la sperimentazione sintattica – potrebbe richiedere da parte del lettore lo stesso impegno interpretativo che c’è voluto nello scriverlo.
In definitiva posso dire che questo libro avrebbe i mezzi per arricchirsi di un cospicuo apparato critico. Ma credo si debba leggerlo con gli strumenti di analisi che si dispongono come lettore. È bene dire per questo che il lettore cresce, con la capacità libera di un’umiltà personale, che può svelare spiegazioni e profondità dei testi anche con il vivere le proprie esperienze personali, o con il passare del tempo. Leggere sempre il libro.
Ciò che vi è narrato è il viaggio letterariamente introiettata negli stati uniti d’America degli ultimi anni. La lingua italiana mi ha dato la possibilità di sperimentarne l’efficacia anche in un ordine di sviluppo ed espressività che ne arricchisce il significato, una lingua che usa la trasformazione per ampliare il senso dell’espressione.
Stati Uniti d’America 1934
Guardavo la mia merda, o meglio la sentivo uscire a sprazzi seduto sopra al buco di un cesso di una stazione di servizio. Era arrivato in america da 15 giorni e stava cacando la sua prima diarrea. Mentre sta seduto ascolta due persone che parlano fuori, una delle due dice all’altra: “Sembra che sia sempre la solita storia.” Dal buco di cesso accanto al suo sente un peto slabbrato e pensa al candido culo di una donna, mentre pensa questo sente chiudersi lo stipite del bagno, lì accanto e da sotto la porta vede, per un instante, le caviglie ben modellate di una donna di colore e mentre sente i passi allontanarsi, nota per la prima volta un ciclostile incollato sul muro dove è appesa la carta igienica, sente calmarsi il mal di pancia e aspettando che finisca legge quel foglio.
psicologia
…ciò che determina la psicologia è l’unione delle logiche fisiologiche dei riflessi condizionati che diventano di ambito psichico nell’interazione con l’associazione libera freudiana, determinandoli nell’ambito dei comportamenti individuali nel sociale. Da ciò per espressione stessa di scienza la psicologia entra in relazione con il significato di significante, ciò fino a porsi in antitesi con il significante del significato, qualora nell’ambito sociale questo sia richiesto, per far sì che il disagio psichico trovi soluzione negli appagamenti che danno significato alla struttura sociale in essere – e che in tale struttura trovano nella prospettiva psicologica gli stimoli che servono a determinarla; in tale ambito per far sì che il significato dell’osservazione acquisisca il “contenuto” di significante, si genera, attraverso un atto associativo una causa che determina attraverso la relazione dei condizionamenti quei riflessi psichici che ci dicono qual è il significato che si dà alla causa generata, che così assume il “contenuto” di significante – in questa soluzione l’effetto diventa la causa e il significato la spiegazione dell’effetto che determina gerarchicamente qual è la causa, che non potrà più essere pre significante, ma diviene il significante, l’origine del significato. Su questo schematismo si muove tutto il comportamentismo, che dopo le manifestazioni parossistiche della seconda guerra mondiale, con le sue derivazioni post belliche, attraverso la gestalt (berlino), la scuola di Francoforte, in quest’ambito con Erich Fromm ha cercato nell’ambito siffatto della psicologia sociale quella sintesi dei comportamenti che facessero dei fenomeni segnici della comunicazione umana, la ricerca di un significato, legato ai bisogni originali dell’essere umano che non si basino “più” sui modi gerarchici della psiche, che fanno delle associazioni la determinazione di un sistema di potere su cui costituire un significante in competizione con il significato, in competizione con se stesso, che finisce per creare significati sempre più limitati e in assenza totale del significante (se c’è un modo per definire la menzogna questo non è tra i più espliciti), ma che trovasse nella comunicazione un legame che facesse dell’essere” un valore umano partecipativo, empatico, che non soggiacesse alle logiche collettive ed individualistiche del sempiterno, ma rinnovato “avere”. Sembra proprio che il mondo si sia spaccato; in questo ambito sociale va vista in definitiva la sostanziale differenza tra la psicoanalisi freudiana e junghiana, se la prima fa della ricerca del significante un ristabilimento gerarchico nell’ambito di un logica di potere tra l’individuo e la società attraverso la dimensione sessuale, la seconda fa del processo d’individuazione l’ampliamento del proprio significato individuale che non perde la sua ragion d’essere, ma che cerca la sua ragion d’essere in tutti gli aspetti dello spazio e del tempo, determinando con essi la costruzione di un personale ed individuato motivo comunicativo che dà del significante l’aspetto dinamico dell’imperscrutabilità spirituale, che dà alla propria conoscenza un significato non gerarchico ma differenziato dove collocare la propria ragion d’essere, il proprio essere in divenire (non mi soffermo sulle altre discipline psicoanalitiche, “né sui processi d’esperienza”). …perché il tempo urge, difatti or ora sembra che la psicologia abbia preso il sopravvento e che il significante predominate sia una sorta di darwinismo economico a cui via via dare un significato che compensi lo stato di necessità delle sicurezze sociali, la dimensione gerarchica ha assunto l’aspetto di un significante che fa della convenienza economica il sistema su cui innescare la causa che darà origine al significato, ch’è diventato uno e trino: causa effetto e significato, “l’oggetto potere” ha ritrovato la logica per sublimare ogni significato, rendendo superfluo il significante – un’illusione a cui credere, un etica misurata e controllata, ma da chi e soprattutto cosa? Ma in fondo, è poi pur sempre un’etica. “…”
Esce dal bagno, va per lavarsi le mani al lavandino, e il suo sguardo è attratto da quel che vede incorniciato dalla sagoma della porta aperta, vede lo spiazzo della stazione di servizio: è deserto e si sente il televisore nel bar al fianco, mentre si lava le mani guarda la sua ford parcheggiata fuori dalle righe. Accende il motore, va in retromarcia e dal finestrino aperto ascolta due persone parlare, riconosce la voce di uno dei due, è la stessa che ha sentito quando era sul buco del cesso con il mal di pancia, lo sente dire: “Sono finiti proprio dentro i grattaceli.” Ingrana la prima e va verso la strada, la seconda poi la terza…è una macchina, pur sempre comprata in Europa, vede la lunga strada proseguire davanti a lui.
2
è ovvio che se possiamo identificare la coincidenza in un evento paragonabile al battito del cuore, che per esempio in modo involontario e del tutto naturale può sincronizzarsi con quello di altri o di un altro. …da questo assunto nella psicologia statistica, ad esempio, assistiamo ad un intervento preordinato che tende ad organizzare le coincidenze possibili, per determinare un fine consequenziale nei comportamenti umani.
Ora per quanto, per esempio, una coincidenza abbia la connotazione “cardiaca” – ad esempio: a distanza di un anno io passo in un “punto” e come un anno prima un animale, forse lo stesso, si ritrova in riferimento a me allo stesso “punto”, e il gabbiano fa la stessa cosa che fece un anno prima: caca in volo, tra il punto del volo, il tempo che l’escremento impiega dal punto di caduta, al punto in cui sono io, al tempo che io impiego per agire sulla mia percorrenza, per evitare che l’escremento mi cada addosso, e mettiamoci pure i miei riflessi visivi che hanno determinato la mia percezione e hanno agito sul mio movimento, che avveniva nello stesso momento in cui avvenne che due persone alla stessa distanza da me di un anno prima rifanno la stessa cosa che fecero… Be’ tutto questo che va nel gioco naturale delle probabilità, può essere osservabile, senza che questi eventi siano stati determinati da qualcosa che non sia involontario, “cardiaco”. Ora nello sviluppo mnemonico di eventi siffatti, siano essi consci o inconsci, può in esso essere sviluppata con la propria “intelligenza” l’esperienza. “Ora” con il processo psicologico l’osservazione diventa manipolazione”, per determinare il fine che stabilisca i processi di calcolo delle coincidenze nel comportamento umano, adattandolo il più possibile al coordinamento delle coincidenze sociali…E con questa ottica viene vista e considerata la possibilità esplicativa della sincronicità che a livello della psicoanalisi junghiana è tutt’altra cosa. …Se per esempio a livello di energia psichica, in prossimità” di un cambiamento dell’aria nell’atmosfera, io dico ad un’altra persona che è probabile che dove si trovi lei possa cadere un fulmine, o ch’è prossima una tromba d’aria, e faccio questo agendo in modo naturale, “cardiaco”, attraverso quelli che sono i miei processi d’esperienza ed associando a questi del tutto involontariamente i miei processi d’equilibrio inconscio…e in definitiva quello che ho previsto si verifica; ora questo nel suo essere plausibile non è verificabile scientificamente, ma non per questo in quest’energia psichica sviluppata possiamo parlare di sincronicità junghiana.
La sincronicità junghiana avviene quanto in rapporto, di un’energia che rimane in origine di ordine “cardiaco”, si sprigiona in relazione di un’altra, determinando effetti nell’ordine fisico delle cose, tecnologiche o atmosferiche del tutto inqualificabili in un ordine diretto delle cause che l’hanno determinata e al di là di un moto probabilistico scientificamente organizzabile, se non, a limite, nell’ambito di una plausibilità. Dare sostanza a tale verificarsi è opera dell’intelligenza sapienzale che chi si trova a vivere tali eventi ha saputo nel suo ordine “cardiaco” costruirsi – e in tale ordine “personale” sa ricondurre il mistero di questi eventi, dando ad essi la loro “naturale ragion d’essere, evitando di ossessivamente capirli nella rozzezza della psicologia probabilistica.
Non era un’ora che avevo lasciato la stazione di servizio – ed ora percorre la strada – guardo l’orizzonte e il cielo terso e non so cosa c’è dietro quella curva, laggiù, lontanissima, se un‘altra linea come questa o un posto dove fermarmi. Sento la sete venirmi sulla gola: è secca e mi viene voglia di fermarmi a sputare, fermo la macchina e appoggiato al cofano guardo la distesa arida che ho intorno, guardo la strada da un lato e poi dall’altro e penso che mentre accostavo l’auto sul bordo della strada, sullo sterrato, mi sono venute in mente le campagne dell’Europa, le coste dell’Italia e la neve degli Appennini e penso che da quando sono arrivato non ho ancora ricordano nessuna delle persone che ho incontrato, che mi conoscevano?
Guido la macchina e la curva in fondo è ancora lontana, ricordo che ho dimenticato di bere e allora tiro fuori dallo zaino la bottiglia, mentre con l’altra mano tengo il volante, dallo zaino cade a terra: “Il Candido Poetastro”. Appoggio il volante sulle ginocchia e ingoio un lungo sorso d’acqua…poi un altro, rimetto il tappo…e la bottiglia nello zaino; ora guardo le mie mani sul volante, mentre il sole si sta spegnendo e tra un po’ la luce dei fari sarà l’unica cosa che indicherà la strada…seguo nell’auto quella luce, non vedo più quando manca alla curva…dormo sul sedile posteriore, a qualche decina di metri dalla strada.
3
il profumo, il tuo profumo è più tenue…
cara non c’è stato niente, in fondo, che io e te non abbiamo vissuto; io ho continuato nel mio progetto d’amore, così legato alla mia identità, alla mia anima, ma in un modo o nell’altro non ci siamo mai persi, e se un giorno accadrà non sarà certo per una fine. Io non so immaginare la vita senza creatività – dove potrebbe collocarsi la “creatività” – e l’amore ch’è ne è privo credo non possa essere chiamato così, del resto in cosa potrebbe risolversi la responsabilità, dove collocare quella ricerca di verità che non consola delle paure del mondo ma che rende intensi i momenti più semplici della vita, e cosa ci sarebbe da dire, comunicare se il vivere l’amore appartiene a qualcosa che non si ha. Che significa possedere, se non imbrogliare, recitare un ruolo scadente in un teatro amatoriale che rende tutto più o meno uguale, la storia accettabile e consolatoria e la vanità pari a quella delle accademie più affermate. Se non c’è una parte per l’amore, figurarsi un ruolo…
- “Non fa niente.”
- “No, voglio darti di più!”
Nel sentire quella frase, lei si era sentita sorpresa e lui aveva notato quell’espressione sul suo viso. La sera…lui l’accarezzo su tutto il corpo e la bacio nei luoghi più intimi. Lei sentì il suo corpo libero e la sua coscienza serena, con gli occhi umidi lo afferrò e lo spinse verso il suo viso e lo baciò, capì cosa voleva dire lui, quando gli diceva che quando sentiva la sua bocca sul suo corpo, voleva baciarla nello stesso istante…l’afferrava e la baciava con tutta l’intensità che poteva. Lei era diventata cosciente che era diverso, che c’era una differenza, che l’intimità è espressione della mente e dei sentimenti, che quel bisogno di intimità nei loro corpi era parte del progetto di un unico amore, era completo e l’espressione di una loro peculiare creatività, di un rispetto reciproco che non ammette né finzioni né menzogna, che coinvolge tutto il proprio essere, che trasforma la sua storia, ne svela i significati; e solo quell’intimità disponibile nell’amore rende l’intimità espressione di complementarità.…come risoluzione di una distinzione sessuale, senza nessun ordine di potere. Lui capiva le volte che l’aveva vista guardarlo come fosse un altro, di quella volta che era tornata a casa e aveva pianto. Eppure lui capì che quelle lacrime erano diverse, lei in alcuni momenti vedeva in lui quel che lui non era e non capiva più cosa fosse stato di lei, qual era il mondo da cui l’osservava – vi era questa forma di masochismo con cui lei aveva convissuto da sempre che le faceva dire che il mondo che aveva era “anche” quello che voleva, il rinunciare a questo suo stato d’animo significava rinunciare al mondo dei suoi affetti – del resto viveva in una metropoli Europea corrotta e avida di denaro, dove chi non ne aveva era “schiacciato” dal bisogno d’averlo. Con lui lei era riuscita a mettere in chiaro i gesti del suo mondo interiore con gli atti di una vita che aveva trovato anche nella vita sessuale l’inconfessabilità nella complicità del suo svolgimento. Quel che più importava a lui al di là di una città che offriva mille usi del sesso, che se anche non partecipi condizionano il modo di pensare dei suoi cittadini, era che lei nella sua generosità dava a se stessa la possibilità - che sembrava esserle naturale – di aprirsi al mondo dei significati senza che questi rimanessero privi di senso, senza la creatività di una ragione morale più ampia delle costrizioni di un ruolo sociale a cui giocoforza sottostare. Prima di quella sera a lui non era sfuggita la violenza prima mentale e poi sessuale che lei aveva subito ad opera di uno di quei sedicenti guaritori che giocano sulle insicurezze e l’ignoranza della gente, e che lei per uno strano gioco d’incastri sociali aveva dovuto sublimare nell’inconfessabile normalità sociale, del resto se pur il più grave, il potere dei ruoli aveva agito altre volte su di lei.
Ora lui l’ha guardava e pensava se avrebbe avuto la forza di vivere quel che stava provando con lui, anche senza che lui esistesse – è evidente che questo tipo d’amore che ti apre al mondo, trova nelle forme del mondo una sorta di prevenuta incomunicabilità, solo un edulcorato sistema di compromesso con la socialità può far sì che il mondo non cerchi di distruggere una atto creativo che dà al mondo la sua parte di responsabilità, qualora questa esista – sapeva che avrebbe avuto un mondo ostile attorno, che l’avrebbe giudicata e condannata, lo stesso mondo che l’aveva resa una vittima e che aveva assolto i suoi carnefici. Del resto lui era abituato a questo tipo di solitudine, il posto sociale in cui viveva, era così angusto che i margini in cui la creatività e l’amore potevano esistere finivano per renderli una farsa agli occhi di chi avesse un minimo di consapevolezza al di là del dire e fare sociale, per quanto fosse, per così dire per bene, o volesse diventarlo. Vi era una sorta di certificazione scientifica, quando al di là di questi ristretti ambiti, non vi era posto per una comunicazione sia anch’essa qualitativamente più vera dei limiti imposti, che rendesse vivibile l’espressione creativa dell’amore con un altro essere, era tutto filtrato da questa sorte di palude sociale; quel che per lui poteva accadere in un tempo ragionevole, in quel posto impiegava anni, per poi fermarsi in attesa perenne del grimaldello giusto. Del resto di lì a poco ogni parte del mondo sarebbe diventata così…una cortina di ferro.
La stavo baciando sul ventre e le accarezzavo con la lingua l’ombellico, ero già sul suo sesso e stavo per baciarlo, leccarle il clitoride, accarezzarglielo con la punta della lingua fino al suono del suo piacere… “No!”
- “Che c’è?”
- “Non mi sono lavata.”
- “Va bene, non importa.”
- “ma…!”
il suo profumo è più tenue, ha una sua caratteristica, oggi il suo sesso è pieno degli umori della giornata, di tutte le volte che si è eccitata, che l’ho accarezzata, che le ho fatto sentire quanto la desiderassi. Mi chiedo se si fosse lasciata andare se non le avessi detto, che mi piacciono le donne che sanno fare all’amore…già perché nonostante che mentre faccio all’amore con lei mi dice che si sente piena e si sente con un uomo, ancora continua a recitare una parte. Non c’è stata volta con lei che io non l’abbia così perfettamente sentita, da aspettarla fino al suo momento di massimo piacere e insieme a lei, abbracciarla e godere insieme. Del resto l’altra mattina si sono invertite le parti ed è stata lei a tenere il ritmo del piacere ed io ho goduto senza poterla aspettare, una goccia del mio sperma è finita sulla sua coscia, lei mi ha fatto notare che si puliva, quasi in atto di sfida, quasi fosse stata in competizione con me e ce l’avesse con me perché non era riuscita a farsi godere insieme con me, in fondo ci sarebbe stato tempo. Il fatto dello sperma è rimasto un enigma, una volta mentre era sul mio sesso, le ho detto che stavo per venire, solo per dirle di fare più lentamente, lei aveva così voglia che avrebbe preso tutto di me, ma capì che io non volevo che sentisse il sapore del mio sperma, da quel giorno interpreta questa parte, voleva essere come immaginava che io la volessi, ma voleva questo affinché io fossi quello che lei voleva da me ed era così affascinata e presa da quel che ero, che era impaurita che lei volesse quello che io le davo, ma che aveva paura di non riuscire ad avere, aveva paura di essere, paura di abbandonare un ruolo sociale che aveva nella testa: il denaro è la felicità che ci permette di avere tutto, ma non capiva come poteva avere me. Quando me la stringevo era proprio bella, ma c’era sempre quel ruolo da interpretare, quando si prendeva presa dalla mia intelligenza recitava la parte della donna che non si occupa delle cose del mondo, era in difficoltà ma voleva essere in competizione. Per tanto tempo non è riuscita a dirmi che il suo culo aveva voglia, perché non capiva se l’avessi giudicata per questo, poi succedeva che mentre cercavo di amarla, in piedi, lei si alzasse sulle punte, per impedirmi di prenderla, per poi rendersi disponibile, stabiliva così la sua volontà; non ho mai saputo quale in effetti fosse il suo ruolo sociale, ma se mi ha amato, anche solo per un attimo, ha dovuto farlo al di là di se stessa, come ho fatto io, ed ha capito che doveva riuscire ad amarsi…ha scelto l’egoismo, ha finito per odiarmi e lontano dagli occhi ha fatto finta di non capire più di scancellare i sentimenti.
4
Mi sveglio intorpidito, sento sul sedile la forma del mio cazzo e mi ricordo che stavo sognando il culo bianco di una donna…vedo dal finestrino il sacco a pelo, affianco una moto con dei pezzi smontati, su un panno in terra; guardo la testata della Harley Davidson, lì vicino c’è una Electra Glide, con la frizione a pedale e il cambio a mano: 4 tampi, bicilindrica a V di 45° raffreddata ad aria. Lunghezza 2.837 mm, larga 1.079, peso 358 Kg, con il pieno di carburante, passo di 1.552 mm, freni a disco di 254 mm, altezza della sella 66 cm. La cilindrata non è più di 1200 cc, ma di 1340 cc, con un più di 140 cc; carburatore Bendix a membrana da 38 mm, potenza 65 CV a 5400 giri/min. Coppia massima: a 3800 giri – albero a camme centrale comando a ingranaggi; aste a bilanceri per il comando delle valvole in testa; punterie idrauliche. Trasmissione primaria a catena doppia, finale: a catena, frizione multidisco a secco. Cambio a 4 marce. Velocità circa 168 Km/h.
I pezzi in terra sono della Sturgis, monta lo stesso propulsore della Eletra Glide di 1340 cc che in definitiva è lo stesso bicilindrico del 1903, è cresciuto di potenza e le valvole sono in testa invece che laterali, il cambio è quello separato che piaceva ai costruttori britannici, ed è ancora di Milwaukee. È un 80 pollici ma la meccanica che ha lo rende trasformabile - in officina - fino a 1600 cc. Ha una trasmissione diversa da sempre, sia quella primaria che quella finale sono in Kevlar e fibra di carbonio, una cinghia costruita con materiale spaziale. Lunga 2.300 mm, larga 725 mm, con un passo di 1.587 mm e un peso di 318 Kg; la sella sta da terra 67,5 cm. È diversa dalla Glide nel rapporto di compressione: 7,4 : 1 invece di 8 : 1, la coppia massima è di 3600 giri ed ha diversi rapporti di cambio dalla Glide; la velocità è di 187 km/h.
Mentre scendo dalla macchina, vedo a cento metri, venire a piedi verso le moto un uomo. Sciolgo un po’ gli arti dalla forma che hanno preso nella notte e mentre ruoto il collo per sgranchirmi la cervicale, sento la lampo del sacco a pelo aprirsi, ne viene fuori un tizio di non più di trent’anni: mi guarda e mi fa un saluto con il braccio
- “Salve!”
Risponde il tizio ch’è appena sceso dall’auto, poi quello del sacco a pelo guarda verso l’uomo che sta venendo a piedi, si passa la mano tra i capelli e sente le mascelle aprirsi in uno sbadiglio.
5
Se la mia auto continua io non ho motivo di fermarmi prima, basta seguire la strada e se poi l’auto dovesse fermarsi, se la logica che l’ha fatta andare avanti per tanto tempo è già cambiata si fermerà sullo sterrato e la strada sarà percorsa da vecchie carovane, anche se non hanno più un posto dove andare e non basterà fermarsi e accamparsi perché la meta è smarrita, allora anche la carovana si fermerà. Se il luogo in cui i passi stanno non hanno più una direzione non per questo sono giunti alla meta, se ci fosse un deserto, ci sarebbe il silenzio, ma non ci sono più paesaggi e senza di essi rotte da seguire, il giorno è scomparso e la vita e la morte si disputano solo nel cimitero della guerra, l’urina ha smarrito il percorso, come l’acqua le nuvole: l’aridità ha invaso la coscienza e la nazione non ha da offrirmi che questa strada con la mia macchina, una meta surreale, su cui immaginare il tempo; un tempio finanziario in un deserto di sale che si disputa ogni suo cristallo, così asciutto da non lasciare più all’aria nessuna nuvola di vapore, tutto come l’ultimo tentativo umano di salvare il suo potere. Mi vengono in mente queste cose mentre ascolto il notiziario - tra uno spot e l’altro - dalla radio della mia auto. Eppure in tutto questo bisogna pur salvare qualche momento della nostra vita, dei sentimenti dell’emozioni, se non che, già perché il presente vive se non che, delega a questo concetto aleatorio, la certezza, la convinzione su cui edificare la verità, in definitiva su cosa sia conveniente vivere; di ogni momento della vita che contenga al suo interno un passato e un futuro, un presente certificato, un dubbio un sospetto, che fa della storia umana una raziocinante continuazione di se stessa, dico continuazione, continuazione del se non che, qualcosa che continua a ripetere la domanda solo per eludere la risposta.
Dio, quante persone ho conosciuto così, quante continuano a voler comunicare così, quanti continuano a chiedere ad altri usando le domande che hanno sentito, magari “pronunciate” da media di massa, per avere a loro volta in risposta dal proprio interlocutore delle domande medianiche che li rassicurano sul fatto che quel che loro chiedono è la verità, tanto basta a giustificare la non risposta, a distogliersi dai significati del mondo e dalle persone che cercano di rispondere. Dicevo che ho conosciuto…del resto quante volte alle risposte si incontra qualcuno che ti chiede quello cui hai già risposto e che colpa se ne ha se la risposta genera una domanda che cerchi di eludere il significato della risposta, quasi volesse stabilire un predominio su di essa, come se l’interlocutore volesse stabilire il fatto che la tua risposta non raggiunge il significato della domanda, per poi in modo contorto dare la stessa risposta appropriandosene, come fosse sua, facesse parte della verità che vuole di se stesso rappresentare, e questo in rari casi, vieppiù succede che si preferisce rimanere nell’ignoranza della supremazia, che alla sua domanda non può che esserci un’altra domanda, che confermi questa inutile ricerca che così bene evita che lo status quo non venga alterato dalla verità e così mantenga il motivo che rappresenta la rappresentazione come volontà fenomenologia della volontà rappresentata, in quanto tale rappresentazione della realtà che non può che porre domande a cui non è necessario cercare risposte, a cui non è lecito chiedere il perché di quella domanda, per non svelare il sistema scoprendo che non vi è risposta.; costui è stato così bravo che ha eluso così bene la tua risposta, togliendola da suo contesto di verità, da aver perso non solo la sua efficacia, ma si è trasformata in una domanda a cui non si può che rispondere con la sua domanda, una teoria di gioco, che fa dell’azione e della contrazione, l’unico fattore di profitto su cui determinare un predominio; sta di fatto però che tu riproponi la tua risposta per avere in risposta il valore della domanda, una risposta che acquisisca il valore della verità, è l’assenza di questa risposta che fa dell’esperienza un significato senza contenuto, che dà il predominio, il profitto alla domanda che non è più una domanda, che non ascolta la risposta, che non vuole rispondere. Come se un ateo chiedesse al sapere la risposta che non sa, come se un cristiano prendesse la risposta di Dio per domande, siamo così paradossalmente inconsapevoli che non sappiamo nemmeno ciò che chiediamo tanto da non saper rispondere alle risposte che ci vengono date?
Tra un po’ la strada se pur inconsapevole svolta, siamo giunti alla curva.
6
se questa curva sviluppa una parabola infinità, superata, un’infinita linea troverà davanti, che seguirà un percorso fino alla curva successiva, per mezzo di una parabola, superata anche quella curva, una parabola ci ricondurrà al punto in cui siamo, se poniamo la curva al di là della gravitazione terrestre lo spazio e il tempo formeranno un’unica parabola con una linea di andata e una di ritorno, in un’unica linea, che attraverserà tutto lo spazio fisico dell’universo, la linea nel ritorno supererà la curva di partenza sino al compimento della sua parabola, un’iperbole del tutto simile alla parabola dello spazio-tempo fisico, qualora l’iperbole non avesse la curva, originale, la sua espressione sarebbe perfettamente similare, nella rappresentazione concettuale di un cerchio, perfettamente in equilibrio, in ogni suo punto, con l’insieme della forma dello spazio-tempo. Se superata la curva troviamo la frazione in eccesso, data dalla curva originale dell’iperbole, l’iperbole per eccesso assumerebbe la condizione transfinita della polvere di Cantor, in una condizione gravitazionale, la rappresentazione concettuale della polvere di Cantor può benissimo determinare, così, dalla sbarra fino alla polvere l’evolversi fino alle particelle più piccole della fisica, ed anche in una teoria quantistica che fa dell’infinitesima particella l’elemento che sfugge al limite della velocità della luce, in un gravità transfinita dello spazio-tempo, in cui lo spazio-tempo è contenuto “aritmeticamente.”
Riassumiamo così quello che stava pensando prima di svoltare alla curva; la proposizione ad immaginare come eventi probabilistici: la lunghezza della strada. La possibilità di incontrare qualcuno. Non è sua, appartiene al potere che schiaccia il sapere. Che dice soltanto quello ch’è più conveniente e che si vuol ritenere rassicurante. Aveva sempre definito così le previsioni che trasformano le illusioni in motivi di speranza, le guerre in atti di pace.
Tiene il volante che ruota da sinistra a destra, le ruote accarezzano il cemento della strada, l’auto si muove da destra verso sinistra…e l’altra mano dal basso verso l’alto. Guarda la strada.
7
Il silenzio avvolge, per un attimo, tutto. e lo sguardo è stupito dentro i suoi pensieri … e pur continuando a guidare non vede più la strada, non sente il rumore del motore dell’auto, con il suo corpo che fa tutto quello che deve, e mentre guida una parte della sua mente conduce le immagini che ha dinnanzi in luoghi lontani e astratti, i suoi pensieri prendono spunto dalle cose rappresentate, per rappresentare quei fatti, insieme al loro significato, ai sui desideri che acquistano realtà, una visione scevra di finzione, ch’è al di là della stessa rappresentazione della realtà. I fenomeni che di essa sono la voce sono ciechi. Dalla radio lo raggiunge il suono, le parole di qualcuno che crede di conoscere e mentre torna a pensare alla strada, sente che la consapevolezza non può che accettare se stessa, decidere se stessa, lui stesso volerla, indipendentemente dalla sua non esistenza, indipendentemente dalla percezione comune della strada, da quegli sguardi ciechi che non vede più quando guarda, come ora, al di là… quando non vede più chi gli sta dinnanzi che non sa più capire perché qualcuno non ne vede più la rappresentazione, perché qualcuno ha scelto di non rappresentarsi più. Questo stupore che scioglie le paure, va chiamato con altrettanto stupore, questo incantamento va aperto senza paura. … Lascia che l’aria calda di mezzogiorno sposti un po’ quelle sensazioni, che riempia l’abitacolo dell’auto, lo attraversi e poi torni libera. Sente che ha sete, beve, si stiracchia come può mentre guida, non vuole ancora fermarsi, viaggerà ancora per un’ora.
8
Era seduto davanti alla scacchiera, i pezzi in legno, un po’ consumati. Viveva in una casa prefabbricata del colore dell’argento, che creava con la luce del sole un riflesso, visibile per molte miglia. Quasi tutte le mattine si sedeva a qualche centinai di metri dalla strada, davanti alla sua casa e davanti alla scacchiere, posta su un vecchio legno stagionato che resisteva al sole, al freddo della notte e alle rare piogge. Dal lato del tavolo dove era seduto, guardando oltre la scacchiere, poteva osservare la strada. Quando non aveva nessuno con cui giocare a scacchi poteva succedergli di passare l’intera giornata, solitario a riflettere sugli schemi di partite che per lui avevano avuto l’importanza di rappresentare, non solo il carattere l’intelligenza dei due giocatori che si erano affrontati, ma anche la condizione in cui gli uomini cercavano la supremazia nel mondo, su altri uomini. Aveva ripercorso, mossa dopo mossa la 6a partita del campionato del mondo: Fischer – Spassky, giocata a Reykjavik nel 1972, ed ora era giunto al momento in cui il Nero abbandona, al punto in cui la stabilità aveva rotto la sua logica e il dominio degli spazi dei bianchi determina la fine di ogni possibile tenuta, difesa degli spazi dei neri.
Mentre percorre la strada, ascolta dalla radio il nome di uno scienziato, un fisico che aveva partecipato alle sorti del mondo, nella seconda guerra mondiale e nel periodo della guerra fredda, tra il blocco occidentale, con in testa gli Stati Uniti d’America e quello sovietico della Russia. Un istante prima di ascoltare quello che proveniva dalla radio, stava pensando di come Marcel Duchamp avesse ritenuto a ragione, che l’arte figurativa nella rappresentazione degli oggetti avesse esaurito anche la prospettiva dei significati, del resto pensò, anche con il grande vetro e ancor di più con etandonè, il luogo dell’osservazione, dell’introspezione dell’artista era legato al punto di vista che faceva dell’osservatore la prospettiva con cui l’artista osservava il mondo, ponendo in questa dimensione concettuale la fine della rappresentazione concettuale dell’oggetto. Se adesso per Duchamp l’arte è nella vita, come visione del pensiero che rappresenta se stesso nelle rappresentazioni della vita, la ricerca di un pensiero che la rappresentasse e che la concepisse non più come metafora artistica, ma che fosse espressione del pensiero umano dell’artista, lui, la percepì nel gioco degli scacchi, in luogo del mondo che cerca la verità in un accadere non “materialmente” vincolato - che crea quello scarto che dà alla rappresentazione artistica lo spazio nella prospettiva spirituale…come ascoltò quel nome alla radio, gli venne in mente la teoria dei giochi, a cui il mondo era stato soggetto per così tanto tempo. Come in una partita a scacchi per la conquista degli spazi, i blocchi economici si erano spartiti il mondo, lo avevano armato, avevano fatto guerre locali in un posto e in un altro, a seconda dell’influenza ideologia che determinava il loro domino concettuale sulla percezione del mondo nei vari governi, dentro un terreno mondiale popolato da migliaia di pedine nucleari pronte ad essere mandate e fatte esplodere sull’altra parte della scacchiera. Il gioco diventò così megalomane, che con tutto quel potenziale nucleare si può ancora, distruggere la terra diverse volte, ma il gioco per la supremazia ideologica rese la logica della crescita esponenziale del maggior profitto “possibile”, del sistema capitalistico, vincente sul predominio ideologico comunista, che finì anche per crollare nel paradosso di non poter moltiplicare ulteriormente le sue testate nucleari per rappresentare, la supremazia concettuale…quel giorno a Reykjavik, quando l’edonista Regan e Gorbaciov chiusero quella partita, era già iniziato il processo corrosivo che sta trasformando il mondo in un mostro che mangia se stesso, che avrebbe accentuato le ingiustizie, nella ricerca senza limiti dei profitti, finita la contrapposizione concettuale, per il potere della verità, non è restato che continuare la distruzione, con la falsificazione della paura, dove la guerra è ancora fonte di progresso, in attesa di chi in nome del potere dirà di contrapporsi alle ingiustizie…
Del resto pensò, guardando la scacchiera con i pezzi disposti come in quel giorno del 72, che se la verità ha in se la non necessità di affermarsi in quanto tale, la storia dell’uomo finisce sempre per affermare una verità, sovente avviene che verità contrapposte, perdano la visione di cosa sia la verità, a tal punto che ricorrono alla soppressione di essa sopprimendo una delle due, ma di fatto se la verità non ha bisogno di affermarsi, non può essere nemmeno distrutta, e di fatto avviene che le verità continuano sempre a trasformarsi, assumendo di volta in volta l’aspetto della verità; in realtà la lotta è tra la verità e la menzogna. La trasformazione è tra quel che riusciamo a comprendere e quel che ci conviene comprendere, ed è sempre parte della verità. Del resto l’etica non è il modo affinché quel che riusciamo a comprendere, trovi il suo alter ego in altre possibilità di comprensione, attraverso un “linguaggio” morale che non faccia della convenienza la paura con cui sopraffare per mezzo della forza, “l’altra verità”. In sostanza l’etica non dovrebbe fare della sottomissione, la percezione della verità a cui tutti possiamo appartenere, ma dovrebbe essere lo strumento per mezzo del quale le verità, nelle sue trasformazioni, avvertono di essere possibilità di comprensione della verità…eppure la perdita dell’etica nella guerra, trova la sua espressione nella realtà della morte, che trasforma la verità in qualcosa che non appartiene ai due giocatori della scacchiera, che fa della distruzione della verità, il modo per distruggere le verità, in un bisogno d’immortalità collettiva, che non salva la dimensione individuale dell’essere umano, la sua spiritualità, concettualità, ma lo rende sottomesso ad una morale che non avverte la necessità di scegliere, non ha la necessità di un’etica, la verità che conosce, accetta che non ci siano altre verità e sul tavolo non resta che la scacchiera senza nessun giocatore, senza nessun artista. E a questo punto non si comprende più se l’etica abbia perso, o paradossalmente abbia trovato la sua vittoria.
Vede a qualche miglio, distinguersi appena dalla strada un riflesso del sole, e nell’avvicinarsi comprende ch’è un prefabbricato allumizzato…del resto pensa, cessata la contrapposizione economica le guerre tradizionali saranno unilaterali e il profitto del “gioco” sarà esponenziale quando più le sue “esigenze esistenziali” lo richiederanno, le modalità della guerra come già accade, perdono la percezione concettuale di confine, e chissà con esso anche la giustificazione moralistica…si volta, come passa davanti al prefabbricato guarda negli occhi quella persona che vi vede seduto davanti, vede un tavolo in legno, con sopra, davanti a quell’uomo un scacchiera con i pezzi, che gli sembra seguano il movimento di una partita.
Per un attimo alzo lo sguardo dalla partita e la rivolgo verso la strada, vedo una Ford attraversarla lentamente, quasi l’autista volesse vedere chi sono. Mi guarda ed io lo intravedo nello spazio di luce tra i due finestrini aperti, dell’auto.
9
Sono a metà del pomeriggio e sono giunto in un deserto dal colore rossastro, con delle rocce che formano delle colline che sembrano statue. Questa mattina quando sono uscito dalla stanza del motel ed ho guardato verso il prefabbricato colore del metallo, ho visto il tavolo, senza nessuno, poi ho visto che dentro c’era una donna seduta vicino alla finestra, mi sembrava non avesse più di trent’anni. L’uomo del giorno prima le passa vicino e si siede di fronte a lei. Dato che non vi sono tende e l’interno è illuminato, chiunque passi sulla strada in questo momento può vedere quello che vedo io, forse io mi trovo più vicino, cioè effettivamente sono più vicino rispetto a ieri, quando dalla strada ho osservato quell’uomo seduto a giocare a scacchi…è già qualche miglio che sono dentro questo deserto e sono almeno un paio d’ore che non vedo esseri umani, ora anche il cielo è diventato rosso e l’aria incomincia ad esser fredda. Vado incontro ad una di quelle rocce e la strada le passa intorno, formando una strana curva, al di là dopo qualche metro, con la strada che torna dritta, c’è una donna ferma, in piedi sul fianco della strada, mi fa un gesto con la mano. Io ho tutto il tempo di rallentare e fermarmi, ho attraversato quella curva lentamente. Mi fermo lei mi saluta…”Posso salire!?” Prende il bagaglio, lo appoggia sul sedile posteriore e si siede affianco a me. Mentre parto fa un’esclamazione…poi: “Cos’è?” raccoglie da terra…Appena era salita in auto e chiuso lo sportello, aveva avvertito sotto i piedi uno spessore, andò a toccarlo e lo raccolse, dalla forma che senti, capì che poteva trattarsi di un libro, o qualcosa di simile…Volto lo sguardo per capire di cosa parla e vedo che ha in mano – il Candido Poetastro - …”è un libro italiano, scritto in una forma di poesia fatta di gerghi e pressappoco dialetti.” “Posso leggere?” “Sì.” Lo apre alla prima pagina e sento che afferra le parole mentre la sua voce giunge alle mie orecchie.
Li morti ammazzati
Mazzati, ammazzati ‘sti morti accisi – e oggi ve mazzano de novo – sorgite che cazzo fate: di tutte le guerre razze e colori, perché né più razza né colore c’ha avete da pensà, vanno già sfottuti a tutti quanti, tutti quanti ve sete sfottuti; e mo state morti, morti ammazzati.
Sveja morti perché ve stanno ammazza natra vòta, perché ve stanno a dì le solite cazzate; ve fanno morì accisi co le bombe su lo stomaco, ve insultano morti dell’olocausto con quattro metri de terra chiusa; e li cazzi de li morti e commemorazione dei caduti: che cazzo sete morti a fa’, a che cazzo serve la morte vostra se ve stanno à mazzà ancora, se ve dicono ancora sorgite e annate a morì mazzati tutti quanti pe la libertà di lo altri: che c’hanno a spartì niente co la vita. E allora ve dico io sorgite e spazzate via tutti ‘sti stronzi, tognetece da le palle ‘sti morti che me dicono che devo morì pe la patria, pe Dio; e potè commemorà no la vita mia, ma lu morì acciso. Sorgite saraceni e crociati che la morte vostra nulla più à da rappresentavve, nun ve facete più fregna da ‘ste ombre de vivi che ve voiono da la razza e lì colori, vui che non n’avete, non n’avete più: l’eternità de li dannati vi voijono dà pe continuà a fa la guerra tutte le “mattine”. E se chiamano dittatori o puzza de sòrdi, vui i conoscete, morti ammazzati; sorgite pe sta “maneca…” che continua a dì de sì, pe nu frigorifero o l’eternità, che nun sé scambino pe niente, ma che so diventati la stessa fregnata, … à spacca er suolo se serve ma faje di de no! … perché li sordi nun ce stanno tra li morti accisi, se devono ancora ammazzà.
10
colore bianco la mano sulla pelle. Tira su le gambe, apriti di più, scivoli calda. Eccitata, ci stavi pensando già prima, che venissi qui e ti montassi. Sei la migliore che mi sia mai capitata, sempre in calore, ti piace, e ogni volta di più. Sì! Si…! Non guardare… guardami, hai voglia. Guardami con quegli occhi scuri, con quella pelle nera. Guardami come affondo i colpi e ti senti sciogliere. Non capisci una parola di quello che dico. La prossima volta, ti aiuterò ad ingoiarlo e tu non lo morderai. Vero che non lo morderai… ci penserò io ha non fartelo mordere. Ora prendilo tutto, aprile le cosce. Rispondi! Sì padrone.
Colore bianco la mano sulla pelle, appena appoggiata, sul colore, morbido e scuro, della pelle di lei. Si agita e si sveglia.
“che c’è?”
“Niente dove sono? che succede?”
“Eri agitata mentre dormivi.”
“Non so!”
sento la pelle della mia gamba che sente l’altra mia gamba. La muovo un po’, e accarezzo così il mio corpo. Lui, mi guarda e mi abbraccia.
“è bello baciarti, è bello accarezzarti.”
“Perché ci siamo fermati, non avevi detto che dovevamo proseguire. Che non ci saremmo fermati.”
“è solo per questa notte, per riposarci un po’”
“Perché?”
di fuori c’era solo il suono del vento, che attraversava il deserto. E dentro la stanza il suono della pelle e delle carezze, dei respiri tra i baci. Mi ero fermato lì come in un posto vissuto da un miraggio. Era improbabile che ci fosse quella stanza del Motel, in quel posto. Se avessimo avuto una carta, sono sicuro quel posto non ci sarebbe indicato. E quando mi affacciavo alla finestra, rimanevo sorpreso, nel vedere l’auto parcheggiata, lì davanti. Come se stesse in un altro luogo, lontano dal tempo di quel posto. Non capivo questa sensazione, che chiara era giunta con il calare del giorno. Come guardavo l’auto, mi tornava in mente, la mattina, quella curva che sembrava non giungesse mai. Poi il sorriso di lei. E adesso come la guardavo, nuda distesa sul letto, che mi guardava e mi sorrideva, con un po’ di curiosità, come mi chiedesse, a cosa pensassi. Non capivo dove mi trovassi quella mattina, appena trascorsa. Lei era lì, con la sua pelle scura e vellutata, i seni morbidi, i fianchi accoglienti, il pube morbido e folto, proprio ora ch’era notte, eppure mentre ci guardavamo, ora mi sembra che si sia già in un tempo futuro, che non è ancora vissuto. Questa sensazione di estraneità di questa notte, è come se il mio respiro anticipasse quello che deve seguire, venga prima di quello successivo. Torno a sdraiarmi vicino a lei, le accarezzo la guancia e mentre la bacio non trattengo la mia mano e l’accarezzo sul sesso.
Guardo fuori dalla finestra, e mentre mi vedo disteso sul letto sento nelle mie orecchie il suono, il sibilo e l’esplosione di una bomba, vedo un posto un quartiere, e rimango lì a guardare tutto. E vedo fuori dalla finestra, lontano un bagliore.
Mi sveglio mentre lei mi sta baciando. La guardo e mi accorgo ch’è proprio simile a me, con quei suoi modi, immediati e quel sorriso un po’ newyorchese, quegli occhi chiari, e l’abbigliamento pratico, che trasmette un calore tutto strano, che ti lascia un po’ interdetto. E che come la baci senti le sue labbra che ridono, quasi fosse appena tornata dal mare della California. E mentre le dai un bacio sulle labbra, sfiori con la guancia la sua pelle morbida e chiara. E la guardi che ti guarda, ti sembra di averla sempre conosciuta, di avere sempre voluto passare qualche serata in sua compagnia, di averlo desiderato anche quanto ti chiedevi perché non l’incontrassi, e uscivi da solo, andavi in giro tra la gente, e ti chiedevi se c’era qualcuno da incontrare. Poi,
“Chi sei?”
sei così uguale, ma mi sembri persa. Dove sei stata, dove sei, quando vorrei prenderti tra le braccia, torno a sentire il respiro successivo che viene prima. Tu sei lì, ma la sensazione di estraneità è così forte, come se ti toccassi ma tu non capissi. Come se tu capissi, ma non potessi fare altro che non capire. Come ti guardo ti vedo così simile a me. Se la passione di stanotte mi ha svelato qualcosa di te, stamattina ti guardo come ti avessi sempre vista, ma non riesco a riconoscerti, a sentirti come mi appari, non capisco ma non posso non capire, ti tengo tra le braccia, ma sento la tristezza, la tua gioia mi appare violentata, dimenticata, impazzita di dimenticanza, assurda, disperata è forse questo il suono dell’estraneità che sento dentro, il respiro che anticipa se stesso.
11
“allora dove stiamo andando?” lei mi fa. Le guardo le gambe, le prendo la mano con la mia e la bacio sulla guancia. Penso alla sua carne rosa e tenera. Poi appoggia le braccia sulle gambe e si prende le mani insieme. I pantaloni di tessuto leggero, gli arrivano proprio sulla caviglia e i suoi piedi sono liberi, quasi non fossero americani, per come sono graziosi. Sì graziosi è il termine giusto per descriverli. “come dove stiamo andando? Siamo nel deserto e sto seguendo una strada e poi un’altra. Non lo so!”
“già.”
“un anno pressappoco così, sono andata in giro per l’Europa. Bella Roma Firenze, Napoli, la Sicilia, le Alpi. Praga, Parigi, Barcellona, Siviglia e Venezia, San Pietroburgo e la Loira. Vienna Trieste, Berlino e Amsterdam, Lisbona…”
“ma che dici, tu sei di qui, di questo deserto, dove non so sia la fine e se tornassi indietro, non credo ritroveremmo l’inizio. Di quali città stai parlando, chi hai conosciuto in queste città, che ti rammenta dei ricordi, dove sono tutte quelle cose? Sei uscita di casa tutti i giorni per andare a tutti i balli della scuola, sei vissuta tranquilla senza pensare a un bel niente finché non hai visto, un tuo compagno di classe entrare in aula con una pistola e sparare, al professore, dopo avere ucciso un po’ dei suoi amici. Le città di cui parli le hai sognate, non ci sei mai stata, non avevi neanche i soldi per andarci. Sei stata sempre nel tuo paese, a guardare la figlia del governatore, che partiva per l’Europa, come fosse fatta di tanti stati americani, contee e sceriffi. E che per il solo fatto di iscriversi alla più titolata scuola, avrebbe avuto una vita diversa dalla tua, senza bisogno di dimostrare poi molto. Non ti sei mai lamentata di questo, e non perché, non ti sfottesse della scuola, ma perché l’america è la tua patria e la tua patria ti dice sempre cosa è giusto o sbagliato, non lascia la tua coscienza da sola, non le chiede se sia giusto o sbagliato, la grande patria fa per te quello che nessun altro saprebbe o potrebbe fare. L’importante è che tu ti senta parte di essa, sempre, perché non c’è posto migliore in cui tu possa vivere, nessun posto al mondo è così libero, dove a tutti è detto: è possibile tutto. realizzare il proprio sogno di felicità. Dove puoi sentirti così, in nessun altro luogo puoi sperare tanto, ed è impossibile che questa speranza svanisca, l’intera america dovrebbe svanire, con tutto il suo sogno. A te basta poco in fondo, ti basta sentire di essere parte di tutto questo, di crederlo sempre e al di là di ogni realtà, dimenticando anche in che modo…”
“sei un po’ nervoso, vuoi che ti faccia un pompino. Dai fermiamoci un po’, ho voglia, leccami un po’ la passerina. Non capisco di cosa stai parlando. Io non sono come quelle aggressive di città che ti dicono come deve essere lungo un cazzo per piacergli, quasi fossero ancora delle sceme del college che come delle virago vogliono ancora affermare il loro potere, sul loro sogno americano di frustrate. Io non ho nessun controllo e non ne so niente di tutte queste guerre, della guerra della gente contro altra gente, per un potere e una libertà che mi parla della felicità del mondo, in un gioco di morte. È vero, tutto questo sogno, si riduce a come passare tranquilla la giornata, e fare le cose più sceme di questo mondo, che poi queste cose siano diventate prima superficiali, poi insulse. O forse lo sono sempre state. Ma io non ho avuto altro da fare, tanto che non so più capire le altre cose che ci sono e che accadono, al di là di tutto questo. Il sogno di felicità, è diventato una palla impazzita che rimbalza da un punto all’altro dell’america e che ognuno cerca di afferrarla per primo, e questo fa di noi essere americani. Questa palla deve continuare a rimbalzare sempre più velocemente, perché tutti possano vederla, possano credere che c’è ch’è lì e in qualsiasi momento possono afferrarla. E nessun americano vuole che gli si tolga questo gioco e qualsiasi cosa è necessario fare perché continui, è giusto farla. Ne vale la libertà e chiunque è contro questo, non può che volere il male dell’america e della libertà del mondo. Tutta la storia che posso raccontarti è questa, non c’è molto da fare, l’importate è che l’orgoglio della nazione ritorni sempre a vivere e che dica sempre ciò ch’è giusto, che dio benedica l’america, sempre, è la cosa migliore per ogni vero americano. Ora baciami, facciamo all’amore e lasciatimi fare un pompino, che ne ho proprio voglia.”
Cos’è questo deserto un caos della mente o un miraggio della percezione. O il luogo più vero della terra? Che cosa sta succedendo attorno a questo deserto, se vi è ancora qualcosa intorno, se stiamo ancora andando da qualche parte. Qualche frontiera da raggiungere? E cos’è che avviene nella coscienza, qui. Proprio qui in questo momento, dove l’orizzonte ha due colori diversi, non c’è un mare che unisce il cielo e la terra. Riposare lo sguardo, in alcuni momenti sembra impossibile, come non riuscire a chiudere gli occhi. Se non ci fosse l’aria della notte, il sole finirebbe per bruciarli, perché si dimentica di chiuderli, come se guardando il sole se ne dimenticasse la bellezza.
“Fermati fallo salire, chissà dove deve andare? Poi… mi sembra di conoscerlo, credo sia americano?!
“dov’è che va?”
“lì dove stavo, un po’ più avanti.”
“chissà chi sono questi due. Lei mi guarda come mi conoscesse. Ed io so ch’è impossibile, forse c’è qualcosa dentro se stessa, una parte della sua coscienza, che le chiede chi io sia. Come se fosse importante, come se saperlo potesse farle ricordare qualcosa a cui aveva tenuto, ma che non è riuscita a conservare. Come se all’improvviso, una sensazione ancora indefinita le rammenti una possibilità a cui aveva così creduto, più di una speranza, che dimenticato il fatto e quello ch’è accaduto, ha scordato che quella speranza non ha avuto mai realizzazione. Che quello ch’è accaduto è stato proprio la sua negazione. Non ricorda, percepisce soltanto dentro il ricordo di una sensazione che non è mai avvenuta, ma a cui aveva così sperato, ch’è stata la prima cosa che gli è tornata in mente quanto mi ha visto. Chissà, avrà pensato di conoscermi, e non ricorda esattamente cosa avesse sperato, né quale fu la sorte di quella speranza. È rimasta viva dentro di lei il ricordo di quella speranza, come una sensazione a cui aveva affidato un desiderio così profondo da essere parte di una gioia più grande. Se anche quella gioia non ha avuto luogo, è stato così forte quello che provò, che ha dimenticato quello che non è avvenuto, ricorda solo in maniera imprecisa quello che le è rimasto di intimo di quel tempo, quello che non potendo far altro ha dovuto accettare, ma non per questo, quella immane delusione le ha fatto dimenticare la possibilità della gioia che avrebbe potuto provare e per cui si sentiva così partecipe, già prima che si realizzasse. Non mi ha riconosciuto. Credo che non mi conoscesse neanche allora e se le chiedessi perché? mi risponderebbe: cosa avrei potuto fare, ci abbiamo veramente creduto, poteva accadere, ma non ci siamo riusciti, ci hanno permesso di provarci, ma ci hanno umiliato, non eravamo dei loro. Mi sentii ferita, ingannata, non capivo perché ci trattassero così, ci avevano sempre detto, parlato di un paese libero, che dava speranza a tutti. Ma la loro idea di giustizia non ammette soluzioni, solo conseguenze che spazzano via ogni speranza con un convincimento di certezza che non ha dubbi, né possibilità, che spazza via ogni verità in onore di un bene che non appartiene a nessuno, di cui non è giusto sentirsi responsabili per chi risponde di no. Perché quel no non deve esistere, non esiste, anche se nessuno lo ha mai pronunciato, non c’è niente che può infrangere questa assoluta idea di libertà. Perché quel no è l’idea stessa di quello che immaginiamo come il nostro bene, come la possibilità per ogni essere di determinare la sua sorte, nessuno può scegliere per te, ognuno è artefice di se stesso e il male non deve impedire all’americano, ad ogni uomo libero di essere responsabile solo del bene, verso se stesso la patria e la famiglia del più grande paese libero del mondo. In tv è pieno di predicatori che parlano di un dio giusto che aiuta i giusti e che disperde gli ignari e gli stolti che non accettano la grandezza di dio, che con il regno del male vogliono invadere la coscienza dell’uomo libero, mortificando i costumi e le abitudini che hanno fatto dell’america il paese più democratico del mondo. Non ci sarà pietà da parte di dio per tutti gli immondi fornicatori, che distruggo la morale della famiglia e i costumi del popolo, perché dio è forte e misericordioso con i suoi figli, ma spietato e senza remora, con chi disobbedisce ai suoi comandamenti. Dio ci ha dato il mondo libero dal peccato, e Adamo come Eva, hanno inzzozzato il mondo, con il ludibrio e la menzogna. Ma noi non siamo come coloro, no! Noi non rinneghiamo la fiducia che ci è venuta da dio, perché dio è potente e ci salverà, ci darà la forza per schiacciare la testa del serpente che ci vuole ingannare. Sentite dentro voi questa forza che cresce, che vi rende un unico corpo, che vi fa grandi nella nazione di dio. Dio ama l’america e ama chi ama l’america, perché l’america è lotta contro il male, contro la persecuzione e la menzogna, contro le dottrine che negano a dio la sua grandezza. L’america ha sempre vinto tutte le battaglie che le sono venute dal male, da chi sperava che la sua sorte fosse prigioniera delle forze del male, ma dio è buono e pieno di bontà, dio è misericordia infinità e non ha mai permesso che il male sconfiggesse l’america e il popolo di dio che vi dimora.
Lei ogni tanto si gira e mi guarda, ma non osa chiedermi nulla, il ricordo di quella intimità, non le fa credere possibile che io possa sapere di lei, di quella sua speranza infranta, che la fatta sentire così vicina a me, senza che io nemmeno sapessi chi fosse. Eppure in quella estrema solitudine, tutti mi sembravano in un modo o nell’altro di aiuto, di fatti anche io credo di conoscerla, ma non ho scelto di dimorare sulla sua terra, perché un posto ancora più lontano mi è apparso più vicino, il cuore di una terra, a cui non avevo mai pensato prima, al di là dell’atlantico vicino l’Africa. Del resto proprio la tua speranza infranta, si è persa per sempre dal suolo americano, e la mia polvere, il mio corpo che ha assorbito la tua energia di morte e bene al contempo, di eternità e giustizia, non mi ha dato nessun calore nessuna redenzione, spietato e senza responsabilità, hai deciso per dio e gli uomini. Ci siamo incontrati in questo deserto, ma io sono più avanti. Forse tu hai ricordato e quando ti volti a guardarmi, sai e non sai chi io sono, ma non dici niente. Non capisci, come sia possibile, perché è accaduto e perché ora.
Può fermare qui, scendo. Sono più avanti, sto più avanti.”
“Noi proseguiamo ancora.”
“Grazie, mai io sto più avanti e sono già arrivato.”
12
“Che si fa!? È proprio notte ormai. Credo proprio che non incontreremo nulla.”
“Non so può darsi tra un po’. Forse un’ora, ci sarà un distributore di benzina, magari con qualche stanza.”
“Sono stanca di viaggiare, non credo che ci sia qualcosa più avanti. Fermiamoci. Hai qualcosa in macchina: un sacco a pelo, dormiremo in macchina. Poi ancora non fa così freddo.
“Non credo che troveremo della legna, magari per accendere un fuoco sotto le stelle.”
“C’è sempre qualcosa da bruciare. Volta ed entra un po’ nel deserto, non fermiamoci troppo vicino alla strada.”
“ Il sacco a pelo è nel dietro, c’è anche una tenda. Che può essere ben chiusa, per evitare serpenti…Senti per la legna non so se è il caso. Così al buio o con la pila in mano, chissà cosa rischio di pestare. Usiamo la luce interna dell’auto, poi comunque c’è una scatola di fagioli e un forellino a gas, l’acqua ne abbiamo fino a domani. …È proprio un bivacco di altri tempi.”
Quanto siamo certi che le stelle che si vedono che sono così tante da non poter essere contate con esattezza, né sappiamo se tutte ci siano ancora, come ci appaiono. Domani saranno ancora lì allo spuntare del giorno, non si vedranno ma saranno lì. Eppure questo assioma che spesso viene pensato da chi si trova sotto un cielo pieno di stelle, un cielo di stelle, passa di tempo in tempo da persona a persona. E chissà cosa avviene nella coscienza di ognuna di esse ogni volta che nello spazio della vita, dicono, pensano ciò. Cosa sarà ricordato dalla persona che segue dell’esperienza di questa frase detta dalla persona che la preceduta. Eppure essa avrà provato qualcosa, non solo per averla pronunciata, ma perché il mattino seguente ciò, deve essere espressa questa condizione della percezione, perché il mondo di intendere la vita, il modo di vivere con gli altri, il modo di chiedere e fare le cose, deve essere diverso. Se tutto scorre, cose, se nulla fosse cosciente, come se ogni evento non determinasse niente altro che un’illusione di aver capito certe cose, che vanno in quel mondo che suscitano nell’uomo sempre le stesse emozioni indipendentemente, da qualsiasi cosa accada nella vita per ognuno. Indipendentemente da questo se tutto continua come se niente fosse mai stato pensato percepito, vissuto, tanto che la nostra approvazione, il nostro dire le cose ci porta a ripeterle al di fuori della realtà, come se la realtà non facesse parte di quello che succede quanto pensiamo, o quando ci emozioniamo o sconosciuta essa ci appare. E ci emozioniamo sempre con le stesse convenzionate ripetizioni che non hanno in sé nessuna scoperta, nessun libero pensiero e proprio mai nessuna nostra libera azione, (proprio perché torniamo come degli schiavi a dire che la realtà non fa parte di quello che pensiamo). Tutto ci scorre addosso e i nostri pensieri sono vuoti, autenticamente insignificanti perché non c’è il coraggio di viverli, non sappiamo comunicarli, proprio per questo. Siamo schiacciati dalla nostra comune espressione delle nostre esperienze, e come ciechi impazziti rifiutiamo, ne rifiutiamo la realtà e con essa neghiamo che chi sia, sia libero di vivere queste rinnovate ed uniche esperienze di vita, e che la realtà ci appaia con la nostra coscienza di comprenderla e di sapere che esiste ogni volta, e al di là di ogni volta. E allora i pensieri non accadono invano, così sono vivi. Fare all’amore è sempre eternamente nuovo e accade perché vuole capire la realtà, come un gesto sotto un cielo di stelle. Il pensiero sotto un cielo di stelle fa sì che un uomo un solo uomo, cambi il mondo per sempre. Ed ogni nuova volta è questo che deve avvenire, e tutto quel che segue a questo è il mondo che cambia in questa visione dell’esperienza. Quel pensiero sconosciuto ma comune l’uno all’altro, trova per questo la possibilità di esser conosciuto, profondamente conosciuto. Se nulla scorre senza che nulla appaia, non vi è più la possibilità di sapere cosa sia un cielo di stelle, né se la vita ne faccia parte.
Siamo nella tenda e lei si muove carponi per entrare nel sacco a pelo. Sento una certa gioia fisica nel vedermi nudo, mentre guardo lei nuda che si muove con naturalezza. Non è molto tardi, ma credo che domattina ci alzeremo con il sorgere del sole. Perché credo questo, forse solo perché l’ambiente in cui siamo non ci dice altro sul tempo, dove lo stiamo trascorrendo.
“Restiamo un po’ sopra il sacco a pelo, accarezziamoci un po’.”
“Dimmi sei americano?”
“Che vuoi dire?”
“Sei italiano? Sei europeo? Dimmi se sei americano.”
“Di dove credi che sia? Vuoi che sia americano, o forse non lo sono, che hai. Sono italiano, sai dirmi come sono se sono italiano?”
“Ti piaccio?”
“E io ti piaccio?”
“Oddio io sono americana e ti piaccio!?”
“Ti stai ingarbugliando, vuoi che tu mi piaccia perché sono italiano? E se non lo fossi?”
“Ma sei americano? L’Europa…”
“L’Europa, che vuoi dire?”
“Perché, sei qui con me? Perché non sei, con un italiana o una europea?”
“Avrebbe fatto differenza? Credi di doverti dare una spiegazione, o non ti importa della spiegazione, cos’è che vuoi sapere da me, perché sono qui con te? Eppure mi hai sempre detto chi fossi, ma ora hai bisogno di sapere se io sono americano. Che vuoi che ti dica, che le donne sono puttane e una vale l’altra, che ogni donna è unica. Che quando faccio all’amore amo tutte le donne, se non c’è nessuna, o amo quell’unica donna come se le rappresentasse tutte, perché non c’è nessuna, o che amo la donna che amo perché è tutto ma non prigioniera, che amo la donna ch’è se stessa perché sa essere se stessa in tutto il mondo, quando solo io la conosco quando fa all’amore, che tutto il mondo lei conosce quando conosce solo me, che la guardo in tutto il mondo. O io e lei ci conosciamo e conosciamo il mondo quando facciamo all’amore insieme, c’è in tutto questo un momento assoluto oltre tutti? Mi guardi un po’ agitata. Sono proprio io che ti agito, ma proprio io non voglio, e cosa devo dirti, che in fondo tutto il controllo sociale del mondo passa attraverso il controllo, l’omologazione della donna, che l’assurda competizione su chi detiene il significato dell’esistenza è solo una lotta per la supremazia sociale del potere sessuale, come appagamento per il controllo delle funzioni di potere, che su questa spinta sessuale si gioca il processo dell’accoppiamento sessuale e del tutti contro tutti, per il tutto, mogli mariti e figli. Hai il timore che io e te siamo qui, insieme nudi per uno strano gioco di potere? Nonostante un deserto immenso e sconosciuto che ci circonda, nonostante che nessuno sia qui a guardarci, che nessun media possa mostrarci al mondo, venderci. C’è nella tua testa tutto il mondo, questo mondo, che sta da qualche parte, che non ci lascia mai e che vuole precedere i nostri pensieri, spegnerli renderli irriconoscibili. “Sono americano?” è una domanda che nasconde troppi interrogativi, che forse non ti lascia il tempo di riflettere, mi sembra che per te dipenda il mondo intero, da quel che tu vuoi che significhi ciò, la mia risposta, dovrebbe afferrare ciò che tu non sai e ciò che tu non immagini, così chiaramente da spazzare via tutta l’incertezza che essa pone alla coscienza, alla tua coscienza? O quella del mondo? Voglio abbracciarti e rassicurati, perché sei qui con me, forse è la cosa più semplice che chiedi, ma vorrei abbracciarti e rassicurati, perché non saprai pormi questa domanda, neanche in questa sua estrema insolubilità, quando non sarai con me, e finirai per cercare di eludere anche il mio abbraccio e baci di rassicurazione, non ti guarderai e più, non vorrai più vedere nessun cielo di stelle, chissà se per tutta te stessa, non vorrai più abbracciare nessuno e nessuno potrà rassicurarti. Ora ti abbraccio perché è possibile, perché è reale. Quando non sarà più possibile sarai così ossessivamente certa, che non ti sarà possibile capire.”
“ Di quale cielo di stelle parli?”
“Quello vissuto insieme qualche istante fa.”
Estrapolare in questo sospeso suono, lontano da un forse che non richiama che la scorsa sentenza di un percorso troppo ignaro e funesto, ma soltanto in questo ci si appresta. Funesto o per questo tutt’altro che questo me, non di meno sembra certo come una trappola che non indugia che stordisce per eccesso di chiarezza. Se il mondo che parla pronuncia, dove le parole troppo dicono ma non per questo se il sognare è del sognare il vedere dormendo è altro che non il sognare. E se di un gesto o una visione si tratta, è soltanto la fantasia vissuta dalle parole che ne richiama il tempo. Eppure si cambiano le cose. Se il sonno mi dice in questo modo, se non vedo più la notte eppur tutto in questa notte stellata è immerso, come se non ci fosse null’altro che questo in questo universo, dove forse mi agito, o sono tranquillo e immobile come dormo, mentre in questo flusso di parole mi tiene sveglio. Dove sto dormendo in questo momento, e questo momento è lo stesso di ieri sera? Eppure non vedo nessuno con me, non vedo più né l’auto, né la tenda, né lei ch’era con me, sto camminando nel deserto nella notte e attorno a me non ci sono che le sue ombre, fin nella stella più lontana dell’orizzonte che come un sole troppo lontano sorge nella notte per un’alba notturna del mattino. Per il resto l’aria è fitta nei polmoni e tagliente all’occhio, e il gesto lontano di quella stella mi mostra un mare solitario e notturno, un riflesso sull’acqua dove la luce notturna della luna non t’appresta a chiarirti. Non so se sono fermo per timore, o solo per un’incertezza. Credo che se immaginassi saprei come per un’instante medesimo all’atto di camminare e non saprei quando il deserto si tramuta in acqua, tanto che il mare che vedo davanti a me non mostra una riva. Eppure questa immaginazione dove non si può immaginare, non svela chiaramente dove io sia. Questa immaginazione più simile ad un’immagine dentro un’altra immagine non mostra la percezione del presente che vivo, l’assoluta nitidezza del pericolo che incombe e che una strana quanto palese, ma lo stesso misteriosa coscienza fa sì che essa sia rivelazione di calma ed equilibrio estremo in un abbandono dentro cui tutti gli eventi sono dominati, sin nei più terrificanti momenti e dove la stessa paura sta nell’attimo estremo della sua scomparsa, dove nulla può rendere certo l’accadere se non l’estrema forza di quel che accade, sia esso sovraumano, quanto l’umano non disumano che riesce a sopravvivergli, quanto in quel momento a vivere in un istante senza più immagini, né rappresentazioni, ma la pura visione del tempo oltre la stessa visibilità della conoscenza. E da quell’acqua calma uno strano essere vi è sorto, immenso come tutto il mare, ma visibile con il solo occhio umano e un suono profondo incombeva su ogni attimo di quella vista, poi pur vedendolo questo immenso essere appare invisibile e sul mare sono apparsi degli uomini che fermi stanno all’in piedi sull’acqua e la loro visione fa si che la percezione che se ne ha è di un immenso movimento che avanzava a riempire l’intera percezione di tutto lo spazio, seppur immobili la vista di questi uomini dà all’intero apparire questa visione di incombenza, tanto che la vista di quell’essere sorto dal mare ne sembra ridotta e meno pericolosa. Poi all’improvviso il suono profondo di quell’essere avanza sulla vista fino a far temere che essa non possa più contenerne la visione, che rompe il suo limite e una sensazione di fine incombente viene attraversata e ci si scopre ancora vivi, poi un’altra volta quel suono e ancora quella sensazione, e così e così. Quel mondo sorto dalle profondità invade tutto e attraversa tutto ed ora son vivo seppur immerso in tutto questo, non vivo per vedere ciò, ma ancora vivo in tutto ciò. Quel suono è solo, ma il più potente che ci sia e seppur si sentono miliardi e miliardi di voci che comunicano tra loro esse son diventate fasulle, perché quel solo suono del potere soggioga la volontà con la distruzione della vita, quel suono senza più udito che non sa farsi ascoltare da chi lo pronuncia toglie l’azione alla vita, né obnubila il significato in una sicurezza che ne riempie la vista e che dà da vedere la menzogna per verità l’uccisione per la vita, l’odio per l’amore. Quell’essere sorto dal mare di quella notte scruta interrogativo il mondo, chiedendosi, cosa sia quel suono profondo che scaturisce da se stesso, e senza consapevolezza si interroga se il mondo sia quel che vede, se lo sia diventato. Poi emette dalle immense fauci della sua bocca un suono così violento, tra la disperazione e la rabbia come se quel che è accaduto fosse accaduto perché nessuno si è opposto al suo volere, come se la soddisfazione del suo potere fosse la sua stessa condanna che non sa superare oltre la vista di quel che vede e in essa è rimasto prigioniero. Con tutta la violenza del suo corpo s’immerge nel mare, che s’innalza in immense onde che mi precipitano addosso e che mi tolgono per un istante tutta la vista e la coscienza del sapere, ma il mio respiro continua senza che sembra più esserci, poi il buio e in un istante la notte e il deserto.
La mattina quando esco dalla tenda, il sole è già un po’ alto sull’orizzonte. Riguardo intorno e non vedo la strada, cerco di capire in che direzione possa essere osservando la posizione in cui è la macchina.
“Sai credo che ci siamo allontanati un po’ troppo dalla strada, non la vedo più.”
Lei si affaccia dalla tenda carponi, esce e si alza in piedi. Siamo nudi tutte e due, ci guardiamo, ci avviciniamo per la voglia di sentire la nostra pelle che si tocca.
Lei mi bacia e si appoggia con la testa a me: “Tra un po’ quando il sole sarà più alto, si vedrà la strada.” Le accarezzo le spalle, sui reni, mentre la bacio, le accarezzo e la spingo delicatamente verso me, tenendole le natiche tra le mani. Lei si distende e apre le gambe per accogliermi, lascio che mi preda e seguo il suo gesto, per essere con lei. “Cosa provi, quando entri dentro una donna, fisicamente?” è una sensazione sempre nuova, ti coglie sempre uno stupore di piacere quando sento la carezza del sesso femminile sul mio sesso.” “Mi coglie!?” “Dici…credo di si.” “è bellissimo fare all’amore tra la natura, con l’aria, il sole i profumi, i “promani” che si uniscono e uniscono, e ogni bacio ogni sensazione sembra più di questo. Se tutto l’universo.” O lui e lei.
“stiamo un po’ in silenzio, tienimi e accarezzami, ogni tanto i capelli, dammi qualche bacio di coccole, stiamo sdraiati così, ti tengo la testa sulla spalla.”
Siamo lì in silenzio, lei è così rilassata, le accarezzo la guancia e i capelli, le do un bacio sulla fronte, poi sento che mi accarezza, mi bacia il corpo, il petto, sotto il collo e sento bagnarmi, l’accarezzo e la bacio sulla fronte, poi la guardo, le dico: “Hai fatto la pipi.” Lei, mi abbraccia, mi viene meglio sopra con il suo corpo e quando può guardarmi negli occhi, mi bacia.
13
il pullman era appena partito, ed io dopo una di quelle strane curve di quella strada nel deserto, ora sono seduto in un drugstore. Avevo già fatto benzina e lei era andata in non so quale direzione dell’America…quella coincidenza con il pullman era stata strana come consueta, ma certo, per me non preventivamente plausibile. Come del resto anche il fatto che sono ora qui seduto… dato come si era messo il viaggio, non immaginavo più che cosa avrei incontrato lungo la strada. Ora mangio poi compro un po’ di roba per il proseguo del viaggio. La frittata che sto masticando non è poi male, anche se ha uno strano aspetto quasi non fosse stata ben sbattuta, prima di essere cotta. Del resto non posso certo dire che ho avuto subito chiaro cosa chiedere, non mi veniva proprio niente nella testa, come del resto, che il fatto di essermi alimentato in modo consono ai miei gusti, ma più adatto alla cucina mediterranea, per giunta vegetariana, mi aveva appena fatto immaginare che, non ci fossero che hamburger, o bistecche e pancetta, e al massimo un uovo all’occhio di bue, e un mare di strane salse, già poste lì sul tavolo. Del resto sono forse nella patria dei desideri, e il fatto che in un semplice drugstore io senta essi incapaci di esprimersi, perché difficili da immaginare, non vuol dire certo che il mio appetito sia meno sensato o che la mia fame meno vera. Già! in questo immaginare di essere in un luogo che dà alla teoria del caos la sua più quotidiana espressione, può essere fuor di luogo immaginarlo. Del resto se l’indiano che è seduto in un tavolo un poco più in là, pensando alla cultura spirituale da cui proviene e ai cicli e ai frutti della terra, del mais per gli hopi, potrebbe parlarmi che nell’equilibrio della mente e del corpo, ciò che la natura toglie, la natura dà e che la capacità di sentire il mondo tal fatto è opera che dà alla saggezza umana lo scopo affinché le azioni umani interpretino il volere del grande spirito e si perseveri la conservazione del mondo. Perché se vi è un volere sovra umano, la comprensione del perché dei propri desideri. cerchino il proprio equilibrio nei bisogni naturali dello spirito dell’uomo, non può eludere che tale equilibrio risiede nel grande spirito che tramite esso mette in equilibrio gli uni e gli altri e a se pone la conclusione di tutte le cose animate e inanimate. Chissà forse andando avanti nel deserto, incontrerò un gruppo di Aborigeni, che mi spiegano che l’evoluzione della spiritualità in un mondo creativo umano, ha dato alla percezione della identità, la conformazione del pensiero come espressione unisona che dà alla spazio e al tempo i punti nello spazio spirituale in cui la vita del mondo ripercorre tutta la sua esistenza sino al mondo oltre lo spazio e il tempo di cui la terra è l’ultima espressione. L’equilibrio degli aborigeni ch’è siffatto in quaratamila anni storia e che pone la questione che lo spazio e il tempo dell’equilibrio tra i desideri e le necessità, pone in gioco quelle che sono le capacità intrinseche di analisi del mondo interiore ed esteriore su un piano spirituale e percettivo intellettuale evoluto. È entrato in un conflitto interiore nel rapporto con una cultura che viepiù ha espresso il suo essere nel sogno di eternità di un concetto come: nulla si crea nulla si distrugge tutto si trasforma, in un’ottica meccanicistica scientifica. E sono sicuro che quel tipo là che si sta abboffando di salsa e carne, seduto in un altro tavolo, di un diverso colore se mi dovesse spiegare cosa intende per teoria del caos e come pensa di porre equilibrio agli eventi del mondo, e come pensa di esserne parte per l’equilibrio, del mondo e per la stessa teoria del caos che crede di avere scoperto in base alla sua ipotesi creativa scientifica ex novo di un mondo che esisteva già prima che lui lo immaginasse, mi risponderebbe dicendomi che i miei desideri sono come i suoi che mangia e caca e scopa, forse userebbe una terminologia più sofisticata e scientifica, ma il senso della sua esistenza e gli effetti della sua consapevolezza, sono tutti nell’equilibrio scientifico degli effetti del mangiare del cacare e dello scopare e il senso della sua felicità sta tutto nel gioco tra il masochismo e il sadismo che tra tali atti serve per determinare il bene e il male, il buono e il cattivo e il potere che stabilisce il significato del perché una cosa sia bene o male buona o cattiva, in funzione del controllo che si ha sugli effetti del comportamento umano nell’ottica di ciò che li ha provocati. Ora quel gruppo di aborigeni che forse incontrerò nel deserto, non ha visto distruggere la sua percezione spirituale intellettiva da un mare di virus che un modo meno naturale di vivere delle cultura del: nulla si crea nulla si distrugge tutto si trasforma, ha da sempre generato e combattuto, quanto vinto e rigenerato, ma dal fatto che l’identità di questa cultura dà un senso spirituale più agli oggetti che alla loro creazione e che la costruzione di questi oggetti non “hanno” nessun rapporto con il mondo spirituale tanto sono lontani dalla realtà con l’equilibrio del grande spirito e nel rapporto creativo del senso spirituale sul significato della vita in quanto perpetuazione dell’equilibrio tra i desideri e le necessità, nell’ambito di un arco di tempo spirituale che contempla la vita e la morte, non come surrogati scientifici, ma come necessità dell’esistenza spirituale. La terra non è più un luogo di accesso ma un crogiolo caotico di effetti senza senso nello spazio e nel tempo. Ed ecco che questo mondo materiale dà alle sostanze che lo compongono qualcosa di emotivo e di spiritualmente involuto, tanto che intellettualmente l’intelletto cerca il dominio sulla coscienza della percezione dello spazio e del tempo, rompendo irrimediabilmente l’equilibrio evoluto dello spirito che ha dato alla dimensione umana un senso eterno al senso dell’equilibrio tra i desiderio e la necessità. Del resto sono sicuro che quel tizio un po’ più in là seduto a quel tavolo, che magari teorizza sulla macrobiotica come libera ricerca dell’esperienza dei comportamenti, all’interno del suo psicologismo comportamentale, crede che il rapporto con l’alcol di un aborigeno sia lo stesso di un alcolizzato della nostra cultura scientifica degli oggetti, una stessa depressione alcolica, in effetti ciò che vede è lo stesso effetto, eppure nel suo costrutto mentale, nella sua forma mentis che gli permette di percepire quel che vede come l’ha costruita, nel senso e nel significato del dove l’ha costruita e soprattutto in funzione del suo sviluppo per il controllo. Non riesce minimamente a capire la profonda differenza delle causa, e concretamente in questo non ha nessun rapporto nel valutare, percepire quale sia la similitudine nell’effetto. Giacché se entrambi sono sopraffatti dal rapporto con gli oggetti, l’effetto della birra nell’aborigeno è un estremo tentativo di ritrovare la sua percezione interiore di identità spirituale attraverso la terra che ha perso nella sua religiosità i luoghi materiali spirituali per l’accesso con lo spazio e il tempo dell’equilibrio universale, l’alcol e la birra come energia inconscia che dà all’oggetto birra la conformazione di terra materiale dello spirito. Mentre nell’alcolizzato scientifico la disperazione è espressione di non potere controllare il potere sugli oggetti in quanto effetti a lui ignoti quanto forma di appagamento sociale, a cui non ha più accesso in quanto unica possibilità per un senso finito dell’esistenza, lo stesso potere che lo priva è lo stesso potere di cui ha bisogno per essere. Se entrambi sono sopraffatti dagli oggetti, l’uno lo è per ricordare, l’altro lo è per obliare quel ch’è costretto a sapere e pensare in quanto spiegazione universale, che condanna e giudica nella preclusione di ciò che è considerato come bene e buono. Entrambi dalla percezione culturale scientifica sono visti come in fondo stupidi, ma se nella valutazione dell’aborigene ciò è paradossale di quanto sia vacua e limitata tale definizione di intelligenza, nell’altro l’aspetto paradossale rende ancora più esponenziale la tragedia umana dell’aborigeno, che così si coniuga con quella del paradosso che sul controllo dei desideri genera un effetto universale umano che porta l’uomo nella negazione delle” ricerca delle cause, e in esso” amplifica l’illusione dello spazio e del tempo come caos preordinabile che fa dell’effetto controllabile la fine ultima della spiegazione della sua causa in quanto gestibile nell’ordine del potere e non della conoscenza come percezione dell’inconoscibile. Il più grande paradosso che si verifica sta nel fatto, che non si cerca la conoscenza della morte e delle “sua” cause prime, ma si cerca un effetto sulla morte come espressione del potere che controlla gli effetti della morte, senza che questa faccia parte delle cause che hanno determinato tali effetti, come se la vita non sia più la causa ultima, ma un effetto della morte che ne nega l’evidenza, perché ha il potere di controllarla: il potere della morte che controlla la vita, con il potere che controlla la morte. In effetti questo può essere l’effetto di tutti gli effetti di onnipotenza siano essi, grandi o piccoli. Sta di fatto che se Gesù Cristo ha voluto porre fine a questo, non lo avrà fatto forse, perché l’uomo sia dio in quanto onnipotente, ma forse che sia eterno in quanto Dio, e in quanto Dio causa di se stesso in quanto uomo e in quanto uomo non causa di Dio. Ma motivo del suo gesto in quanto Dio che all’effetto del potere, da la causa del perché è Dio in quanto uomo, perché è Dio in quanto Dio. Non vi sono più oggetti, né recipienti più piccoli che non possono contenere recipienti più grandi, in un uomo siffatto, che percepisce la resurrezione di Gesù.
Continuo a mangiare la mia frittata, l’unica cosa che prendo dal tavolo è il sale, credo che chi l’ha cucinata abbia dimenticato di mettercelo. Del tipo di un uovo all’occhio di bue senza sale da prendere e mettere lì sul tavolo. Una donna si siede al mia tavolo, non di fronte a me ma spostata alla mia sinistra, lascia libero il posto che ha al fianco di fronte a dove sono seduto io, che chiudo lo spazio disponibile per chi voglia sedersi alla mia sinistra di fronte a lei. Non vi ho pensato quando mi sono seduto, istintivamente mi sono seduto nel punto più vicino da raggiungere e quello in cui è più rapido andarsene. In effetti qualora qualcuno decida di sedersi nel posto libero al mio fianco, io dovrei alzarmi. E ciò in definitiva potrebbe determinarsi non soltanto per l’eventualità che tutti gli altri posti e tavoli del locale siano occupati da altre persone, ma anche dal proposito di volersi sedere in questo posto del locale perché meglio posizionato. Parte di questa riflessione era stata del tutto in fondo alla mia decisione di sedermi qui, e non so quanto ora vi abbia riflettuto per il fatto che questa donna ha deciso di sedersi qui; se per il fatto che non so se aspetta qualcuno che si siederà di fronte a me, o soltanto per il fatto che abbia deciso di sedersi qui, pur con altri tavoli disponibili. Se la descrivessi dovrei soffermarmi sulle forme del suo corpo: da come porta i capelli o all’aspetto di donna che già ti mostra quale sia il suo possibile carattere mentre fa all’amore, quando è nuda e la guardi lì con te, ch’è la cosa che mi è venuta addosso come l’ho vista sedersi, nel mostrarsi così com’è nella generosità delle forme del corpo, non da quello che mostra, ma da quello che mi appare e che appare di ciò che vuole mostrare facendo credere che lei non voglia. Ti viene forte addosso nella mente l’odore del suo corpo e il sapore della sua pelle e il tenerla mentre lei si dà come la baci. Ma lascio tutto ciò lì nei pensieri, perché se è lì tutto ciò c’è anche quello che tutto ciò sfugge alla consapevolezza di lei, come qualcosa che lei possiede ma che immagina gli altri non sappiano, come se lei stessa non volesse sapere quel che possiede perché gli altri non “sappiamo” che lei conosce quello che gli altri vogliono ma non possono avere, perché è lei soltanto lei a sapere quel che possiede e gli altri non possono che non saperlo se non è lei a farglielo credere. In definitiva tutto quello che ho visto venirmi addosso come l’ho vista, potrebbe non accadere mai, lei ha paura di scoprire che qualcuno conosca e scopra questo suo desiderio di essere conosciuta, senza né essere controllata, né controllare.
Mi sono seduta qui e non credo che in fondo lo abbia fatto così, per puro calcolo o soltanto perché è il posto che mi è sembrato più vicino a quello in cui mi volevo sedere. Sono entrata qui perché avevo fame, ma mi sono seduta nel punto in cui chiunque volendo nel sedersi al mio fianco mi chiude la possibilità di uscire facilmente dal mio posto, e credo di averlo fatto di sedermi qui soltanto per aver guardato questa persona ch’è seduta di fronte a me, lasciando la parte esterna del tavolo a lui… sono eccitata, dico che gia prima di entrare in questo drugstore ho sentito l’umidità sul sesso ed ora che sono seduta ho ancora quella voglia sul mio corpo e non riesco a pensare a nessuno che conosca è solo il mio corpo che parla con me e mi lascia questo piacere che vuole esprimersi dentro i miei pensieri, facendomi stare tra la gente così con la voglia di toccarmi e di essere toccata. Guardo tranquillamente ma senza soffermarmi, la gente ch’è nel locale, qualcuna incrocia il mio sguardo. Guardo la persona ch’è seduta nel mio tavolo, non direttamente ma attraverso il campo visivo che ho di fronte, non so se mostrarmi chiaramente e magari pronunciare qualche frase con quello che sento dentro, con il rischio di non farmi capire. Di non farmi capire, che sto pensando, in che senso non farmi capire. Devo essere naturale non è la prima volta che mi sento così, e non sono l’unica donna a cui succede questo. Meglio che inizio a mangiare, come mastico il primo boccone gli occhi mi vanno su di lui, che mi guarda e mi fa un garbato sorriso, rapido e tutt’altro che invadente. Rispondo istintivamente sorridendo appena, con le labbra chiuse, mentre sto masticando. Mi sento un po’ sorpresa, eppure non vi è nulla di strano, se non il fatto che il mio desiderio cercava qualcuno con cui comunicare, ma guardo il mio piatto e non so proprio cosa dire, vorrei rispondergli qualcosa, ma faccio finta di niente. Emotivamente lei non comprende se quel che vorrebbe rispondere apparirebbe come qualcosa di intimo, che mostra il suo desiderio. Non lo sa ma vorrebbe trovare il modo di parlare di quello che in questo momento ha dentro, anche con una conversazione aperta su altri argomenti che diano a quei suoi pensieri una partecipazione, che in definitiva sposterebbe il controllo di quel che sente sull’argomento espresso. Ma a questo punto dovremmo riflettere e lei dovrebbe riflettere se ciò non si rivelerebbe come un espediente per dominare la situazione e superare la consapevolezza che lui può avere di lei, della situazione che sente dentro, magari in un conflitto nell’argomento trattato. Se apparissi stupida in definitiva comportandomi così. Lui non deve sapere quel che pensa, ma allo stesso tempo lei vuole che lui riesca a capire quel che lei sente e che trovi il modo affinché lei lo esprima, ma che lei non volendo esprimerlo mantenga il controllo e il dominio su di lui. Ciò che io sento di esprimere potrebbe darsi che per lui sia qualcosa di diverso se fraintende e magari pensa che ho voglia di intimità di essere compresa e desiderata da lui, se magari lui fraintende e pensa questo, ma se anche io voglio questo è giusto che perda così il controllo della situazione, non devo fargli capire nulla, del resto è solo uno sconosciuto e perché dovrebbe essere qualcuno a cui io senta di dover dare questo che sento dentro. Ma se lo conoscessi, in fondo mi piace, e se non mi piace” potrebbe piacermi, ma non voglio che lui capisca ciò che voglio.
Lo guardo un attimo, poi guardo il sale sul tavolo: “Le serve il sale?” “No, grazie.” Cosa avrà capito dal mio sguardo… in fondo che motivo aveva di dirmi grazie, crede che sono in confidenza con lui, o vuole far vedere ch’è gentile?
Che strano, dal grazie che ho risposto, alla domanda che lei mi ha fatto, si è aperta e allo stesso tempo ancora più difesa, quasi avesse paura che gli altri mostrino i propri sentimenti quando parlano con lei. È evidente che ha paura di mostrarmi qualcosa, che ha pensato a qualcosa di suo e dentro ci sono finito anche io. Eppure sono sicuro che in una conoscenza intima quanto formale e vuota, in cui sono sicuro spesso è, avrebbe finito per gratificarsi dicendo al suo amico quando fosse gentile nel ringraziala per avergli chiesto il sale, come la considerasse importante conoscerla, e non perdesse occasione per mostrarle attenzione. Eppure ciò è qualcosa di così neutro che non saperlo far vivere nella naturalità della quotidianità con degli sconosciuti, o presunti il contrario, per proprie paure. Immettendo in ciò un sentore di scortesia, o un apparire di altezzosa cortesia, quasi per giustificare quel sentore di scortesia come un modo in cui si concede agli altri la possibilità di partecipare del suo mondo. Eppure stranamente è qui seduta da sola, queste donne di solito hanno sempre bisogno di avere intorno qualcuno o qualcosa che formalmente le faccia comunicare con questa immagine che hanno di se stesse e del mondo come secondo loro deve essere visto. C’è sempre poco talento in tale atteggiamento, ma poi in definitiva ciò è proprio di ogni costrutto o ceto sociale, si differenzia solo nell’apparenza della forma, lasciando immutata la sostanza. Chissà se allora non sta aspettando qualcuno.
“Prendo dalla borsa un biglietto.”
“Scusi!?”
“Mi scusi se mentre mangia la disturbo con la mia borsa.”
Come risponderle, adattarsi al sentimento conflittuale che ha dentro e dirle faccia. O faccia, non si preoccupi. Non c’è problema. È molto gentile, grazie, per richiamarla al grazie dettole, di prima. O dirle chiaramente mi scusi, ma mi sorprende un po’ con le sue attenzioni, voglio dire, distinguono in modo pregevole il suo carattere, e sinceramente ne sono incuriosito, e non vorrei sembrarle scortese, dato che siamo qui seduti mangiando insieme se pur ognuno per proprio conto, ma il suo aspetto è decisamente attraente, e vorrei dirle il mio nome, per conoscerla meglio, per il tempo che le sarà possibile intrattenersi qui a questo tavolo, e se vorrà anche oltre. Se le parlassi così, ci sarebbero tutti i pesi e i contrappesi formali che richiedono il momento. Ma la guardo negli occhi e le sorrido.
Prendo dalla borsa quel foglietto in cui ho appuntato alcune frasi, chissà perché mi è venuto il desidero di leggerlo proprio ora: Pullman. Del mangiare, equilibrio globale. nulla si crea nulla si distrugge, tutto si trasforma. Società emotivizzata. Accendono il televisore, e vedo sullo schermo l’immagine del presidente che parla alla nazione americana, rassicurandola che il male sarà battuto e che nessuno potrà distruggere i principi americani, di libertà e democrazia. Ma che c’entro io con questa storia del terrorismo, penso mentre la gente vede le immagini di guerra e pensa all’orgoglio della nazione che viene difeso, con la precisione delle immagini intelligenti delle bombe intelligenti all’uranio impoverito che potenziano l’effetto e contaminano dove esplodono. In fondo che vadano tutti a quel paese. Mentre guardo quelle immagini e la gente attorno a me, lancia i suoi commenti più o meno imbecilli, sul diritto del presidente di fare la guerra per difendere i principi dell’america, come fosse ora di farla finita con tutti, entrano nel locale degli agenti e arrestano un tizio. È un terrorista l’ho sempre sospettato, dice uno vicino al bancone, dopo che gli agenti sono usciti, che gli arrestino tutti prima che vengano a sporcare le nostre città e che li tengano in galera anche senza processo, se serve, fin quando quegli stronzi dei loro amici capiranno che non possono stare in america e fare quello che vogliono. Un tizio nel locale gli risponde, ma come si fa ad arrestare la gente senza nessun motivo, solo in base a dei presunti sospetti e tenerlo dentro senza motivo per quanto si vuole. Spengono la televisione. Io mi sono distratta un attimo guardo gli appunti e li rimetto in borsa. “ Voglio vedere se ti mettono una bomba sotto casa, poi che fai.” Mentre torno a mangiare, guardo inavvertitamente la mano della persona ch’è al mio tavolo, e mi trovo un attimo sorpresa a rivolgergli lo sguardo, senza sapere cosa dire. Vedo che lei mi guarda e non sa cosa dire, con la mano sta per prendere la posata – “buon appetito!” – le dico. In fondo lei ha osservato quello ch’è accaduto nel locale, tra la gente come se fosse presa da qualcosa d’altro, come se quei problemi non la toccassero molto, solo per il fatto che non aveva voglio di pensarci, non afferrava in fondo questa storia, lontana dalla sua esistenza, se non per il fastidio dell’incertezza che qualche bomba potesse esploderle sotto casa. Che si facesse in fretta a risolvere tutto ciò e se c’erano altri problemi che se la sbrigasse il governo. Eppure mi era sembrato che non sapesse bene di cosa si stesse parlando in quel momento nel drugstore, quasi non fosse americana e fosse capitata in quel momento in america e stesse ascoltando per la prima volta quelle notizia alla TV. Del resto non le è affatto svanito quell’aspetto con cui l’avevo vista, quel suo modo di pensarsi, ma in che modo avrebbe vissuto questo suo sentirsi ora nel mondo, e qual è l’identità che esprime? Credo che non tergiverserò, non medierò il mio desiderio, ciò che mi ha suscitato. Senta, io non ho potuto fare a meno di guardala – lo guardo come se niente fosse, ma non riesco a capire cosa voglia dirmi, non mi sento eccitata come qualche istante fa e non ho nulla da nascondere, in fondo che può farmi. – voglio dire di pensare che se fosse stato possibile le avrei trasmesso subito il mio stato d’animo, con quello che mi ha suscitato lei, subito appena l’ho guardata. Non capisco a cosa si riferisce!? Che cosa ho detto, perché gli ho chiesto se ci fosse qualcosa a cui potesse fare riferimento. Voglio dire che l’ho vista dentro i miei desideri di bellezza… ma… non m’interrompa. No, ma credo che si sbaglia, mi sento di nuovo eccitata ed è solo per il fatto che sto parlando. Mi ha interrotto ed ora è un bel casino, credo che lei sia già al punto in cui non le servono più le parole e vorrebbe essere abbracciata, ma non riuscirà ad arrivarci, si aggrappa a queste parole, sa che qui in questo locale per certi versi è protetta dal suo desiderio, che così non può accadere, non per colpa sua. Se volessi solo sedurla ora sarebbe il momento di raffreddare un po’ la situazione, con una frase che le desse la possibilità di sentire che ha il controllo della situazione, per sentire la sua risolutezza di cui è convinta esserne la prima artefice. Del resto ha bisogno di sentirsi iperattiva intellettualmente come lo sarebbe se dovesse dirti cosa è che vuole da te, in che modo vuole che vada il mondo, dimostrandosi così sicura di sé in questo, che tutto quel che di materiale possiede apparirebbe come la prova lampante del suo carattere ed esclusivamente del suo volere. Ma del resto se ora le dicessi… ma non tergiversare. Certe volte sembra impossibile realizzare o esprimere i propri desideri, sembra quasi che quello che abbiamo dentro abbia bisogno delle domande giuste affinché venga alla luce nel modo che ci appare come il più naturale possibile. sembra come se il controllo che possediamo delle nostre percezioni, non possa restare chiuso in noi e debba necessariamente trovare il modo per cui esse possano essere esperite con qualcuno, in fondo credo che sia il modo più vero, o più naturale, affinché riusciamo con esse a parlare ai nostri sentimenti, lasciandoci la possibilità di ascoltare quelli degli altri, altrimenti come faremmo a parlare con qualcuno senza che questo qualcuno non si accorga che ce qualcosa di altro che pensiamo, ma che rimane inespresso solo perché pensiamo che se perdiamo il controllo di esso perdiamo la possibilità di gestire la nostra vita come immaginiamo essa debba essere. Sembra quasi che non ci resti altro che difenderci da noi stessi per difenderci dagli altri. Spesso siamo lo stesso impauriti da quello che gli altri possono dirci, quasi che gli altri in questo possano comprenderci facendo esperienza di ciò ch’è nostro senza che noi possiamo averne coscienza. Se ciò fosse, come non posso certo negare che ciò avvenga, non è certo sensato, credo per questo che noi si faccia del tutto perché gli effetti per evitare questo, sia”, gli stessi comportamenti che ci fanno padroni di noi stessi ma che hanno lo stesso effetto su di noi di ciò che volevamo evitare. Del resto gioco forza spesso chi si difende aggredisce e offende, come colui che aggredisce e offende, la sostanza del volere non cambia se non cambia lo scopo del perché ci si difende e con esso il modo in cui ci si difende. Se non sappiamo più distinguere ciò che può essere modificato, e in questo non vediamo la possibilità di poter modificare il nostro atteggiamento che ci dice che dobbiamo difenderci oltranzisticamente da chiunque “immaginino” possa in un modo o nell’altro scoprire le nostre difese, in realtà ciò finisce per dimostrare che il nostro primo avversario siamo noi, e che le nostre intenzioni sono le sole da cui è necessario difenderci, è l’unico modo che resta per non riconoscere il nostro errore e continuare ad affermarlo, costringendo anche gli altri a vedere in loro qualcosa da cui doversi necessariamente difendersi, perché ciò appare come l’unica possibilità che essi hanno per disporre dei mezzi per difendersi. Tutto ciò sembra un pensiero lontano da quello che ti ho detto all’inizio. Eppure con questo ragionamento voglio solo comunicare e spero comunicarti che il più semplice gesto di questo mondo può essere anche il nostro gesto se in esso siamo liberi di trasmettere quello che sentiamo e quello che possiamo guardando il mondo, trasformandolo in qualcosa di certo e che c’è, come quel gesto che per questo abbiamo compiuto. Cosa c’è per esempio in questo momento che impedisce che io ti prenda la mano. Credo nulla e se ti prendo la mano e tu finisci per stringermela andiamo oltre e allo stesso tempo prima delle parole, eppure credo che non vi sia cosa più naturale a questo mondo che sia tu per prima a prendere la mia mano, senza che nemmeno tu abbia ascoltato tutto quello che ho appena detto, quasi che tu volessi ascoltarlo, fossi pronta a farlo senza sapere cosa ti dirò e scoprendone il perché, che in parte conosci per quanto esso ti appartiene, bada non inconsapevolmente ma come una parola che segue un’altra parola, che la precede e la segue che la segue e la precede, fino ad essere parte di tutti i gesti, un discorso compiuto che si compie. Il gesto generatrice non può che appartenerti in quanto capace di chi genera, non vi è affatto in questo una prerogativa di controllo, ma la possibilità di conoscenza, che sempre propone. Non vi e come per esempio in noi duo in questo momento fascinazione, la l’affascinamento. Non ho complimenti da farti se non dirti che ti desidero, che ti amerei e che ho nella bocca il piacere dei tuoi sensi. Se mi avesse risposto quando gli ho chiesto se lo disturbavo con la borsa, se in quel momento avesse detto che ne so, che potevo tranquillamente disturbarlo, io gli avrei fatto sicuramente un complimento, avrei visto cosa voleva da me, magari saremmo stati lì a parlare del più e del meno, poi forse avrebbe finito per toccarmi la mano e io avrei fatto finta che lui mi proteggesse, che stesse un po’ con me finché mi andava, e che avrei voluto per tanto la mia, la sua attenzione. Ma così ora non capisco cosa vuole, non mi era proprio venuto in mente che volessi conoscerlo e poi, magari, e non poteva sapere come mi sentissi, non ho fatto nulla per darlo a capire, se l’è immaginato lui. Perché dovrei dirgli di sì. Perché dovrei impiegare del tempo a conoscere questa storia, a stare qui per sapere che, che c’è in fondo da sapere, lui non può certo immaginare quello che ho pensato, e non immagina neanche quello che sto pensando ora, non sa che sono eccitata e non sa che mi fa arrabbiare perché non mi ha detto subito quali erano le sua vere intenzioni. Ho fatto bene a prevenire ad non iniziare a parlare, conversare con lui, chissà cosa avrebbe finito per pensare e mettersi in testa di chiedermi, e cosa avrei dovuto rispondergli poi io, no ho fatto bene ad impedirgli di esprimersi, di dire la verità, su quel che sentiva per me, non può certo dire ch’è per colpa mia se adesso è a questo punto, se non sa cosa io penso e mi parla dei suoi desideri per scoprirlo e magari imbrogliarmi dicendomi quello che mi credo voglio mi si dica, in fondo lui non sa niente di me, ed è stato proprio scortese a dirmi quel grazie, per il sale che gli ho chiesto. Adesso telefono a John e gli dico di venirmi a prendermi. Mi scusi sa ma aspetto qualcuno, vede ho lasciato apposta il posto libero, che credeva. Quello che le ho detto, null’altro. Ah! Mi scusi vado un attimo in bagno, può stare attento alla mia borsa. Non si preoccupi la ritroverà. Sì! Certo, e ovvio – si guarda intorno un po’ incerta, ma in quel momento tutti quelli nel locale erano presi da se stessi e nessuno aveva notato quello che era accaduto al nostro tavolo. Nostro tavolo. Lei si sentì leggermente girare la testa. Vado in bagno. Arrivederci! Arrivederci…! Quando tornerò se ne sarà andato, vuol dire questo con questo arrivederci? La guardo camminare verso la toilette, chiamo il cameriere e pago il mio e il suo conto, stavolta so che non la potrà prendere per scortesia, quando tornerà al tavolo si sentirà profondamente sola, e al primo istante come saprà del conto pagato, avrà un piccolo sorriso, di piacere o soddisfazione, per un po’, poi farà finta di dimenticare tutto. Esco dal drugstore, salgo in macchina e torno nel deserto.
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la notte continuava impervia, dopo che per tutto il giorno il sole aveva picchiato, sulle pietre, la sabbia, la terra e i cespugli erbosi del deserto. Lui per tutto quel giorno era stato seduto sulla veranda davanti casa, con lo sguardo nel vuoto davanti a sé, o chissà a contemplare quello che sembrava essere il tempo che passava negli eventi straordinari quanto invisibili della natura che guardava. Non abbiamo mai saputo quale fosse la sua condizione d’osservatore, in quel momento. In effetti nessuno gli ha ascoltato dire qualcosa in proposito. Era giunto a sera e si chiedeva come mai quel giorno nessuno fosse passato di lì. Accadeva spesso che per vedere un auto, o una moto, o qualche volta un autobus, potessero trascorrere molti giorni. In tutto quel tempo che lui è in quel posto non ricorda nessuno che abbia finito per fermarsi per chiedergli qualcosa, o solo per riposarsi. La sua casa appariva non troppo vicina alla strada, e sinceramente se non c’era lui seduto sotto la veranda dell’ingresso da quella distanza sembrava disabitata, ed è così lontana da qualsiasi posto abitato intorno, che fermarsi qui si ha la sensazione di non potere più ripartire. Era seduta nel pullman da più di un ora, leggendo quel libro da un po’, e come dal finestrino vide la città pensò a quell’uomo seduto sulla veranda nel deserto, come a tutta la sua città che si era persa essa stessa nel deserto, era attorniata da miglia e miglia di sabbia e vento e nella città tutto era quieto come se nessuno sapesse quel che aveva intorno, ogni tanto immaginava che qualcuno sarebbe venuto dai margini della città raccontando che una strana sabbia stava avanzando da quella parte, e che occupava pian piano la città, ma nessuno nella città prendeva in considerazione quelle parole, quella persona venuta da un posto che non apparteneva a quel che loro conoscevano o che immaginavano potesse accadere… capolinea! Si svegliò all’improvviso e un po’ intorpidita dal viaggio ch’era durato tutta la notte, nell’udire la voce del conducente del pullman, guardò il libro che aveva appoggiato sulle gambe, si ricompose, prese quel po’ di bagaglio che aveva e scese dal pullman, solo in quel momento si accorse che era bagnata, e che si era pisciata addosso, senza accorgersene, proprio mentre era addormentata. Vide una signora anziana guardala e disse: mi si è rovesciata addosso la bottiglia dell’acqua. Non erano ancora arrivati ed erano fermi per una sosta, in un drugstore nel deserto. Quando il pullman ripartì lei decise che avrebbe continuato, in altro modo il viaggio, magari trovando un passaggio.
Era un po’ che viaggiavo nel deserto, per un po’ intendo tutto il giorno, ed è un po’ che guido nella notte, con le luci dell’auto al massimo, senza incontrare nessun automezzo o qualcuno, nella notte si sente solo la musica che ho nello stereo dell’auto, come fosse l’unico richiamo per i serpenti e gli scorpioni che attraversano la strada è come se tutta la natura intorno non vi facesse caso, né si stupisse per essa. Un suono nella notte tra i suoni della notte del deserto. Intravedo alla mia sinistra, sotto la luce della luna, la sagoma di una casa e dal piccolo bagliore di luce, presumo ci sia una veranda con qualcuno sedutovi sotto. Più che una casa sembra una capanna, eppure nella notte mi appare solida tanto da resistere alle possibili tempeste di vento che in ogni istante possono verificarsi, senza preavviso. L’uomo ch’è seduto sulla veranda assomiglia ad un indiano d’america, i suoi capelli sono lunghi, ma la sua pelle è chiara, nonostante il buio, alla luce del piccolo lume acceso il colore della sua pelle risalta. Quasi che la sua stirpe sia precedente all’america stessa, quasi che fosse anch’egli seduto lì, come prima che diventasse un indiano. È seduto ed ha tra le mani appoggiato sulle gambe un bastone, e le sue mani sono scure, come abbronzate dal sole, per quel tanto ch’è penetrato al di là della veranda. Mi osserva mentre lo guardo e come sto per parlargli mi dice che c’è sempre un giorno in cui ciò che sorge dalle profondità della terra, si mostra alla luce e reclama qualcosa da noi, un sacrificio che appaghi per un po’ la sua sete, e che gli permetta di far finta di sparire, per tornare alla prossima apparizione. L’uomo mi fa cenno con la mano di sedermi alla sedia che è un po’ più là della sua. Non sappiamo se questa apparizione appartenga al mondo delle cose materiali, al mondo inanimato della materia. In realtà non sappiamo neanche se esso sia fatto di terra o di carne, se sia un fantasma o uno spirito e se appare solo a noi o a ogni essere della terra. È certo che gli effetti della sua apparizione si diffondono su tutta la terra e nello spirito degli esseri che la popolano. I nostri pensieri ne sono come posseduti e la vista dell’uomo è attraversata dalla coscienza dell’uomo che non riesce a vivere nello stesso momento in cui la forza dell’apparizione reclama il suo sacrificio. E allora la coscienza prepara un pasto e lo ripone per quando sarà il momento, per quando l’apparizione si mostrerà solo in sogno e gli incubi ne premoniranno l’esistenza e quel pasto della coscienza nutrirà la consapevolezza dell’uomo affinché l’uomo trovi la forza per combattere i suoi incubi e lasciarli nella profondità della terra a dimorare senza che essi possano reclamare nulla all’uomo. Se l’uomo non disturba il sonno dell’apparizione con i suoi desideri, gli incubi non si materializzano e il male che da essi genera l’apparizione del mostro del potere non ha più bisogno di conoscere il sogno degli uomini e reclamarne il sacrificio, con la morte della coscienza che vuole dominare il mondo. L’apparizione non ha l’aspetto di una visione, né quella del sogno, essa è manifesta come la materia, ma come la materia non ha coscienza, essa è soltanto volere e forza, non è più un incubo, ma la realtà senza spirito della coscienza. La distruzione che da essa proviene non appartiene al sacrificio per lo spirito, ma affinché essa possa tornare ogni volta che il potere ne risveglia il sonno di morte in cui dimora. Alla sua forza non ci si può opporre, perché per essa il tempo non ha conseguenza, i suoi incubi, sono come i sogni per gli umani. Lo spazio del suo tempo è finito, ma di gran lunga più lungo di ogni vita umana, di cui pretende ogni volta che appare il suo inutile sacrificio, barbaro come la morte stessa dello spirito della coscienza. Non vi è sogno o soluzione per l’uomo della notte e del giorno che quello di far vivere la coscienza oltre la veglia del tempo e del sogno. Se la tua anima è prigioniera, il tuo cuore sarà prigioniero. E se la prigione ama la tua anima, il cuore del carceriere è la prigione del tuo cuore. Se il carceriere non è libero dalla sua anima, l’anima lascia il carceriere alla sua prigione, come l’uomo che vuole prendere il sogno di un altro, per imprigionare il sogno di ogni uomo, il sogno dell’uomo non ha bisogno di nessuna prigione e non dimora in nessuna di esse, ma nel mondo dello spirito.
È giunta la luce del primo sole mentre le ultime parole venivano pronunciate dall’indiano. Lo guardo mentre si alza ed entra nella casa. Io resto lì a guardare come la luce si diffonde nello spazio, cambiandone l’apparizione che ne ho avuto nella notte, vedo l’indiano uscire dalla casa e venire verso di me tenendo una scatola tra le braccia, mi guarda in piedi mentre io resto seduto in attesa che mi dica qualcosa che mi faccia capire. Poggia la scatola a terra e dice: queste sono delle provviste, hai dimenticato di comprarle, per un po’ ti basteranno. Io ora vado via e tornerò quanto” il sole sarà alto e poi all’orizzonte, dentro c’è un letto puoi sdraiarti e riposare.
Era tornata la sera, e mentre innesto la retro marcia, vedo sulla veranda, quanto il sole sarà alto e poi all’orizzonte, alzare il braccio e salutarmi, lo saluto alzando il mio braccio, mentre volto il volate dell’auto e mi dirigo sulla strada nel deserto.
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cos’è che spiega lo spazio della coscienza, se le situazioni ci appaiono, o sono mutabili, l’effetto non muta, genera la stessa conseguenza, lo stesso scopo nel significato del loro perché. Come se il perché non avesse nessuna possibilità di esistere al di là di questa conseguenza e dello scopo che ne ripete l’effetto e il significato. In ragione di cosa è possibile dire di essere qualcosa di diverso dall’effetto che immutabile si verifica ogni che si mostra attraverso la conseguenza? Questo movimento della coscienza, che in realtà è un non movimento affidato alla possibilità di prevedibilità che un effetto ne determini un altro, diverso ma medesimo, fa sì in definitiva che il significato della coscienza trovi sempre la plausibilità della spiegazione attraverso la semplificazione del suo significato, come volontà espressa dalla coscienza che dà valore all’effetto in quanto verificabile dal volere dei bisogni della coscienza, che sono propri del significato dell’effetto. Chi sia chi in definitiva, non ha poi molta importanza, giacché il portatore della coscienza fa riferimento a cosa sia cosa, per verificarne la validità dell’effetto sulla coscienza, come significato di essa, in rapporto a dove sia dove il perché del significato della coscienza. La ragione del termine rappresentato così trova connotazione e motivazione nella portata numerica della volontà della coscienza in quanto autonoma dal significato in quanto percepibile dal solo effetto del termine sulla coscienza, e non del significato della coscienza sul termine enunciato. L’enunciato non è più variabile, ma primo elemento del significato della coscienza in quanto effetto irrinunciabile del perché delle conseguenze dell’effetto sulla coscienza. L’irrinunciabilità delle conseguenze per l’effetto sulla coscienza è il ché essenziale affinché la coscienza trovi le sue motivazioni nell’enunciato. Il termine così fatto è infinitamente modificabile in quanto aspetto dell’enunciato stesso della coscienza attraverso l’effetto, che per effetto conseguente a questo non dà più alle conseguenze il significato della coscienza ma della non coscienza dell’effetto in quanto ché consequenziale dell’enunciato del significato salvaguardato dall’effetto che sempre deve determinarsi al termine dell’effetto come rappresentazione della volontà del termine nella coscienza, modificando il ché del significato. In tal modo le infinite possibilità della coscienza trovano nella spiegazione del termine sempre il medesimo significato attraverso lo stesso effetto sulla coscienza al di là dello stesso ché della coscienza, sempre spiegato dall’enunciato dal termine per la determinazione della sempre stessa percezione della coscienza attraverso il termine sull’enunciato per il suo effetto. Cosa sia rimasto del termine libertà nello spazio che così si svolge…se non la sua immutabile volontà di rappresentazione al di là del tempo composto dalla rappresentazione della coscienza, che al significato pone in rappresentanza di sé l’effetto che dice quale sia la valenza del termine sull’enunciato, al di là del ché del significato, ma solo posto dove sia la valenza della volontà che pone il termine come espressione dell’enunciato nel dove della coscienza, dando allo spazio e al tempo infinito il termine di coscienza della conseguenza in funzione dell’enunciato dello spazio e del tempo della convenienza della volontà sul significato del termine, per il ché della coscienza, come modificazione dell’effetto in funzione della probabilità di non modificare l’effetto sulla coscienza da parte del termine, che rinuncia all’enunciato in funzione della probabilità come enunciato del significato della coscienza della parola libertà, che trova mutabilità in cosa sia, quanto in dove e quando, cosa sia, rinunciando a chi. Senza chi il termine non è riconoscibile se non in qualsiasi effetto ad esso associato e la coscienza in ogni enunciato si modifica ma non si modifica, nella non riconoscibilità del termine. Se non vi è più uno spazio e tempo, vi è lo spazio e il tempo nella non riconoscibilità o riconoscibilità del termine sulla coscienza siffatta, in quanto né relativo né assoluto, né irrinunciabile, ma pur tuttavia possibile senza essere possibile, senza un ché, né più un dove o per causa di chi. Ciò ch’è possibile è possibile perché produce un effetto a cui è associabile un termine, al di là del significato del termine, senza che questo termine abbia una fine o sia relativo a – ma solo un non dove e un non chi. Il termine libertà sussiste? E l’esperienza appartiene? E l’annullamento della materia per mezzo della materia, è un enunciato della coscienza, o la sua affermazione sulla coscienza? E l’esperienza della conoscenza trova spiegazioni nell’esperienza o nella coscienza? E il tempo della coscienza è il quanto dell’esperienza? E in una contemporaneità come quella appena narrata non ci è dato sapere, più, se in quanto e in quando si sviluppano, in un’origine e in una successione allo stesso modo di dove e dopo, come spazio e tempo fisico percepibile dalla coscienza quando immaginabile, ed esperibile, quanto la cessazione probabilistica della fisica, e della scienza. Come esperienza che dà consistenza all’esistenza dei fatti dell’esperienza nella realtà dell’immutabilità della vita.
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non è soltanto una questione di vita o di morte. Ma di libertà dentro tutta la vita. Se io conosco un fatto per quello che realmente rappresenta, la ragione che mi porta ad interpretarlo è la stessa che me lo fa raccontare alla gente alle persone che da esso trovano il motivo per interpretare quel fatto, dentro l’ottica della loro riflessione, come ragione e motivo del perché io faccio attraverso quel fatto dell’informazione.
_ ma in ragione di ciò se all’interno di chi determina il fatto vi è un motivo perché esso giustifichi quel fatto, più in un ordine del tempo immediato o di un interesse su un altro, ciò che tu riporti non è altro che l’informazione così come ti è data all’interno di uno o l’altro ordine di convenienza. Ciò che racconti in definitiva non è più il fatto nel suo svolgersi, ma lo stesso modo che usi di riportarlo è il suo stesso significato, come dire ch’è il modo in cui è più plausibilmente recettibile da chi né interpreta il significato, sia esso un lettore di giornali di saggi o ancor più immediato della TV. In ragione di ciò colui che convoglia in un effetto di sinestesia ultrà mediatica l’informazione, riesce non solo a far fare le cose in funzione di essa, ma genera gli stessi principi della comunicazione che danno a te il modo per cui la costruzione mentale delle persone si adatti all’interpretazione del significato, che tu, da come hai detto usi per comunicare e rendere la notizia accettabile dal fruitore, in funzione del suo sistema mentale di interpretazione.
_ se in ragione di ciò io mentissi, non mentirei, giacché ciò che io riporto è la fedele interpretazione logico sintattica che dà all’interpretazione della forma mentis del fruitore il codice per il significato di verità dell’informazione ricevuta. In effetti più l’effetto sinestetico è sinergico tra le varie forme d’interpretazione medianiche, più apparirà come avente delle possibilità di differenziazione, ma in effetti la modalità stessa dell’informazione dà il contenuto al significato emotivo dell’informazione in ragione del funzionamento del modo interpretativo della forma mentis, che cerca l’appagamento allo stimolo che dall’informazione gli deriva. In ragione di ciò il contenuto dell’informazione deve sempre appellarsi all’appagamento emotivo, in quanto unico modo di determinare la possibile frustrazione per l’appagamento attraverso l’accettazione della forma mentis della verità, come conseguenza non eludibile della propria convenienza, percettiva, quando deduttiva delle rassicurazione del controllo sulle possibili insicurezze del fruitore. In questo modo la menzogna non ha più scopo, perché quello che avviene non è niente altro che il modo per dire quello che si vuole sentirsi dire, nell’unico modo possibile in forma della ragione come espressione della verità dei fatti.
_ di fatto la conseguenza morale è delegata all’informazione in quanto notizia che dice quello che avviene in funzione del fattore interpretativo della ragione, che trova nell’apparato sintattico emotivo da esso generato la rassicurazione della propria percezione del significato. L’uso sintattico non è per l’espressione dell’esperienza della persona e della sua collocazione temporale, quanto di spazio in quanto tattile visivo, concettuale, ma è d’uso sempre più formale per il suo componimento, all’interno dei vari canoni della comunicazione in funzione degli effetti sinestetici dell’informazione, come logica interpretativa della rassicurazione emotiva che per mezzo di essi è motivata, per dire quale sia l’uso e il significato che l’esperienza logico emotiva deve avere dello spazio in cui si trova. Per esso la sua dimensione è determinata dalla non elasticità qualitativa del suo uso, a favore di una modalità quantitativa, quanto omologata degli effetti dei termini e neologismi. Il neologismo Non trova interpretazione all’interno dell’uso individuale, che dinamicamente si adatta liberandosi dalla sua struttura sintattica in funzione della comunicazione dell’esperienza interpretabile quanto più dinamicamente possibile in ragione della sua “evidente” rappresentazione, e in funzione di ciò modificando il contenuto sintattico e tramite esso quello del modo della comunicazione, ampliandone le possibilità all’interno delle interpretazione possibile, quanto a lato astratte immaginative. Il neologismo è sempre determinato omologaticamente in funzione o di un oggetto privo dell’esperienza o dell’esperienza priva dell’oggetto, ma sempre identificabile all’interno della comunicazione di massa. La paradossale liberazione che si verifica in una dimensione siffatta dell’informazione si realizza in una funzione sintattica che determina l’uscita omologabile in quanto possibilità di emancipazione sociale quanto culturale del gruppo a cui si fa riferimento all’interno del sistema globale della comunicazione. In mancanza di una sintassi che scruti la coscienza e indaghi sul senso della comunicazione in funzione di una sua creativa emancipazione per la trasmissione dei contenuti dell’esperienza dell’individuo, in quanto peculiarità di conoscenza aperta. Il significato paradossale dell’informazione è determinato dalla modalità sulla prevaricazione dell’interpretazione. Se dal lato della sintassi degli oggetti si assiste ad una concezione tribale priva di qualsivoglia identità individuale, ma in funzione di una identità tribale vieppiù superficiale che non ha una confutazione di equilibrio spirituale, ma solo una valenza di appartenenza attraverso gli oggetti. Dall’altro la sintassi tribale trova sussistenza in un processo di sopraffazione del significato dei termini, come conseguenza dell’interpretazione dell’informazione in funzione del controllo prima delle modalità interpretative e tramite esse delle competizione per la supremazia di una o l’altra. L’affermazione dell’esperienza per l’appagamento delle proprie insicurezze fa si che la sintassi sia conseguenza non della conoscenza aperta, ma risultante dell’azione che ne stabilisce la superiorità.
_ se una cosa sia vera o falsa è necessariamente secondario come può esserlo l’effetto emotivo che necessariamente prima o dopo, a parità di conseguenze contraddice il significato degli effetti delle conseguenze.
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Era un po’ che andavo in giro nel deserto ascoltando quello che proveniva dalla radio dell’auto. Sinceramente non so da quale posto, come non so in quale punto io mi trovi in questo momento nel deserto. Di certo quello che ho pensato è stato che stavo ascoltando qualcosa da un mondo ch’è sparso tutto attorno a questo deserto, ma non posso fare a meno di pensare, immaginare, che pur nell’immutabilità questa strada sia posta alla frontiera di qualcosa di uno spazio, sia essa stessa una frontiera. Forse dimenticata. O soltanto poco praticata dalla coscienza di questo paese, diventata una retorica scomoda quanto comoda della sua coscienza.
Del resto una frontiera non ha una collocazione ben definita nello spazio, figurarsi nella coscienza. Anch’io mentre pensavo quelle cose ascoltando la radio non ho, forse, chiaramente avvertito che la frontiera di cui parlo è quella che mi appartiene, quella con cui scruto e guardo. Essa è un punto costante, una collocazione a cui approdare ed essere già approdati. Se essa è un punto lo spazio che la circonda è un punto più grande, ma più piccolo e lo stesso punto dove essa è collocata è il punto più piccolo, ma più grande proprio in funzione della sua possibilità di piccolezza nella grandezza, se la coscienza ha una sua sintassi, è la stessa coscienza a non avere più sintassi, è la coscienza la sintassi, come il buio è la luce nell’esperienza del viandante…
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si era viaggiato un po’ insieme. Il viaggio si era fermato e siamo bivaccati nel deserto vicini, bevendo il tè davanti alla sua tenda. Non posso ascoltare esattamente quello che mi dice, non perché non oda quello che mi dice, né perché non lo comprendo, ma soltanto perché voi credo non possiate ascoltare quello che diciamo, che essi dissero parlando in prossimità della fine del giorno davanti alla luce della luna e delle stelle. Eppure il discorso a cui fa riferimento è iniziato già prima, quando noi stavamo immersi, forse in altre riflessioni. Ma quel noi è in fondo loro, perché io stavo ascoltando proprio lui e non altri ed io soltanto stavo guardando quelle parole, nello stesso istante in cui esse vengono pronunciate. Chi leggerà quelle stesse parole quando la tenda sarà tolda e loro se ne saranno andati, in che modo saranno ascoltate e guardate?
In macchina era si era stati quasi per tutto il tempo in silenzio, l’unica cosa che avevo ascoltato dalla sua voce era stato il commento… ora che siamo seduti qui nel deserto le sue convinzioni sembrano avere preso una sostanza diversa, come se il convincimento che devono esprimere non sia che una beatitudine della disperazione, una disperazione che non ha altra soluzione che quella di una vita oltre la morte, come riscatto per il sacrificio scelto nella vita. Il pensiero che più spesso mi comunica è che non c’è altro che il sacrificio di se stessi per ottenere l’unica ricompensa possibile: quella promessa da Dio, perché soltanto in questo immenso modo di rappresentare la proprio vita è possibile dare un significato di giustizia all’azione della propria vita, solo così è ancora possibile dichiarare Dio come colui che ricompensa a piene mani il sacrificio che si fa di se stessi, per chi crede in lui e che per lui scelgono il sacrificio come modo di donarglisi. Io non ho paura di questo, perché Dio vede e comprende e ricompensa chi crede in lui e la sua giustizia toglie all’infedele per renderlo fedele, “chiunque muore in questo sacrificio sono da Dio riconosciuti” e la morte è superata dalla ricompensa che Dio dona.
Eppure dico chi muore con te non appartiene alla tua stessa volontà e se il dilemma lo riguarda, lo riguarda in quanto volontà che non vuole condividere la tua. Se tu muori il nome di Dio, colui che muore con te muore per meno di Dio, o per la tua mano. Se Dio è grande come tu dici l’infedele torna fedele per mano di Dio e se tu in nome di Dio sacrifichi la tua vita perché ciò che l’infedele toglie, non può che da Dio essere restituito, tu in nome di questo tuo sacrificio, dai ricompensa a te stesso e a chi muore con te affinché la giustizia di Dio si compia secondo il suo volere. Ora che cosa è che ti convince che l’odio verso il male che l’infedele compie e toglie a te la possibilità della libertà datati da Dio in quanto modo per conoscerlo, non si trasformi in te in odio verso l’infedele in quanto espressione di male verso Dio rappresentata non soltanto dall’individuo singolo che tu conosci, ma come espressione di un modo detto nazione a cui il singolo determina la sua identità e le ragioni delle sue azioni, come rappresentazione del suo volere? Così non accadde anche per te che la ricompensa che dio promette dopo la morte per chi per esso si sacrifica, non possa che essere la speranza che l’odio per il male non abbia determinato che la volontà di salvezza dell’infedele, per mezzo della giustizia di Dio attraverso il sacrificio della tua vita, possa essere visto come martirio soltanto dalla misericordia di Dio che nell’attimo estremo del tuo gesto ha visto il compimento del male che si impadronisce dell’uomo al di là delle sue possibilità e per questo Dio decida di salvare l’anima di colui che ne è stato sopraffatto. Se il tuo gesto è l’atto estremo che vede nell’altro l’individuo attraverso l’odio, l’odio è il giustiziere non Dio. La morte della vita è soltanto in ragione dell’odio verso il prossimo ch’è sopraffatto dal male e che sopraffa.
- Se io non trovo che la disperazione per la speranza, che la mia speranza sia l’esaltazione della mia disperazione, cos’è la vita in fondo quanto la disperazione non ha altra possibilità cha la disperazione, per affrancarsi dal male, la mia paura è l’esaltazione della mia disperazione e la mia vita non pensa che alla morte, come unica possibilità della disperazione, e allora che la mia disperazione si esalti nella gloria di Dio, che la mia morte sia l’esaltazione della mia disperazione del popolo per cui muoio, per la speranza di Dio che ricompensa la mia disperazione nella speranza della sua ricompensa a cui io sacrifico la mia vita per la libertà dall’infedeltà verso Dio e lontano dalla disperazione di una morte senza speranza.
_ Cos’è la vita in confronto alla morte, se non il tentativo che la speranza non cessi mai di lottare, affinché la disperazione e il male non abbiano il sopravvento sul significato più profondo che essa rappresenta, quello della libertà dalla paura della morte come unico significato e rappresentazione dell’esistenza. E non è forse per esso indispensabile trovare la forza che vinca la disperazione della morte, con la speranza che la naturale necessità di essa, non sia l’arbitrio con cui le nostre paure determinano un controllo sul suo esserci al di là della nostra possibilità di sperare di non morire per mano dell’odio di qualcun’altro, della sua disperazione inconsolabile della paura di morire. Se vi è in questo la ragione per cui dobbiamo opporci con la nostra vita affinché il male non trasformi la paura in disperazione è proprio affinché la nostra coscienza lotti affinché si sia liberi di conoscere la speranza ch’è nella vita, è la vita l’unica ragione di speranza, che va difesa con la libertà. La vita non và mai sacrificata, altrimenti vi è sempre il rischio del sacrificio della libertà nella disperazione della sua perdita. Io non condivido molto questa follia storica delle nazioni e delle diverse coscienze, ciò finisce sempre in una rappresentazione dell’esistenza superficiale che fa delle varie disperazioni la ragione per motivare la libertà di qualcuno su quella degli altri. Se c’è una disperazione inconsolabile è tutta qui, nel martirio costante del bene che cerca di non sopraffare e del male che nella disperazione non ha altra ragione di esistere che la sopraffazione. Che la speranza debba scontrarsi con la disperazione, è la cosa più angosciante che vi possa essere, giacché la disperazione è forza, la speranza è conoscenza. E Dio non può che essere con questa ultima. Se questo eterno dilemma che si svolge dentro ogni uomo e si rappresenta in tutto l’universo, il sacrificio per la speranza comporta che la disperazione sopraffa il volere di chi crede che la vita debba sempre esistere come superamento della contrapposizione con la disperazione e la guerra può rappresentare la morte della sua vita per mano di un altro essere umano. Ora se ciò che ha determinato ciò è la stessa volontà di chi spera che la vita sia libertà dalla disperazione della morte e dall’odio, e dà esso viene sopraffatto, allora il martirio e la redenzione sono l’espressione del superamento della disperazione della contrapposizione, il martire è colui che continua a volere che l’altro non uccida perché la morte è un fardello inutile nel compimento dell’esistenza al di là del suo naturale esserci. Il resto è odio e disperazione e paura di essa. Il martire è colui che nel suo gesto redime se stesso e dà la possibilità di redimersi a chi voglia, aderendo al non uccidere smettere di farlo, smettendo di disperare.
- Non uccidere.
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…poi, in quella mattina si allontanò camminando da solo nel deserto, soltanto lui e quei suoi pensieri così come era arrivato, che guardarlo da solo senza nessuno sembrava non sapere più perché avesse quelle convinzioni. Cosa poteva rappresentare quel potere che lo aveva generato lì nel deserto? Dove c’era soltanto lui la terra e il cielo. Il potere con la sua violenza dentro ad ogni cielo, che cerca di superare il cielo nel cielo che n’è parte, come se guardando il cielo cercasse di negarlo, negando di esserne parte, come, lì nel deserto sembrava non avesse proprio significato il potere che gli uomini si danno per convincersi che nella violenza del potere vi è la verità. Si era allontanato nel deserto, forse lasciandosi alle spalle il potere che avrebbe incontrato, sempre nello stesso mondo di un mondo dall’apparenze diverso. E lasciando tutti quei pensieri uniti gli uni agli altri, come prigioniere emozioni, per ascoltare quelle parole, dette quanto si dicono. E la sua storia sarebbe diventata soltanto la sua e la violenza e il potere sarebbe stato ovunque lo stesso, lui soltanto sarebbe rimasto diverso, spiritualmente unico di fronte all’immensità di Dio, con i suoi pensieri coscienti e le sue personali emozioni, fin tanto che il cielo sarebbe restato nel cielo, anima e corpo.
Restai a guardarlo ancora per qualche istante, finché scomparve alla vista e non rimase che il suo pensiero che era là in qualche parte del deserto.
Sistemo la tenda e le altre cose nell’auto, mi guardo un po’ intorno, prima di rimettermi in viaggio.
20
quando avvio l’auto non si accende, una volta, due volte, non si accende. E la luce nel cielo cambia, proprio in quell’istante la luna incomincia a stare tra la terra e il sole e pian piano toglie sempre più spazio al sole, come se la terra fosse la sua unica ragion d’essere. Ed io guardo il deserto tornare buio, come se una nuova notte stesse per attendere un nuovo giorno, l’aria è più fresca. Sono qui appoggiato all’auto ad osservare tutti i cambiamenti che rapidamente si susseguono, nell’arco di un’ora circa un intero giorno, una notte, e forse tutte le notti di tutti i giorni. Penso al mondo ch’è intorno al deserto e mentre vedo la luce che lentamente torna nel deserto, guardo il mondo nel deserto e lo immagino immemore di quello che sta accadendo, non attento né al sole né alla luna, soltanto preso dalla gravità delle sue convinzioni che non tengono in considerazione l’altro lato della terra, quando il sole cambia lato e la luna sorveglia il mare che rimane sull’acqua come l’acqua nella gravità, e la gravità nell’atmosfera. Queste mie particelle che tengono insieme gli atomi del mio corpo, così colme d’acqua, come tutta la vita che l’acqua stessa ricorda, sono sospese nell’atmosfera come il tempo che attraversa la luna quando il sole né copre la terra. Ma si spingono anche oltre l’ipotesi di questo mistero come se il tempo stesso trovasse dello spazio all’interno del suo tempo, tenendo insieme attraverso il mio corpo un’immagine che fa dello spazio della mia vita fatta d’acqua la memoria di tutto il tempo dello spazio, fino alla fine stessa dello spazio e con esso del tempo. Eppure con la stessa velocità con cui la mia immagine si genera nel tempo, lo spazio cambia velocità quando la mia memoria ritrova la gravità che la collocata nello spazio. E l’acqua che vi si stabilizza crea un’illusione che pone la propria gravità come unica rappresentazione del significato del tempo. Si perde la memoria dello spazio, come immagine che ha accompagnato tutto il tempo della gravità della nostra immagine e la rappresentazione data alla sua stessa rappresentazione, dall’illusione della gravità, che fa del suo svelamento la ricomposizione dell’immagine dello spazio e il tempo nel presente della propria gravità, coniugandola con tutto lo spazio tempo, ma dentro il tempo del proprio spazio nell’esistenza. Eppure se dalla coscienza vi è un generabile, di un generabile ancor incosciente, mentre guardo la luna davanti al sole se vedo la gravità del mio spazio relativo, attraverso la relatività della gravità del tempo, del tempo assoluto della materia, il buio della coscienza di questa ora non basta a coprire la gravità dell’intera relatività dello spazio e del tempo al di là di tutta questa velocità. Non tanto per porre altro tempo allo spazio del tempo, che al di là della coscienza perde la sua relatività come la mantiene inalterata al di là di tutto il tempo senza più spazio. Ma la mia immagine fatta di gravità annulla la sua memoria così come perde la possibilità dell’acqua della gravità che la sostiene, la memoria rimane, ma compie il suo definitivo cammino nella gravità. Se la gravità ha altri e molti altri aspetti mutevoli, ciò che la sua memoria non ha è quel che non ha più, perché non più parte dei suoi aspetti mutevoli, una non memoria senza gravità, senza non memoria, né gravità. Altra anima. L’anima.
L’eclissi è terminata, avvio di nuovo l’auto e questa volta il motore si accende immediatamente.
21
mi fermo davanti ad una casa, dopo tre giorni e una mattina che non incontro nessuno viaggiando nel deserto. Spengo la macchina e aspetto, in attesa che magari si affacci qualcuno sulla porta della casa…che ci sia qualcuno. Dopo un po’ scendo dall’auto e tutto intorno a me è nel silenzio di quell’inizio pomeriggio, un po’ andando avanti sulla strada, la strada scompare dietro ad una duna. Torno con lo sguardo sulla casa e mi avvio sull’ingresso. La porta è semiaperta, non c’è nessun campanello. Non dovrei proprio entrare, eppure quasi senza accorgermene, mentre penso di restare fuori in attesa che arrivi qualcuno, entro nella casa. Attraverso l’ingresso, la prima stanza, vado nella cucina, apro lentamente le porte di alcune stanze, sono quelle da letto, tutto è in ordine in quel modo, senza fretta, come di qualcuno che ha tempo e non lascia nulla in disordine, se non per quel tanto che può servirle. Torno nella prima stanza, vado in cucina ed apro il frigorifero, c’è del tè. Torno di là e mi siedo, davanti a me c’è un televisore con alcuni dispositivi di video registrazione e sullo scaffale accanto al televisore una serie di supporti registrati. Guardo il televisore e penso che siamo lontani da tutto quello che vi è intorno e non ci sono fili che abbia visto che raggiungono la casa, mi viene in mente di aver visto senza notarla per il tanto tempo ch’è passato e che mi ha fatto non tenere in nessun ordine lì, d’importanza una parabola intravista sul retro della casa, e ora vedo affianco ai video registratori il suo dispositivo di ricezione. Lo accendo, accendo il televisore. Davanti ai miei occhi si mostrano le immagini di una guerra, con i suoi morti, in quel momento noto su un piccolo tavolo, vicino a dove sono seduto, una busta con dentro dei semi, dove c’è scritto: semi brevettati, per piante che non producono semi. Cambio il canale e vedo le immagini di persone che sono sfinite dall’inedia, rimango un po’ ad osservare quei volti, di donne e bambini e non capisco perché non mostrino anche quelli degli uomini che sembrano morire a parte, in una morte non meno strana. Cambio canale e vedo la pubblicità di un prodotto dimagrante, che serve a controllare l’appetito e garantisce così contro gli scompensi psicologici dell’anoressia e della bulimia, dice il tizio nella televisione. Cambio ancora canale e mi trovo su un canale finanziario degli Stati Uniti d’America, c’è un tizio che dice: “il debito pubblico è di 44 trilioni di dollari, come pensate che abbassando ancora le tasse si riesca a coprirlo, gli interlocutori tra il faceto e l’atteggiamento ottimistico, dicono che con il maggior reddito che ci sarà dall’abbassamento delle tasse, aumenterà l’introito fiscale e con esso si ripianerà il debito.” Intanto aumentano le spese militari. L’assistenza sanitaria non è per tutti e poche industrie private nel mondo controllano le risorse alimentari energetiche e le strategie dei governi che esse controllano o viceversa. Le guerre vengono fatte per controllare le risorse, privatizzandole e acquisendole tramite esse, e tramite esse privatizzare le scelte economiche dei governi, e le strategie sociali per il controllo della forma mentis delle persone, nelle reazioni che determinano la supremazia di chi ha più forza, attraverso la coazione dei processi istintuali funzionali alla sopravvivenza. Tutti sembrano essere liberi di esprimere i propri istinti più primordiali, trovando appagamento nel consenso di chi controlla le risorse economiche, che sono il tramite per tale appagamento. Cambio canale…
Salve!, in quell’istante una donna entra nella casa, spengo il televisore, e cerco di spiegare cosa stessi facendo, ma non so bene cosa dire, a quella donna, che mi guarda e mi dice, si sieda abbiamo tempo per parlare…non viene mai nessuno fin quaggiù e averla come ospite credo non mi dispiacerà. Lei è vestita di seta, con un abito dell’india e dall’aspetto sembra sia una donna indiana, nei capelli, negli occhi, dal colore della sua pelle e dalle labbra, da come muove le mani. La ringrazio, dell’ospitalità, guardo in quel momento una foto, che prima non avevo notato, è sullo stesso piccolo tavolo della busta con i semi, lei mi osserva e dice, sono mia madre e mio nonno. La foto ritrae quelle due persone e dietro loro è visibile il colosseo. È Roma? Si mia madre tornava dall’India e mio nonno è andata ad incontrarla a Roma, da Milano. Mia madre è siciliana e mio nonno milanese, il resto della mia famiglia viene dall’India. Vado un attimo di là, non sentirti a disagio…va bene.
Mi guardo intorno, osservando con più attenzione le cose che sono nella stanza, lo sguardo mi va su un comò con appoggiati verso il muro dei libri, mi avvicino per leggerne i titoli: c’è i libri poetici dell’antico testamento, un libro del MAHATMA Gandhi, Hay Bin Yakdan di Ibn Tufayl, con la traduzione latina: “Philosophus autodidactus”, c’è il libro di Henry Corbin, Histoire de la philosophie islamique, sia in quella francesa che italiana: Storia della filosofia islamica, il nuovo testamento, due libri di Carl Gustav Jung: Io e L’incoscio e ricordi sogni e riflessioni. Un libro, la Vita Merlini di Geoffrey di Monmouth. Un libro sui Dervisci, Un vangelo scritto in volgare di San Francesco e i suoi fioretti, la Divina Commedia di Dante. Relatività di Einstein. Un breve trattato, scritto con la macchina da scrivere, dal titolo: I Sufi, tra rito e spettacolo e un libro dal titolo insolito: “Best Seller erotico in romanzo rosa.”. sfoglio qua e la lo scritto sui sufi, scritto in italiano. …Tra essi non mancarono i martiri e molti furono i perseguitati…venne ucciso il più grande mistico ribelle dello islam, Al Hallaj … In verità essere sufi non è semplicemente e solamente aderire ad un ordine, ma è una “qualità” che si conquista, uno stadio che si ottiene a partire da un’iniziazione e dedicando tutta la vita alla ricerca rigorosa e continua dell’essenza primaria. … da “suf” che significa lana … con la quale si vestivano i primi sufi; … che il termine arabo “suf” deriva da “safa” cioè purezza e ribadiscono, al momento stesso, che questo termine allude ad uno dei nomi del profeta Mustafà che significa scelto. … “derviscio” invece, deriva dalla lingua persiana e significa povero … La povertà in questo caso è intesa come qualità dello spirito che assorbe tutta la vita di un derviscio, che anela alla ricchezza di Allah. I dervisci vengono chiamati anche fachiri: questo termine in arabo significa “poveri” ed è un termine attribuito loro popolarmente – quando arrivarono in India – a causa della vita povera che conducevano. … “Il cuore è il sole interiore; parlando della maggioranza degli uomini, il Corano dice: - Non sono ciechi i loro occhi bensì il loro cuore – ciò dimostra, e sarebbe strano se fosse altrimenti, che la prospettiva coranica è in armonia con tutto il mondo antico, sia orientale che occidentale, nell’attribuire la facoltà di visione al cuore e nell’usare questa parola per indicare non solamente l’organo fisico come tale, ma anche il centro dell’anima, al quale dà accesso, mentre questo centro è esso stesso la porta di un cuore più elevato; lo spirito. Perciò cuore è spesso sinonimo di intelletto non secondo l’attuale uso abusato di tale parola, ma secondo il significato più profondo del latino intellectus cioè della facoltà che permette di percepire il trascendentale”. … sfoglio le pagine alcune pagine indietro:… A dare inizio alla pratica della danza rituale, nella forma conosciuta di Mevlana, fu l’ordine di Gialal ad-Din Rumi, che riuscì a sublimare la pratica della danza, esprimendo simbolicamente il credo sufico. … riporto avanti le pagine … Ci si immagina, allora, di prendere dalla scapola la “hamza” della frase “Ill Allah” e di farla scivolare in mezzo al petto, finché non raggiunge il “qualb”; a questo punto, ci si può immaginare il “qualb” nella palpitante ripetizione della parola di maestà, con tutta la forza del respiro che preme sul profondo del cuore. … Un altro paradosso lo sentiamo da Jalal Al Din Rumi che, rivolgendosi a Dio, diceva: “Tu hai montato questa faccenda dell’io e del tu per giocare con te stesso il bel gioco della seduzione”(26) Molte affermazioni dei grandi Sufi, come Rumi, Al Hallaj, Ibn Arabi, sembrano blasfeme. Ma nelle loro affermazioni cercano di svelare il significato e il senso occulto che contiene il significante. Al Hallaj disse. “L’empietà e la fede differiscono nel significante. Ma non vi è differenza in loro quanto si tratta di realtà. … Dentro questo paradosso di corpo e spirito, tra l’io e l’annullamento dell’io nel sé, cioè in Dio, si svolge la dimostrazione rituale, in un tempo infinito e perpetuo. Il corpo si abbandona in questo perpetuarsi, si libera da tutte le forme pregiudiziali della materialità e della mondanità, della quotidianità monotona e diventa esso stesso un’immagine divina, trasmette una energia infinità, disegna con movimenti e gesti spontanei. Il corpo dei dervisci, nei suoi movimenti lenti e veloci, nei suoi gesti, non evoca la vita mentale, bensì la vita spirituale: la verità del cuore “intellectus”. Diceva un sufi a proposito della perplessità: “Rilassa la mente e impara. Libera la mente in modo che la tua anima, smarrendosi, possa fare esperienza dei movimenti spontanei dell’iniziazione, come un corpo nell’acqua si affidi ai movimenti spontanei delle sue membra, dacché non può aggrapparsi a nulla” (27) cit. Martin Lings. Se sei in uno stato di perplessità (Hayrah), abbi cura di non appoggiarti a nulla, per non chiudere con la tua stessa mano la porta della necessità, perché per te questo stato prende il posto del Nome Supremo. (Oggi il sufismo “Tassuf” è un nome privo di realtà, un tempo era una realtà priva di nome. Nella pagina seguente leggo scritto, l’esecuzione della danza sufi. Vado all’ultima pagine per leggere il nome dell’autore: Kasim Bayatly, e inizio a leggere dalla prima pagina, questo breve trattato sulla danza dei sufi.
Lei dall’altra stanza, vede che lui sta leggendo. Inizia a preparare qualcosa da mangiare per la cena. Si è cambiata d’abito…
Sono seduti l’uno dinnanzi all’altra. Ho preparato della pasta italiana, un’insalata di pomodori e frutta varia.
La casa è completamente autonoma per quello che riguarda l’energia elettrica, l’intero fabbisogno per tutte le necessità domestiche che lei ha, comprese quelle alimentari sono realizzate con mezzi di tecnologia rinnovabile, con funzione del ciclo produttivo dell’energia elettrica sia aperto che chiuso, tra le varie fonti energetiche.
Sul retro della casa c’è un’oasi giardino per la produzione di alimenti, vegetali di varie parti del mondo. L’acqua necessaria è ricavata dal sottosuolo in profondità, raccolta in una cisterna termica e distribuita per le necessità dopo essere stata desalinizzata. Il tutto per mezzo di batterie ad idrogeno, un generatore d’idrogeno, alcuni pannelli fotovoltaici ed anche un generatore eolico.
…ho dovuto procurami un generatore per l’idrogeno, che può andare bene per un condominio di una città, quando l’ho acquistato più piccolo non c’era in produzione, ma mi è utile anche per riconvertire l’ossigeno e l’idrogeno in acqua perfettamente depurata, le batterie a combustione ne ho due, quella che hai visto di circa quaranta centimetri per trenta sviluppa 6 kilowatt, quella di circa ottanta centimetri per ottanta 85 kilowatt, se fosse su un automobile darebbe 100 cavalli di potenza, poi ho un paio di accumulatori per l’energia fotovoltaica, che certe volta è l’unica che uso per le necessità della casa, e spesso finisco per bere anche l’acqua che esce dalle batterie ad idrogeno. Il tutto comprato lo scorso anno in Italia.
Era molto che non mangiavo un piatto di pasta, è molto buona. L’acqua che stiamo bevendo è prodotta con questo sistema!?
22
sono seduti tra alcune palme dell’oasi dietro la casa, con le stelle che dipingono lo sguardo nei loro occhi. E parlano con dentro i pensieri che soltanto per un labile richiamo delle coscienze sembrano trovare un equilibrio, in quel che ascoltano l’un l’altro. Di fatto le parole sono forse dove in quel momento che esse sono pronunciate, come il luogo in cui le si ascolta, con l’attesa della comprensione del loro significato, come se esso sia già di fatto presente in quel che non è detto, ma che avviene, come dire in quel che l’un l’altro ascoltano, in conseguenza di quel che ascoltano l’un l’altro. Si coniugano in un prima e un dopo ch’è l’ascolto e con questo il suo stesso gesto, nel preciso istante si toccano in quel gesto. E l’ascolto dell’altro è il proprio ascolto: un atto della parola nel tocco di un gesto compiuto che si compie per la prima volta, prima che esso sia compiuto, e soltanto quell’ascolto della ricerca del capire, lo compirà come compiuto compiendosi. Se vi è nell’ascoltarsi un’ineffabile affabile dell’accadere, la libertà di capire ciò che accade non può essere lontana da ciò che non accade, come un non accadere che non accade, ma si compie nella decisione di conoscere l’ascoltare come partecipazione di ciò che non si conosce per mezzo della conoscenza in coscienza. Se di fatto ciò che non conosco è ciò che conosco, conosco ciò che non posso conoscere come conoscenza che dovrò conoscere, ma che non ho conosciuto se non conoscendola. Se lei ascolta, lui non può che ascoltare. E se lui non ascolta, lei non può ascoltare, ma se lui e lei non possono che ascoltare, lui e lei non possono ascoltarsi se non dopo essersi ascoltati l’un l’altro. Ma se lui non ascolta, se lei ascolta, o se lei non ascolta, ma lui ascolta, l’ascolto non si compie nel in quel che l’un l’altro ascoltano. La conoscenza di fatto non raggiunge l’esperienza e il gesto è ineffabile, ma non affabile, non un atto della parola nel tocco di un gesto compiuto. Se pur per perspicacia del significato l’essere in un luogo come in un luogo dell’essere, è del toccarsi della conoscenza come espressione dell’ascolto dell’esserci nell’essere, non in ragione della forza del potere, ma in virtù del sapere della conoscenza, per affrancare la coscienza dal gesto stesso della volontà come rappresentazione della forza della virtù; la virtù in ragione della coscienza indugia e persevera nella conoscenza in ragione che la volontà del gesto sia conforme: all’atto della parola nel tocco di un gesto compiuto, come somma conoscenza della spiritualità in ragione dello spirito universale, come espressione del Karma dell’esistenza in virtù della coscienza della conoscenza, nell’ascolto del Dio supremo. Erano stati seduti nell’oasi a parlare dell’india e delle sue molteplici rappresentazioni religiose, anche se l’occhio della parola che avevano usato era più vicino al pensiero buddista. Ora lei dopo essersi accarezzati le mani, si alza dalla sedia di vimini, toglie i sandali e poggia i piedi sull’erba, scioglie il sahari che l’avvolge e lo lascia cadere verso terra, attorno alle sue caviglie. Lei è nuda davanti ai miei occhi le accarezzo il collo e lasciando cadere la mano sul suo corpo, mi chino e tolgo il sahari dai suoi piedi, le bacio la gamba, il ginocchio la coscia. Lo tocco sulle spalle, alzati, inizio a spogliarlo, baciandolo su tutto il corpo, mi inginocchio davanti al suo ventre e lo accarezzo e sto lì, sto lì ascoltando il suo respiro, “tutto il suo respiro”. Mi alzo e mi stringo a lui. Lascio scivolare le mie labbra sul suo corpo, mi inginocchio davanti al suo sesso, alzo la sua coscia destra sulla mia spalla, respiro e l’accarezzo con le labbra, cerco con la lingua il suo piacere, e lo accarezzo incessantemente, lo abbandono e lo accarezzo, sento tra la mia lingua sulle mie labbra sciogliersi il suo piacere, lasciandolo andare dovunque voglia e come voglia, lei chiude gli occhi mentre sento tutto il suo respiro, nei gemiti delle vibrazioni del suo corpo. Si distendono sull’erba e si amano con il corpo ch’è nudo e vuole sentirsi sempre di più, nudo sentendosi ognuno nell’altro.
23
è il sole della sera che scende rapido e soave sul deserto, e trasforma l’aria come un raggio del mattino che coglie la sabbia umida della notte. Quello stupore che si trasforma guardando la luce e il sole che cambia e trasforma le tue sensazioni, come un dialogo continuo che cerca di dire sempre qualcosa di infinitamente diverso, solo per arricchire quel che si riesce a conoscere, di ciò che si sa di se stessi. Senza che si dimentichi che questo raggio dell’aria fresca della notte - non smetta di stupirci in ogni mattino della vita, e non ci stupisca né rammarichi delle sorprese che solo allora, che solo allora fin’anche, ci stupiscono quando non dovrebbero, con un desiderio e una speranza nostalgica negli attimi delle angosce. Il giorno, se mi trovo in esso, in esso si trova, e questo giorno che coglie l’istante esatto e che stupisce il ricordo nell’attimo stesso in cui quel che si ricorderà avviene. Non vi è caduca infinita peggiore di quella che non accada ciò che si ricorderà e si distolga la speranza nell’illusione di quel che sta accadendo, come una nostalgia che non esiste e che ricorda un’illusione della storia e che accade o continua ad accadere perpetuamente nello stesso giorno fermo nell’eternità che non coglie nessuno infinito, ma soltanto l’instabilità di un giorno instabile come la notte e il mattino. E non resta che la lotta perpetua per dominare il giorno e prolungare il mattino. Questo sogno d’eternità senza sonno, è ciò che più toglie allo stupirsi dello sguardo dell’aria fresca della notte che si incontra con il raggio caldo del sole del mattino di dare tempo e luogo al sogno. Le vie tracciate dal sogno restano presenti, ma diventano sempre più invisibili e il canto di un aborigeno, non supera più lo stupore nel senso infinito della spiritualità della terra che ne è attraversata. L’uomo non ha più un luogo e la sua identità è la terra senza il mondo. Il tempo non ha più uno spazio, ma una sospensione eterna della sua materia nello spazio, una preghiera nostalgica senza speranza, un vuoto inutile della coscienza nell’illusione di quel che sta accadendo. Il vuoto non vuoto, uno spazio angusto e limitato che cerca di controllare l’accadere, tra gli incontri senza né spazio né tempo, ma solo avvenuti, senza che accadessero e ricordati come se accadessero di nuovo avvenutesi, ma senza avvenire mai. È di gran lunga più facile l’illusione del bene che la realtà del peccato, l’eternità invece della morte, e la morte non può che essere che la somma illusione della certezza del peccato, e allora questa assurda nostalgia della speranza, supera lo spazio e il tempo esistenzialmente nel dramma umano della morte che compie il suo compito nell’ambito universale dell’uomo, in ragione di un avvenire senza speranza. Con la domanda di cosa accade ora? L’altro e il non altro, l’io e il non io. Una preghiera che s’interroga in attesa della risposta, che non può che pregare continuando ad interrogarsi. Il giorno che si compie se ha smesso di pregare, non trova più quel che trova, ma soltanto l’introvabile, e ciò è un’illusione ancora più grande della certezza della morte. Un vuoto troppo pieno, una sintesi troppo angusta, un presente senza passato, un introvabile trovato nei limiti della coscienza, senza nessun scandalo e nessun reale perdono. Il raggio del sole tocca la sabbia fredda della notte, come l’esperienza tocca il sole e il freddo dell’uomo che cammina sulla sabbia, fino a diventare parte di essa senza più farne parte, solo quando l’uomo non cammina più. Il luogo del presente e dell’eternità dove poter pregare: cosa resta del peccato della morte e dell’illusione dell’introvabile: uno scandalo immenso, una parola dove pregare oltre l’immagine stessa della fede, una summa senza summa, un limite senza libertà, una libertà senza la parola, eppur ciò è vano in codesto descritto. Se Gesù pronuncia il padre nostro: limite e essenza impronunciabile dell’essere. Quando di ognun è semplice il giorno. Ma di giorno chi può più pregare dove si è fatto dimenticare, in ragione del giorno, la sintesi più alta della libertà della preghiera e del giorno. Chi ascolta, forse c’è un santo che parla? Supero la duna che avevo visto dalla casa coprire la strada e al di là di essa, lontano vedo l’azzurro del cielo diventare tutt’uno con il resto dell’orizzonte del pianeta. Davanti a me si distende tutto intorno alla mia vista, il deserto e l’azzurro di tutto l’orizzonte.
Altissimo, onnipotente, bon signore,
tue so le laude, la gloria e l’onore e ogni benedizione.
A te solo, altissimo si confano
E nullo omo è digno te mentovare.
Laudato sie, mi Signore, cun tutte le tue creature,
spezialmente messer lo frate Sole,
lo quale è iorno, e allumini noi per lui.
Ed ello è bello e radiante con grande splendore:
de te, Altissimo, porta significazione.
Laudato si, mi Signore, per frate Vento,
e per Aere e Nubilo e Sereno e onne tempo,
per lo quale alle tue creature dai sustentamento.
Laudato si, mi Signore, per sora Aqua,
la quale è molto utile e umile e preziosa e casta.
Laudato si, mi Signore, per frate Foco,
Per lo quale enn’allumini la nocte:
ed ello è bello e giocondo e robustoso e forte.
Laudato si, mi Signore, per sora nostra matre Terra,
la quale ne sostenta e governa,
e produce diversi fructi con coloriti fiori ed erba.
Laudate e benedicite mi Signore,
e rengraziate e serviteli cun grande umiliate.
Laudato si, mi Signore, per quelli che perdonano per lo
tuo amore
e sosten infirmitate e tribolazioni.
Beati quelli che ‘l sosterranno in pace,
ca da te, Altissimo, saranno incoronati.
Laudato si, mi Signore, per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullo omo vivente po’ scampare.
Guai a quelli che morranno ne le paccata mortali!
Beati quelli che troverà ne le tue sanctissime voluntati,
ca la morte seconda no li farrà male.
Un tipo dall’occhio eloquente stava viaggiando con me da un po’, ha una barba che gli incorona il volto e un mantello di stoffa ruvida, grezza lana e un cappuccio, appoggiato sulle spalle. Credi davvero che se il mondo trovasse un sol giorno diverso questo giorno che sta vivendo cambierebbe. Oggi che ovunque l’uomo si scambia per un oggetto qualsiasi, come è possibile immaginare che ogni sua immaginazione espii a tal punto da essere pienamente consapevole. Perdona loro perché non sanno quello che fanno. Questo essere così inconsapevole ha realmente accettato questo perdono, o non vi ha forse visto soltanto il suo orgoglio ferito. Credi davvero che tutte le istituzioni di questo mondo servano affinché l’essere umano salvi se stesso. Credi davvero che questo moltiplicarsi di madri di padri, e figli siano la spiegazione di ciò che interessa a Dio, o tutto ciò non è altro che un miscuglio di convezioni umane prive di umiltà, di leggi e laccioli per fare quel che si vuole contro chi o a favore di chi si vuole. A cosa crede di appartenere costui con questa consapevolezza. Credi davvero che Dio stia lì ad aspettare che come uno scolaro si faccia i compiti a casa, o come un assassino ci si dia un voto. Credi davvero che la regola sia la misura di Dio, con cui in ragione di tale regola si ha la facoltà di dire a Dio stesso cos’è che hai fatto per il suo bene. Immagini sul serio che tutte le genti di tutta la terra che lodano Dio come meglio non si potrebbe, tutte quelle che riempiono i tempi e i templi del mondo per questo possono dire a se stessi cosa Dio pensa, quasi che fosse il numero a dire a Dio cosa è giusto che faccia per il mondo. Credi davvero che tutte le domande che si pongono gli uni agli altri gli esseri umani basti a dire che la storia è giusta quando se stessi. Credi davvero che questi laccioli del perbenismo o il male del qualunquismo , o il sillogismo dell’intelligenza siano la cultura che rende liberi. Credi davvero che tutta questa schiavitù serva a Dio, che tutta questa irresponsabilità della morigeratezza del male minore sia la misura del bene di Dio. Se ci fosse un vero povero, l’unica cosa che chiederebbe sarebbe quella di essere felice. E questa felicità negata è l’unica rappresentazione dell’esistenza umana che sconfigge la verità umiliando Dio e la sua povertà. Credi davvero che questa immensità del potere, della vanità di cui è intriso l’essere umano, è qualcosa che ha a che fare con la verità. E quanti credi che in tutto il mondo non siano schiavi di questa rappresentazione di se stessi, ti dico che il numero delle dita delle mani dell’uomo sono troppe per contare chi non lo è. E solo Dio sollevarne il numero al di là dell’orgoglio ferito dell’uomo. Credi davvero che questa società che conta il sesso come un numero del tempo da dedicargli, sia così importante da rendere la possibilità o il potere come la misura dell’onesta o della libertà, insieme e divise, riconosciute e volendosi riconoscere nelle leggi umane. Credi davvero che ci sia ancora una prostituta come la Maddalena in chi sceglie l’amore, anche dentro il proprio esempio, o come espressione di un cammino. Credi davvero che questo diluvio di esseri a pagamento che formano le nazioni, non siano niente altro che una grande meretrice che ha preso l’anima per delle sensazioni, che spiazzano l’essere umano in un giudizio che le rende schiave di un ruolo e non della loro onesta, che le supera quanto le comprende, o l’orgoglio dell’uomo è ferito da non poter controllare la propria carne e non ha che il potere per averne il controllo, per non dare rappresentazione dei propri limiti, come rappresentazione della propria onestà, che così non parla e non è parlante, ma muta vuole solo imporre la sua rappresentazione come la misura della cultura umana. Tutto ciò svanisce come ridicolo dinnanzi a Dio, eppure tutto ciò è il dramma in cui l’uomo ha scelto di rappresentarsi, quasi fosse solo lui stesso lo spettatore, quasi che il suo unico scopo, fosse di vincere la vergogna di guardasi creandosi spettatore che non pensa e che giudica.
Laudato si, Mi Signore, per l’amore senza limite né giudizio.
Fermo l’auto, perché colui che era seduto nell’auto, al mio fianco, non c’è più. Sul sedile c’è una tortora, che si poggia sullo sportello, sopra il finestrino aperto e dopo aver cantato un paio di volte, spicca il volo dirigendosi verso l’orizzonte azzurro.
24
Fermo l’auto, perché sono prossimo al mare.
Scendo e continuo a piedi, respiro l’aria. Il sole si distende su tutto.
Non ci sono uomini onnipotenti: vogliono essere Dio, ma lottano per essere gli uni superiori agli altri.
O dannati.
Cammino verso il mare e non mi volto, cammino come l’unica cosa che avviene e non penso al fatto che potrei voltarmi, anche solo per osservare, così.
Mi fermo, sono a circa cento metri dalla riva. Guardo il mare e ho voglia di tuffarmi, nuotare.
Mi tolgo i vestiti e li metto insieme, lì, in quel punto del deserto.
Cammino verso il mare e mi avvicino alla riva, sono a non più di dieci metri dall’acqua. Tra me e il mare, ora c’è, una donna seduta su un lembo di prato, vestita di una veste di tessuto leggero nero. I suoi capelli sono neri, i suoi occhi scuri, la sua pelle bianca come la luna. Il suo viso è bello le sue mani sono belle.
Mi inginocchio davanti a lei. le accarezzo il viso e lei lascia che la sua guancia si appoggi sulla mia mano.
Con un gesto leggero scioglie la sua veste e vedo la forma del suo corpo la sua chiara pelle e il suo pube liscio e nero, da rendere il suo colore ancor più forte sul colore della pelle. Mi siedo e lascio che lei salga sulle mie cosce. Le accarezzo la schiena e la bacio sulle labbra. Lei mi guarda, prende il mio sesso e lo lascia entrare delicatamente dentro di sé. prendo il suo corpo tra le mani spingendolo e allontanandolo da me. Guardo i suoi seni, il sesso scomparire e comparire nei suo baci, nelle carezze delle sue mani, nel suono della voce.
Mi dice tornerai, le rispondo che sono già tornato. Sento il suo corpo stringersi al mio e lo sento lasciarsi nell’orgasmo, con quello stesso suono lascio il mio corpo, con il suo, l’avvicino e la stringo a me tra le braccia, mi tengo a lei nell’abbraccio.
Raggiunse la riva entrò in mare e iniziò a nuotare. Nuota per un giorno, un mese, un anno per tutto il tempo, per tutto il mare e la terra, sopra lo spazio e l’infinito, andò avanti, avanti, finché non raggiunse la riva dall’altra parte del mondo. E mentre nuota verso la riva vede se stesso a non più di cento metri dall’acqua, posare i suoi vestiti sulla spiaggia, tenere tra le braccia e amare una donna. Continua a nuotare, finché non poggia i piedi sulla terra, esce dall’acqua, fino alla riva, solo un po’ verso la terra, per lasciare che il sole lo asciughi. Si siede in terra nella posizione che il suo corpo preferisce. E rimane lì in contemplazione fino al tramonto.
Giugno 2003
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