Patrizio Marozzi 

Pag. 30

 

Nel mondo dove tutto si riprende, delle telecamere infinite, nello sguardo e nei modi delle persone che cercano l’effetto per l’effetto, in continuazione, competizione, per un’immagine che si sovrappone e si “univicizza” – quasi ovunque. Le trame e i soggetti si rappresentano nella realtà quasi fingendo di essa. “Allora un libro, liberamente ispirato alla realtà?” Forse un surreale e un paradosso, insieme? Appunto, trame e soggetti e assurdità dei luoghi.

Con lo stile della sgrammaticatura del linguaggio pubblicitario.

Avviso: dato che gli autori sono vari e in anonimato, la qualità narrativa ne può risentire, non i contenuti, che potrebbero essere del tutto inventati.

 

Autori vari

 

 

Trame e Soggetti

Tra i pensieri

E assurdità nei luoghi


Sì!No!

 

Fratello, di, perché?

faccio l'amore se so leggere. si fa lo stesso, ah ah!! NUTILE

 

 

Se un “attore” è un cretino, il cretino diventa un genio, e l’autore superfluo, in un contesto che non esiste come non esiste ciò ch’è vero o non è vero – per ogni “azione” che non è portatrice di coscienza. Essere vivi o morti, uccidere o non uccidere, è del tutto irrilevante se non per una per essa conseguenza incoscienza per paura, “senza che se ne sia coscienti”. Tra l’essere pensanti, e il costringersi ad non esserlo.

(Frase non integrabile) per incoscienza.

 

Frase Leggibile e possibile di coscienza su News ad accesso libero.

Zona Italiana.?

 


 

 

[…]   


Di dove, da dove, dici di parlare, da quale città luogo o nazione. Basta che ne citi una che così si capisce. Perché non sappiamo da dove parli, perché lo scrivi.

Soltanto che un po’ qui e lì cito un luogo, che tutta l’esperienza che si vuole scrivere, il cervello che la legge, trova subito una collocazione storica, ed un effetto immediato che gli faccia capire, magari già dire qual è il bene e il male. Che poi chi lo dice è il luogo stesso, o la descrizione di chi lo dice ci fa immaginare il luogo, insomma il senso di quel che dice e il contesto, in base a quello che essi sanno.

E allora vorrei sapere perché la verità comunque essa la si rappresenti, dove e con chi, non trova una collocazione, applicabile al consenso con cui si legge e si espleta la sostanza che si vuol fare intendere per verità. Di fatto sembra che questa sorta di edulcorazione della verità, per la sicurezza dei più o una parte di essi, abbia già poco a che fare con la verità stessa, essa sembra la stessa cosa, ma di fatto basta che essi credano una cosa, non importa in che modo, per far sì che possa essere uniformata per verità. Di fatto la verità non può essere applicata, al consenso, dato il suo valore di peculiarità in quanto scoperta del linguaggio che l’ha cercata, e con il quale l’autore per suo mezzo sì è confrontato con la sua essenza totale, anche più che oggettiva.

Non può esserci storia insieme con quella percezione che fa sì che l’importante non sia la verità, ma l’espressione di chi mente di meno, o di più avendo però la possibilità di acquisire più consenso. In questo modo relativo che diventa una sorta di assoluto, la paura e il suo appagamento, vi dicono cosa pensare. Biologicamente non vi è altra verità, né inconscia né astratta, non vi è proprio conoscenza, né analisi dei propri pensieri per acquisire un dialogo interiore che faccia conoscere anche quel che non pensiamo, per mezzo del pensiero, come espressione di una conoscenza della coscienza che trova risposta al quesito a cui chiede di rispondere - al di là di una domanda che non appartiene alla verità - in quanto espressione e relazione con la verità, nella sua unica ma molteplice espressione. E non si è obbligati a rispondere a quelle domande che non provengono da nessuna esperienza della verità, non si è obbligati a rappresentare, non si è obbligati dall’oggetto, perché la verità ha in sé sia l’astrazione che la spiritualità, essa non è delegabile.  

Di dove, da dove scrivo, siete già in questa domanda incapaci di rispondervi”? ma almeno siete capaci di chiedervi, a cosa state pensando e perché, e dove, e in che quando, e quanto.?

Prima di chiedervi chi sia che scrive, e chi è che legge.

 


[…]

 


La consunzione è una sorta di auto digerirsi un po’ alla volta. La causa del perché la donna che è lì in terra è in silenzio, non perché suo figlio è morto poco fa autodigerendosi, ma perché non ha più la forza di parlare, ma dire la forza è una prospettiva proiettiva di chi guarda, in realtà, non vi è proprio né l’immagine né la memoria di qualcosa che leghi la volontà ad un atto di forza, la sua condizione sotto questo profilo è come quella di una morte dolce, quale quella che si sta avvicinando. Appena il suo corpo non avrà più nessuna volontà biologica, e non riuscirà più neanche ad auto digerirsi cesserà di vivere. Biologicamente non vi è cosa più rilevante di tale condizione fisiologica, al di là di qualsivoglia funzionalismo del comportamento, o psicologismo. Ma perché voi che la guardate, o magari siete lì prossimi ad aiutarla, potete avere anche un modesto margine di condizione materiale che non vi fa morire così. Siete forse più informati, conoscete qualcosa per cambiare le cose, le risorse materiali, virtualmente realizzate per mezzo dell’economia, hanno determinato la sorte di questa donna, al di là delle sua stessa capacità? – e perché non potrebbe essere anche un uomo – qual è la conoscenza che non condividete, e di cui abusate, che vi fa decidere che la vostra sorte biologica debba essere diversa da quella donna? E qual è la sorte spirituale migliore. Perché sul piano spirituale non vi è una sorte, che può essere superiore ad un'altra al di là di ciò ch’è vero, e la compassione determina e cambia la biologia.

Ciò non toglie che si possa anche scommettere per gioco economico, sull’ora in cui essa morirà.

 

 

[…]


Un giorno. Quasi tutti quelli che per soldi praticano la psicologia e la psicanalisi, che io sappia in effetti tutti sono incapaci di realizzare un’autoanalisi, di se stessi, fino a realizzare su queste basi all’interno dell’intero processo di coscienza e consapevolezza della propria persona, la consapevolezza di se stessi, e le possibilità del metodo che hanno scelto di usare e che devono portare alla a confronto con se stessi e con la verità che questa ipotesi di metodo ha in sé sviluppato. Non che molta gente non vi abbia provato, più che altro per una sorta di competizione psicologica con la propria categoria per la supremazia del metodo applicato attraverso la propria spiegazione, aumentando il proprio narcisismo, per competere e superare il maestro che lo ha inventato, magari attraverso il consenso economico psicologico sociale, o di appagamento derivato. Quando uso il termina di maestro mi riferisco, in particolare a Freud e Jung, entrambi costruttori di un processo di auto analisi, non dimenticando gli altri apporti di conoscenza, di altri. Di fatto sul gioco narcisistico di non poter essere come il maestro, si applica la vanità per il controllo delle possibilità e le capacità dell’individuo, in questa pratica. Ciò ovviamente è di chiara derivazione psicologico comportamentistica, che si associa e si strumentalizza con un freudismo collettivizzato, appunto, attraverso la psicologia. Di fatto con il termine conosci te stesso, si va oltre la specifica pratica psicoanalitica, e con il riferimento di spiritualità e ciò che da essa è venuto, il significato conosci te stesso ha anche un termine di confronto. Ora rimanendo nell’ambito di quei due, nella necessità di conoscerne il pensiero per la pratica di un’autoanalisi, è bene dire che la capacità del talento individuale e la sua autonoma espressione è particolarità non indifferente per il suo svolgimento, e per enucleare la verità che il pensiero di questi due ha in rapporto al tutto, e nel proprio individuale. Una delle prime cose ch’è importante sapere e determinare è la capacita di capire, “quando di se stessi è il momento di conoscere”, e quando dell’insegnamento non si è ancora pronti di conoscere, o più semplicemente non è ancora il momento giusto, per coniugare la conoscenza con il sapere che si va a capire, per espletare la propria individualità, e ciò è una peculiarità individuale. Ora dato che l’epoca è altamente determinata dai condizionamenti, e psicologizzata nelle reazioni, c’è ipotesi di dovervi dire: il raggiungimento per me di Jung è stato indispensabile per portare la capacità di comprensione, relazione ai fenomeni e loro percepibilità reale nella mia identità individuata, di individuazione e possibilità di amplificazione, ampliazione del “confronto” per la conoscenza. Ciò ovviamente non per determinare su una rassicurante diatriba pseudo psicologica sociale, tanto in uso per dire che l’una pratica è meglio dell’altra, ma ciò è un dato di fatto della mia individuazione, che nella divulgazione culturale, per semplificazione comunicativa mi fa dire che Jung non va per esclusione.

E allora conosci te stesso, pensa al mondo e pensa a te stesso, perché e comprendi quel ch’è vero più che quel che ti immagini esserlo, comprendi l’immaginazione. Insomma oggi dopo aver pensato con me stesso e le mie esperienze, e il pensiero che venivo conoscendo, anche per mezzo dei libri, ho deciso di portare la pratica dell’osservazione di me e del mondo, anche verso una analisi dei momenti, ovunque e dovunque, nel senso se genericamente una persona pensa a quel che gli sta succedendo, immaginando una risposta che abbia una relazione con la sua profonda coscienza, e guardando il mondo solo per essa, non rinunciando a questo, presso i diciotto diciannove anni, oggi, iniziai a praticare, di fatto, che ogni qual volta una variazione conflittuale del mio stato emotivo si manifestava, anche se pur minima, mi sarei fermato in quell’istante a riflettere, qual era la decisione che stavo svolgendo, qual’era la relazione tra la mia decisione e la componete sociale e culturale mia personale e collettiva, e soprattutto ed anche, che cosa stava accadendo in quel momento nel posto dove io mi trovavo, cosa vedevo, cosa ascoltavo, che cosa odoravo, e qual era l’influenza che questo esterno aveva sul mio stato emotivo, insieme alla causa che io vedevo, ed a quale altro stato emotivo simile nel mio ricordo il pensiero tale stato emotivo mi riportava.

E un giorno avrei saputo anche quanto sarebbe finita.

 


Dopo e del prima e dopo.

Certo che sei bella, ma credi che sia questo, e tu mi trovi altrettanto bello?

Come fai a sapere quanto ti trovi bello?

Forse perché m’illudo? di Credere che tu capisca quando ti amo.

Vuoi che io sappia quanto tu capisci di me, non so, certo che mi piace quanto facciamo all’amore.

Di questi tempi questa è già una affermazione non da poco, dato che il gioco dell’illusione è tutto nel non dire quello che realmente si prova, né come lo si prova e soprattutto quando. Un po’ per controllare la situazione, un po’ per paura di non saperla poterla controllare, o più esattamente non volerlo ma non ammetterlo, né a se stessi e per paura di ciò neanche agli altri, o all’altro in questo caso tra me e te. Io credo che l’amore che investe e un po’ vive in tutto, sia proprio unilaterale, io ti amo perché voglio amarti e ho deciso di amarti, è solo questa consapevolezza, questa predisposizione al conoscere, che poi in fondo, mi fa scegliere di essere coerente, nel rivelarmi a te, e mi fa credere che anche in te in quel che mi dici ci sia questa coerenza e unilateralità del tuo amore per me. Non può essere che questa reciprocità verso il tutto, che dà senso alla nostra specifica conoscenza ad amarci.

Per essere un po’ al di là del tutto, per capire la verità, e quel che si è in grado di fare, di essere. Ma se quel gioco dell’illusione, sia esso stesso la coscienza ciò, qualcosa, che la sovrasta e controlla la stessa paura della paura di non poter controllare il dominio per mezzo dei sentimenti, in certo qual modo dominati, non si finirebbe per essere in qualcosa, come qualcuno che non sa e di fatto si appaga di questo non sapere, in una sorta di reciprocità che sceglie senza avere bisogno proprio di scegliere, di sapere e volere di farlo, anche se in un atto di volontà, ch’è un gioco al controllo e al dominio senza sapere perché ma solo per il fatto di provare tale sentimento e quelli che da esso derivano, più socialmente, in definitiva per un controllo una sensazione di dominio, onnipotentemente sciocca, di controllo dei sentimenti le affermazioni le sensazioni e il significato dei comportamenti. E cosa rappresenterebbe dirsi ti amo, se non una scelta senza scelta, priva di coscienza, sia di conoscenza formante e scoprente della verità. Una unilateralità che non esiste qualcosa di omologato e immerso nel tutto dei sentimenti di una emotività collettiva quanto priva di unilateralità per un individualistico controllo, e potere, ad ognuno sarà dato in base alle proprie sensazioni e istinti di compensazione e competizione al controllo.

Siamo a questo punto o quanto ti bacio riusciamo ad essere ancora in qualcosa di libero e fedele. Mettiamo il caso che io e te ci fossimo incontrati, nei primissimi anni della nostra vita

Che vuoi dire che siamo sotto un effetto d’imprintig

Pressappoco, di fatto anche se ciò fosse avvenuto, e diciamo pure non per caso, se qualcuno ci abbia fatto incontrare, il fatto che successivamente ci siamo conosciuti, ha determinato quei sentimenti che in formazione o forse già autentici c’erano in quei primissimi anni. Ma anche così qual è la capacità di unilateralità ch’è propria ed individuale, che fa sì che qualsivoglia condizionamento o naturale sviluppo, sembri coniugarsi, solo apparentemente con uno stato di volontà determinato. Io non credo che io te ci saremmo potuti trovare solo in base a quell’incontro, se la nostra esistenza non avesse una capacità di coscienza e consapevolezza, di capirci ed amarci. Difatti le componenti del pensiero sono infinite e ciò che si sa fare con esse, è una peculiarità dell’individuo, dell’essere umano in sé, a meno che non si sia ridotto come hai detto tu. E poi c’è anche da aggiungere che se è vero che le tecniche di verifica naturale possono anche avere delle realtà e delle realizzazione, l’atto di volontà che determina il controllo, in campo della psicologia del comportamento, hanno lasciato il passo, più che allo sviluppo naturale, alla stessa determinazione dei tempi di realizzazione, si è passato dallo studio dei riflessi condizionati dei nervi, all’applicazione al cervello, si sono travisati nomi e ricerche, e le scoperte sul comportamento determinato negli animali, sulla riproduzione nello stato di coscienza dell’essere umano. La stessa osservazione ha lasciato il posto alla manipolazione, sempre più capillare e deterministica quando folle. E allora anche se noi ci fossimo trovati in questa situazione in modo del tutto naturale, e ovviamente solo per sviluppo e casualità naturali, dove la nostra coscienza ha agito in modo del tutto indipendente dai condizionamenti e la nostra intelligenza abbia agito altrettanto naturalmente, si potrebbe dire che nonostante il tempo passato può esserci stata una componente che ha determinato che ciò accadesse anche per quei sentimenti instaurati in quella primissima età. E ciò vorrebbe dire che qualcuno ha continuato ad osservarci, a nostra insaputa, ma più esattamente con i tempi che hanno distrutto la naturale osservazione, priva di controllo come di obbligo alla determinazione dell’accadere. Molto probabilmente dovremmo chiederci, non solo di sperare che ci abbiano dimenticato anche di osservarci naturalmente, ma chiederci realmente, se non, se non siano state attivate strumentalizzazione affinché, per quel che più interessa oggi, non si sia giunti a dimostrare con quanta rapidità agisce il condizionamento e per forza far riuscire questo esperimento per dimostrarne le tecniche.

E allora cosa impedirebbe che dopo che ci hanno fatto trovare, ci dividano, per continuare l’esperimento?

Senza che facciano i conti con la nostra intelligenza e la nostra coscienza, è un sistema così onnipotente e coercitivo della volontà o del sapere della coscienza!? E allora siamo a quello che dicevo sulla capacità di essere con un amore unilaterale, altrimenti non sapremo mai perché siamo qui, e ci proietteremo addosso le illusioni, e lotteremo l’uno l’altra per avere il sopravvento e il controllo sulle tecniche che ci hanno indotto a stare insieme, in quel così, non avremmo altri da vedere e con questi occhi guarderemo il mondo, che guarda senza vedere.

Sai un po’ di tempo fa sono andata in una sorta di festival, dove si effettuavano dei test sulle percezioni dei sensi, e l’elaborazioni della mente. Ci sono stata solo una giornata, e mi sono chiesta chissà se la cosa fosse stata organizzata in modo più ampio e fosse anche durata di più, si sarebbe, avrebbero potuto organizzare molti altri esperimenti mentre eravamo lì senza che ne sapessimo niente.

Anch’io sono stato in quel posto, e la cosa che ho fatto è stata, non solo osservare quella strana competizione biologica che si è sviluppava attraverso il riscontro sui sensi, tra le varie persona o gruppi che erano lì a parteciparvi, che con chi era con me l’ho messa subito sul piano del gioco, che non sarebbe andato al di là della nostra capacità di coscienza, ma la cosa che mi è piaciuta osservare, senza dar nulla dell’osservatore, sono state le reazioni che avevano le persone che erano lì e che osservavano le persone che si applicavano ai vari test, voglio dire gli addetti, e mi sono chiesto chissà se una volta fuori da qui tutto sarebbe finito!.

Ci siamo stati tutte e due.

Già. Sai è un po’ di tempo che ascolto una radio, che in pratica applica un linguaggio parlato, ch’è una sorta di psico associato con una sorta di implicito contraddittorio, quanto rivolto all’ascoltatore, con una sorta di dialogico che sopraffa naturalmente con dentro dei contenuti musicali abbastanza accattivanti, non so certo quanto si possa ottenere così.

Ho saputo di un tizio, che s’è visto tamponare, perché per un istante ha avuto i riflessi del piede ritardati da quello che aveva interagito tra quello che stava pensando e quello che stava ascoltando alla radio, ma l’incidente poteva essere evitato.

E invece, l’altro, gli è finito addosso, vai a sapere perché?

Alcuni gironi fa ho visto un talk show, dove ho visto come i contenuti” …e ancora e ancora

Vedremo, fra dieci anni, tutti saranno condizionati, fra venti saranno condizionati, e vorranno solo condizionare, e incominceranno ad impazzire senza sapere di esserlo.

 


Italia: erano gli anni in cui era di rigore l’uomo palestrato, anche se i termini erano ancora italiani, l’attività fisica o i pesi, potevano chiamarsi ancora ginnastica. La regola comune per tutti era disimpegno, da tutto e per tutto, le donne ondivagavano e iniziavano a fare aerobica tutto il giorno. La regola per i giovani era non sapere quel che fare fino alle tre della mattina, e poi andare in discoteca. Anche se la loro ignoranza non era ancora arroganza, ma banalità. La regola comune per tutti era la “firma”, e si vedevano i primi telefoni cellulari, che erano oggetti simbolici e costosi, di rappresentanza, su cui si stabiliva una superiorità per mezzo di un oggetto, che era stato tolto dalla sua funzione, non era chiaro, quando in effetti servisse. Ce n’erano anche di finti, in giro. Di fatto si finiva con la sua ostentazione, in una sorta di ricerca del consenso, un rapporto tra l’ammirazione e l’invidia, e la possibile dichiarazione di utilità. E se ne parlava con la vacuità. Insomma non era ancora un oggetto che aveva esteso la sua funzione, in una costante interferenza psico sensoriale tra il dire, il fare e il guardare, che per suo mezzo si sarebbe diffusa ovunque. Gli adolescenti si firmavano in una sorta di omologazione culturale tra l’abbigliamento firmato quello che mangiavano, e dove – si definivano paninari, e la dialettica era tra il vero paninaro che aveva le giuste firme addosso, e il coatto, che non aveva abbigliamento dello stesso costo del cosiddetto vero paninaro. Le spiagge erano piene dei cosiddetti play boy in cerca d’avventure, che trattavano la stagione come una vendemmia, e andavano rapidamente in crisi narcisistica.

Lui aveva un fisico atletico e armonico, modellato dal sole e dalle nuotate in mare della mattina, l’intelligenza di un Socrate, gli occhi del verde di un italiano e dell’ocra di tutto il mondo, l’abbronzatura dorata, e il sorriso indoeuropeo. Il colore dei suoi capelli in estate tendeva verso il biodo, per i bagni di mare e le asciugate al sole. Decisamente non amava sdraiarsi se non sulla sabbia con solo il suo asciugamani da mare. E osservava la disputa tra i bagnati su chi avesse più sdraio e lettini da sole. Del resto non aveva né colpe né meriti per il suo fisico, e se c’era chi dopo ore di palestra non mostrava in realtà nessun muscolo. Non considerava il, cellulare, e la dialettica su di esso, su cui chiunque cercava di portare l’argomentazione, e amava profondamente le donne che da solo conosceva, con la galanteria di una vero ospite, e concedeva la sfacciataggine alle persone che la meritavano. Era decisamente disorientativo, e lasciava il chiacchiericcio agli insoddisfatti e alle stupide.

Alcuni mesi dopo, Milano: era il tempo, in cui il denaro era il fine la causa e l’effetto. Il dollaro sarebbe arrivato a 2400 lire, la borsa era pompata dalla nascita dei fondi di investimento, e cresceva inevitabilmente. Negli Stati Uniti due tizi iper accademici aveva inventato un metodo matematico, il primo nella storia economica, infallibile, basato suoi grafici, tanto che fu dato loro anche il premio Nobel. Lo yuppismo imperava nel mondo, l’arte era puro oggetto di investimento da gonfiare. Lo scopo degli yuppie era diventare miliardario nel giro di due anni, speculando in borsa. I consulenti finanziari in una sorta di ammaestramento competitivo klagessiano doveva convincere e convincere acquisire denaro, nel culto della personalità gerarchica che infondeva loro lo spirito della conquista del mondo, per mezzo dell’appagamento degli istinti, per mezzo della capacità funzionale esistenziale di fare denaro, con l’effetto del “convincimento e dei grafici”. Milano era in un vortice di affarismo politico finanziario che aveva come unico scopo vitale il pompare questo sistema, i milanesi erano imbevuti di qualunquismo, si correva e si rimbalzava senza capire bene quello che accadesse, l’importante era partecipare al gioco. Milano era la patria delle firme e dei paninari, dell’anche io e perché no!? Ci si emancipava così dagli “anni di piombo”.

Lui e lei, che parlano in un ristorante.

Lui: “tutta questa situazione, mi sembra una pazzia associativa, la gente non si ferma a pensare, e i volti che incontri per le strade sono tutt’altro che allegri, me sembra tutto collegato quello che fa la gente, gli oggetti i pensieri.”

Lei: “Ma da chi e perché?”

Lui: “Ma come perché, per indurti a fare certe cose, e poi ho l’impressione che ci siano un po’ tutti, senza sapere dove si va a finire, la vita è fatta di molte altre cose oltre il denaro. Lo sai che mi è venuto in mente, in tutto questo sistema di percezioni; metti il caso che io vengo a Milano, un po’ trasformato, che so mi metto delle lenti a contatto di un altro colore, mi lascio crescere la barba, o meglio senza farmi crescere la barba. E faccio in modo di conoscerti e di conquistarti, so molte cose di te ed anche se farei finta di essere diverso, mi assomiglierei ugualmente, e se facessi finta di non sapere chi sei!? Chissà che succederebbe.”

Lei: “E se mi innamorassi, o non ti riconoscerei?”

Lui: “A be’, non rischierei, ti direi subito tutto.”

Qualche settimana dopo

Lei telefona a lui: Che sei venuto a Milano, oggi nel ristorante dove stavo, è entrato uno uguale a te, anche il collega di lavoro che era come me era convito che fossi tu, sembrava che stessi per venire da me, sembravi proprio tu.

Lui: No non ero io, sarà stato un sosia, pensavo di essere unico, scherzando.

Lei: guarda che sembravi proprio tu.

Lui non era andato a Milano, dopo del tempo gli yuppies incominciavano a perdere la loro onnipotenza, e nel giro di niente molti perderono tutto, e alcuni la vita. I due premi nobel persero in borsa più di quanto avevano pensato potessero guadagnare “matematicamente”. Il sistema dell’arte, l’arte, non si reggeva più su nessuna identità. E a Milano si sarebbe scoperto un giro di tangenti megagalattico.


Tre anni circa; dopo, in un altro posto dell’Italia, in una pizzeria, lui e un’altra lei.

Capita spesso di sentirsi osservati, ma non ci si fa molto caso, e quando si è con una donna la qual cosa è maggiore, ma di fatto quell’impressione era più particolare in quel periodo, quasi che qualcuno ci osservasse non casualmente, ma l’atteggiamento era in fondo privo di scopo, se non in uno strano gioco di relazioni d’osservazioni, senza niente di così evidente. Di fatto stavo vivendo quel periodo con una donna che avevo appena conosciuto, da cui ero particolarmente attratto, e di cui sostanzialmente non sapevo nulla, se non quello che lei finiva per mostrare, un carattere come ve ne erano molti in quel periodo per quel che riguarda l’atteggiamento verso il denaro, ma con cui era possibile vivere momenti di intimità estrema, ad altri che potevano accompagnarsi, ad una generica stupidità di proporzioni incontenibili. Le donne spesso cercano “strani modi” di dominare la situazione, o giustificare, il proprio sentirsi e il proprio egoismo. Ma sinceramente non so se quel modo impercettibile di sentirsi osservato, al di là del naturale essere guardati, fosse in relazione con lei, o con chi altro. Una sera, sentii due tizi che si accompagnavano nel passeggio, tra la gente ad una distanza di alcuni metri da noi due, mi fermai e accompagnai lei toccandola sul braccio a fermarsi con me, in modo naturale per guardarla e dirle qualcosa, i due ci avanzarono e superarono di un quattro metri, e si fermarono a parlare in un modo molto simile ad un atteggiamento abitudinario, mentre erano presi così, cercando un argomento di conversazione, a questo punto decisi di osservali, meglio guardarli, in modo che capissero il mio sguardo, e la reazione fu come di sorpresa, o un risveglio da quell’abitudine” e fecero per riprendere a camminare, e allontanarsi.

   Lui e lei in quella pizzeria.

Lei – …che hai in mente di fare, con queste cose che stai studiando?

Lui – Voglio approfondire, il fatto delle relazioni, tra i vari fattori della comunicazione, gli oggetti, e le reazioni in cui sono indotte le persone.

Lei – Perché che pensi?

Lui – Perché secondo me, non è del tutto casuale, voglio capire come può muoversi una progettualità in tal senso.

 

 


Lo scrittore non ci dice la situazione psico culturale del colloquio che segue, ne riporta solo le parole.

…Ti interessa diventare un agente?

No!

…noi sappiamo che conosci […] e sei andato[…] era facile sapere della conoscenza, era una persona del tutto normale, ma non era mai andato in quel paese.

Nessuna risposta

Ti faremo dei test!

Non capisco che test volete fare, la cosa a me non interessa.

Da adesso aspettati che ti possano accadere delle cose senza che tu lo sappia.

La cosa non mi sembra molto legale.

Non ti interessa perché hai paura.

A me non piace che mi dicano come devo pensare.

Tra i due, guarda che il comandante ti farà un culo.

 


Entriamo nella seconda parte di qui, e la prima persona che incontreremo nella narrazione, che parlerà, che lo scrittore esprime, sarà quella di un marziano. Il marziano non ci dice esattamente, come il mondo si è via via tecnologizzato, e psicologizzato, ma comunque racconterà alcuni fatti e i fenomeni che gli sono accaduti, che accadono, in un arco di tempo approssimativo, tra il 1987.88 e il 2004.   

 

Per un marziano parlare con un terreste non è molto difficile, però nella psicosi terreste, la qual cosa si rende complicata, e in tale conseguenza, oltre ad esserlo si viene tacciati di essere un marziano.

Nel tempo dei brevi episodi che racconterò, ora faccio una premessa, che non vuole essere, che non vuole essere uno stratagemma per incuriosirvi, ma proprio l’opposto, nel senso che chiarirò subito un termine che si sta via via facendo espressione in questa epoca, e che negli episodi che racconterò in quanto marziano, chiarisco che non sono fatti per farvi pensare al concetto che tale parola esprime, e che vi potrebbe essere suscitato da essi nel pensiero. Anche perché non può essere fattore di curiosità ciò, che in definitiva si apprende, più per conseguenza inconscia, e oramai subliminale, e in conseguenza di ciò il fatto stesso che io possa proporre questo termine nell’immaginazione di chi guarda, mi pone subito nella posizione ipotetica, di dire che esso esiste e si applica su chi guarda, al di là del suo dirsi in questo contesto, appunto per la sua stessa “natura intrinseca” come espressione stessa di quel che è. Il termine è mobbing, esso in effetti non è niente di nuovo, nella storia dell’uomo, giacché si basa sulle sue pulsioni, è soltanto una evoluzione di determinazione di tali finzioni. È esso l’ultimo termine che il momento storico, nella prospettiva della fine di questo secolo, si è dato delle tecniche di persuasione e controllo che hanno attraversato tutto il ventesimo secolo, esso è l’evoluzione parossistica del concetto di funzionalismo, applicato al sapere e alla coscienza umana. Io da marziano ho osservato molto l’essere umano, nei modi più naturali possibili, e quel che racconterò più avanti sono le strane trasformazioni che da un certo punto in poi, anche in conseguenza di queste modalità psco fisiche psicologiche, del mobbing si sono determinate. In effetti la prima volta che mi sono imbattuto in una situazione di questo tipo, questo termine era ancor meno conosciuto di quanto lo sia adesso, nel senso che non era stato ancora proprio pronunciato. È bene dire subito per semplificazione che il mobbing non ha finalità, nel senso che è privo di una reale percezione della coscienza, esso si basa e si determina su basi statistiche, e fa del processo di emotivizzazione, la destrutturazione e la perdita di ogni capacità empatica, e di coscienza in tal senso, i fini del mobbing sono o una destrutturazione del piano della coscienza e della consapevolezza dell’individuo, o un suo assoggettamento e adeguamento ed “emulazione impersonale”, o che se ne ritorni su marte. Le tecniche applicative del mobbing sono già in essere nell’individuo, ogni sua funzione psicologica, fisiologica, neurologica, può essere trasformata in una possibilità di mobbing, che così si auto alimenta, della sensazione di potere di chi lo applica, sia delle risposte che per transfer o volontà si determinano da esso. Le tecniche per attuarlo possono essere dalle più sofisticate, alle più solo, apparentemente banali. Esso poggia sostanzialmente su una determinazione associazionistica che riduce i processi percettivi cognitivi in funzione di reazioni appaganti, e coattive, quanto oppressivi della dignità della coscienza e della libertà di pensiero, in quanto tendono a superficializzare i contenuti morali e spirituali, “tanto della domanda che della risposta”, per questo mezzo vi è un assoggettamento funzionale a favore di un’emotivizzazione priva di empatia. Che così formata su basi sociale pone chiaramente l’interrogativo se non ci sia una psicopatica visione del vivere, nella società che così si forma, quando in aggiro a ragione nella sua espressione di governo. Pensare di essere invulnerabile è una delle basi per finire mobbizzati e diventare mobbizzatori, che si badi detta da marziano, spesso ad di là di una percezione della coscienza illusoria, il mobbizzato non sa quel che realmente fa né immagina di essere tale. Ciò sposta chiaramente la percezione sul piano di essere in un teatro di guerra psicologica, e ciò che è bene sapere è quel che si è e ciò che si vuole fare, spesso indipendentemente da tutto, e tutti. È bene sapere che tali situazioni sono destinate a collassare e distruggersi, non hanno in sé nessuna qualità di progetto, nessuna reale causa o effetto solo il tentativo di perpetuare qualcosa, su queste “determinate basi”. In realtà vi è più forza ed insegnamento morale, soltanto osservando come spontaneamente un albero cresce, ed un piano della percezione e della coscienza molto più ampio. La tecnica del contrasto su cui esso si determina, su basi esplicative scientifiche, è quello delle forze contrapposte di Niuton, e la sua gravità - si potrebbe rispondere adeguatamente con Einstein, ma in realtà, il mobbing riduce tutto, in un riduzionismo demenziale di potere, tanto che se non si è capaci si finirebbe, esso farebbe esaltare Einstein per fare odiare Niuton, per poi fare affermare il riduzionismo che esso da di Niuton, ciò può sembrare intelligente, in realtà è il plus ultrà della stupidità, è menzogna. E allora non mi dilungherò ancora sulla spiegazione di questo termine, che mi auguro abbiate capito, è distruttore dell’amore e della libera e spontanea fragilità dell’essere umano.

Diciamo ch’è opera di un marziano, affrontare e scandagliare, o subire cotanto.

E allora mi accingo qui di seguito a raccontarvi alcuni accadimenti di carattere personale ma anche esplicativi dello stato, di una società che si trasforma in siffatta realtà, più o meno inconsapevolmente, e il perché spesso vi apparirà inesistente, come del perché certe cose siano accadute.


Sarà che era era l’epoca, dove i più cercano la visibilità ad ogni costo, che si competeva su chi dicesse la cosa più volgare, o che l’importante era farsi guardare, che la vita personale la più banale o la più popolare fosse di dominio pubblico, e che tutti se ne interessassero o più che altro ne parlassero, che in sostanza si possedesse la verità con la cosa più insignificante possibile, o forse niente di tutto questo, ma tutto questo, senza che tutto questo esistesse, in un’immagine che si rappresentava continuamente, senza altro significato che quello di apparire e associare il proprio apparire ad un significato comune, quanto affermativo di se stessi, nel rappresentarsi, un’associazione continua con il proprio muoversi pensare, e emozionarsi, in una volontà comune di competizione di potere e controllo e supremazia, per l’affermazione della propria visibilità. Dove l’ovvietà diviene priva di qualsiasi, esperienza individuale e determina un livello d’intelligenza, che si appiattisce, su un sostanziale non senso del luogo comune, un’interpretazione per somma sostanza della convenienza più banale come verità ultima e assoluta, che trova in paritetica sostanza la rappresentatività, l’immagine, di questo mondo di interpretare come verità, ovvia e priva di qualsiasi momento critico ad di la della competizione per convenienza del controllo della rappresentatività, della propria immagine che percepisce, in un tutt’uno interpretativo tra la propria interiorità, e l’esteriorità, l’involontarietà del gesto della parola e dei suoi significati, come conseguenza che rassicura e afferma l’immagine come l’immaginario di se stessi con il mondo.

In pratica ero un marziano che andava in spiaggia, e nuotava in mare, ma che passava anche molto tempo, o diciamo aveva passato, ad osservare, a vedere perché le persone litigassero, perché volevano comunicare in un modo invece che in un altro, confrontare la mia osservazione spontanea e naturale quando neutra, con una conoscenza diretta, e farmi anche coinvolgere dalle cose belle che potevano accadermi, comunque in sostanza dopo tutto questo, ero seduto sotto il sole, e si approssimava l’ora più calda, osservando l’intera spiaggia, a qualche metro da me vi erano un gruppo di persone, e una di esse non so se la “chioccia” ogni tanto, avevo notato, che faceva un gesto con il braccio, rapido ed anche se avevo cercato di capire in che e per chi lo facesse mi sembrò di capire che se ero solo io il più prossimo a lei che l’osservava, non vi era un seguito che mi facesse capire che fosse rivolta a me. Dopo un po’ vedo giungere due giovani donne, più che ragazze, e sdraiarsi al sole proprio dinanzi a dove ero seduto io, iniziando una conversazione, che era stimolata continuamente da un gesto della mano, si rimbalzavano la frase l’un l’altra in questo modo, il loro accento, la loro pronuncia aperta, che aveva una sua sonorità, che indicava il posto da dove provenissero. Non ricordo esattamente se fu in seguito a questo che iniziai la conversazione con loro, cercando una relazione con il loro modo di esprimersi, ma in sostanza la conversazione fu breve, dato che di lì a poco, io sarei tornato a casa, nel parlare dissi ad una di loro, che aveva un modo interessante di formulare i pensieri, e chissà forse poteva avere qualche attitudine come analista, l’altra rispose, hai un altro lavoro. Mi chiesero perché pensavo questo e dissi loro, che mi ero sempre interessato di queste cose, che però prediligevo il pensiero Junghiano, e mi chiesero se ero di lì e che cosa stessi facendo, ma in questo momento, stavo seduto ad osservare la gente sulla spiaggia, prima che arrivaste voi, e osservandola ho notato che alcune volte sembra esserci una corrispondenza tra il movimento di due persone anche molto distanti l’una dalle altre e che apparentemente non hanno nessuna relazione in comune, ma che finiscono per determinarsi nel muoversi del tutto inconsapevolmente, inconsciamente, una di esse mi fa, una coincidenza. Rispondo, non proprio, aggiungo non so se conoscete la sincronicità junghiana, spiegata, molto semplificata, in sostanza per me una coincidenza è qualcosa che si avvicina più al funzionamento del cuore o del respiro, un coincidere in un’assoluta involontarietà, con il cuore e il respiro di un altro, una profondità di pensiero, ora diciamo che la sincronicità junghiana è qualcosa di ancora più peculiare di questo. Incominciava ad essere tardi, e le lasciai dicendo loro, che mi avrebbero ritrovato qui l’indomani e se avessero voluto, potevamo continuare a parlarne.

L’indomani mattina, arrivato sulla spiaggia, nel gruppo che era al mio fianco, noto là una di loro che immaginai essere la figlia della chioccia, che faceva quel segno il giorno prima, saltare in modo bizzarro da un punto all’altro della spiaggia che le era prossima, e gettarsi a terra, e dire esplicitamente: mi ha guardato, poi lo ripeteva e diceva e adesso. Dopo un po’ giunsero le giovani donne del giorno prima, quella a cui avevo detto che aveva un bel modo di formulare le frasi, seduta mi fa un gesto tra braccio e mano, e mi guarda in un modo che non si capisce, l’altra gli fa un cenno, poi fa un gesto di direzione con il braccio, di là, dice, si alzano e vanno in quella direzione, da un’altra persona che non ho capito dalla sguardo sorpreso che aveva, se le conoscesse o sapesse perché.

Oggi mi fermo qui, nel raccontare, e vi dico che di quello strano modo di salutare, quasi per verificare che e che cosa, ne racconterò, alcuni episodi, più avanti nel libro.

 In effetti man mano che i giorni passavano, incominciavi a notare, che i più semplici gesti della gente, si trasformavano da un modo di pressappoco naturale appagamento ad un esibizionismo che si potrebbe definire con tendenze dominanti, una sorta di rappresentazione ostentata nella sincronizzazione dei gesti comuni, quali lo sdraiarsi al solo, lo stendere un telo da mare, tuffarsi, aprire l’ombrellone. Per quel che mi riguarda, provai a cambiare spiaggia alcune volte, ma di fatto certi episodi, si ripetevano, del tipo, ero sdraiato ad occhi chiusi, respirando tranquillamente, quando sento due parlare nei miei pressi, ed ad un certo punto sento uno dei due che emette un respiro, insieme al mio, e dire, oddio mi è entrato dentro toglimelo, e prendere e allontanarsi insieme all’altro. In effetti sovente osservavo dei tizi che magari prima che mi stessi per tuffare, pantomimizzavano simulando il mio gesto. Sta che tornai vicino alla spiaggia dove ero solito andare. E vi restai per un po’, e mentre osservavo la gente che cercava di determinarsi l’un l’altro, incomincia a notare che ogni qual volta attivavo un mio comportamento c’era un tizio, che emetteva, una specie di suono gutturale, passarono dei giorni e la qual cosa continuava a ripetersi, sinceramente cominciava ad essere poco chiaro se fosse un tic, nervoso o altro, in quello stesso periodo non facevo altro che trovare piccolo pezzi di vetro verde, che raccoglievo e normalmente gettavo in un posto dove non arrecassero danno. Dopo un po’ che succedeva ciò, incomincia a sentire dei commenti, sul fatto se lo avessi trovato, sul perché lo gettasi in un posto o in un altro. In quello stesso periodo era sovente che vedessi delle donne, che magari facevano un gesto nella mia direzione, quasi compiacendosi del fatto che le guardassi, o di un tizio, che mi fa una posa con il braccio alzato davanti senza emettere parola, e poi si allontana, e mentre parlava con altre due persone, ad una certa distanza alza il braccio in modo tale da essere visto, ora io non ricordo se mi voltai in quel momento per guardare il mare, o perché quel tizio facesse quel gesto, la qual cosa in fondo non è determinante, se non per il fatto che il suo modo potesse essere preso per qualcosa di poco educato nei miei riguardi. Ad un certo punto un tizio della spiaggia va da  questo tizio che emetteva quei suoni gutturali, e che ogni tanto esprimeva dei commenti, del tipo di quelli che ascoltavo io quando raccoglievo il vetro, e gli dice le sta facendo a me queste cose, lei ce la con me. Nel frattempo a me era accaduto che delle persone per associazioni di concetti espressi nelle loro conversazione, sì che sembravano essere fatte in modo che io le udissi, facevano riferimento a situazioni quali per allusioni io potessi determinare delle associazioni, anche magari con alcune di queste donne, che avevano fatto dei gesti senza favellare, o che conoscessi, ma a cui non potevo determinare se non un’ipotesi allusiva, che in definitiva se concettualizzata finiva per essere più che altro di carattere sospettoso. Era proprio come essere in un ambiente dove chi faceva fare a chi e chi faceva prima di chi, e per forza con chi e di chi. In effetti bastava ora che mi grattassi un braccio, o mi toccassi una palla, che partivano tutta un serie di ipotesi interpretative, se fosse avvenuto per il suono gutturale, per il gesto di una donna, o per il gesto di qualche un altro, o magari perché qualcuno in quel momento apriva un ombrellone, e questa specie di transfer, di tutti su tutti e tutto si poteva definire puerilmente negativo, ma in effetti era da chiedersi, anche quando quelle donne che magari attraverso quel gesto, avevano idealizzato, una sorta di potere e consenso su di me che null’altro avevo percepito se non una molestia - in un contesto dove tutti pensavano di avere una qualche autorità su quello che interpretavano, rimbalzandosi l’un l’altro – la loro l’idealità, si sarebbe ben presto trasformata in rancore!? competitivo quando a fini di odio più o meno compensativo della loro coscienza, e cosa impediva che quel che io avevo percepito come un gesto qualcun altro vedendolo non lo avrebbe interpretato in chissà cosa. Insomma ovunque era un dirsi dove andare e quando senza considerare nessun perché, se non in definitiva l’associazione più o meno percepita che lo determinava, e quando la gente non avesse più capito se lo avesse voluto o no a cosa avrebbe aderito, al transfer negativo, o quello positivo!?

Per quel che mi riguarda sempre più spesso mi succedeva che dovunque andassi, o chi conoscessi, la comunicazione, diventava più una ricerca di potere che di spiegazione e di realizzazione pragmatica del volere, che viepiù si esprimeva attraverso la ricerca di un condizionamento, per fastidio ed imposizione, e coercizione per compensazione del libero pensare quando esprimersi, nella ricerca di affermare la propria identità sulla domanda o la risposta, in finzione e funzione anche di un avere o un possedere. La cosa più paradossale era un fattore funzionale della costruzione del pregiudizio, quasi come se delle persone avessero parlato di me, (ad altre) facendo, finta di conoscermi, più o meno discreditandomi delle mie stesse espressioni di verità, e la cosa finiva che dicevano loro che ero un terreste e quando scoprivano che invece ero un marziano nella loro logica di competizione, per quando fosse reale la realtà, l’impulso che si determinava era quello del rancore, forse perché inconsciamente percepivano la manipolazione, ma il transfer, appunto, era rivolto verso di me, dove la comunicazione e l’assurda competizione, sfociava in una funzione “spontanea” del mobbing, e la logica che si determinava era su un sì e no sulla propria coscienza, dove il transfert negativo si moltiplicava anche con la percezione dell’errore di valutazione fatto, in una illogica invincibilità senza senso, dove anche la più semplice ed elementare realtà di comunicazione e relazione, va in ogni direzione tranne nel punto in cui dovrebbe stare o si decida realmente che sia. Senza che tutti alludano a tutti quando parlano tra di loro o pensano da soli, così che si rivolgano a chi è giusto che si rivolgano.

 

In sostanza in quale parafrasi dell’esistenza mi si svolgeva il mondo, o si voleva far sì che si svolgesse il mio mondo. È come se sognassi di essere con la donna più bella del mondo, dalla pelle morbida e profondamente scura, le accarezzassi il corpo, la bacio e la bacio, l’amo, l’accarezzo con la lingua sul sesso, e dopo essere stato con lei, nel piacere, tenendola stretta tra le braccia, lei mi guarda e mi dice – mi ameresti lo stesso se fossi bianca, e io da marziano le rispondo, e tu mi ameresti lo stesso se fossi nero. E lei sono io che ti amo, e il sogno marziano risponde le risponde sono io che ti amo, fin tanto che l’un l’altro fin tanto che l’un l’altro finiscono per trovare un senso di competizione su cui determinare che cosa. Così si spezzasse il sogno… la realtà di fatto si costituiva su chi possedesse l’amore, l’anche dire, in che momento dire, e far dire e pensare, di possedere il sentimento dell’altro, in una sorta di determinazione di potere, per far sì che si potesse disporre in una sorta di sadomasochismo dell’intero controllo dei sentimenti, sui sentimenti altrui, in pratica un odio camuffato per consenso, dove il negare stesso della possibilità della comunicazione fuori dalla lotta in essa per il suo controllo, dava ai gesti la funzione di interrompere fin anche i dialoghi, in una sorta di non volere sapere o far dire ciò che si voleva si pensasse.

E allora quel sistema di riferimento mi faceva trovare dal nulla persone sconosciute, che cercavano attraverso la malversazione una forma di dimostrazione delle loro più che altro fobie, che si riversavano dal mondo su di loro e da loro su altri e me, per quelle che mi riguardavano, all’interno di un regresso sia della comunicazione che delle possibilità di relazione, in una forma d’immaturità della coscienza e della consapevolezza, in comportamenti associativi a cui davano sostanza di realtà, solo nel loro percepire gli effetti che loro andavano a produrre in forme demenziali su chi immaginavano avesse con loro una relazione costruita nei loro processi immaginativi fantastici. Nel mondo che così si stava collettivizzando, nelle misure e nelle percezioni, mi capito un ottico che mi vendeva lenti lontane dalla ricetta e con finte misurazioni, con un paio di gradi spostati, a cui per detta sapienza avrei dovuto abituarmi, era solo una questione d’abitudine, e la cosa che viepiù si determinava, era la conseguenza tra l’avere una relazione, e la perdita di essa appena subentrava una qualche percezione emotiva, che instaurava automaticamente e progressivamente una indicizzazione dello stesso salutarsi, si perdeva via via il  modo il perché, e perché si conoscesse quella persona, non c’era più una relazione tra cosa si volesse, da chi e perché e in quale contesto, e allora le inibizioni personali assumevano funzione non solo di consenso, ma reciproca ricerca per associazioni di stati emotivi compensativi con cui strutturarsi in gruppi o incontri, su cui e per cui controllare tutto il resto al di fuori, in funzione dell’inibizione e del succedaneo appagamento, un mondo asfittico per ogni reale situazione di relazione. E allora gli episodi che mi accadevano cominciavano ad assumere questa connotazione, l’immaturità e la superficialità nel confrontarsi autenticamente era la predominante di qualsiasi cosa fin anche il saluto, o nell’assunzione di reciprocità nella sua spiegazione. In sostanza il principio di volontà era solo in funzione dell’affermazione per mezzo della negazione, alterando la chiarificazione del messaggio insito nella comunicazione, e nel confronto con la realtà, qualsiasi essa sia al di là di un piano più che già consensuale, in funzione di una più reale e autenticità di conoscenza. E allora il confronto si configurava su io faccio tu chiedi, tu non chiedi e io non ti chiedo, perché non vuoi chiedere ma non te lo chiedo, e se tu chiedi qual è il motivo per il quel me lo hai chiesto al di là del perché me lo hai chiesto, quando me lo hai chiesto che volevi, ma io non te lo chiedo che volevi, me lo devi dire, senza che te lo chiedo, e se mi chiedi quello che io non ti ho chiesto, mi devi rispondere quello che volevo che io ti chiedessi, e se mi chiedi quello che io volevo che mi chiedessi, io non ti rispondo quello che mi hai chiesto, così sei costretto a chiedermi quello che tu volevi che ti chiedessi, e qualsiasi cosa mi chiederai io non ti chiederò mai nulla, tutt’al più farò delle allusione per sapere se sai quello che io volevo chiederti, e in quel che ti dirò farò in modo di non risponderti mai.

E allora mi succedevano episodi di persone che mi chiedevano un favore, e finivano per fare le cose più bizzarre, dagli appuntamenti sballati, a dei strani gesti, a dirti che ti aspettavano in una casa, e andavi in quella casa e non ci trovavi nessuno, e assurdità su assurdità, immaturità su immaturità. Bastava il fatto che tu eri stato disponibile a fargli il favore che ti era stato richiesto, e farlo nel modo più serio, e questo bastava a far sentire in loro una perdita del proprio controllo, tanto che era diventato impossibile anche chiedere qualche favore a qualcuno, che si attivava un processo inverso, per il controllo sull’interpretazione di quel che si chiedeva nel modo più plausibile possibile, che diventava un’opportunità di errore e di gestione della situazione così psicologizzata. E allora in un sorta di vedere che pensi, una persona che conosci ti guarda e non ti guarda, magari perché ti ha guardato la sua ragazza, e la sua ragazza ti guarda per vedere se la guardi, poi la volta dopo per vedere se lo saluti, ti guarda guardando la sua ragazza che magari è dietro di te, ma con quelle espressioni che tu non sai proprio cosa dire, insomma ma chi se ne frega. Per non parlare degli autentici sconosciuti che poi si sentono offesi da queste situazioni senza ne capo ne coda che creano. O di quella tizia che mi è passata davanti con gli occhiali da sole il braccio alzato e non si sapeva cosa voleva ne chi guardava, e la clonazione continua di questo comportamenti. E in una di questi episodi dove si rinverdiva tutta una serie di gesti organizzati, di più spostati, vedo e poi sento un lui e una lei, alquanto alterati, dire vuoi vedere che gira a destra, in effetti stavo andando propri in quella direzione, ed era tanto la rottura che stavo facendo proprio una sbuffo con la bocca, tanto sta, che nel mentre incrociai una donna, e mi trattenni stringendo le labbra, la qual cosa non so che strano effetto sorti, sta che il giorno dopo, mi ritrovai questa tizia, che mentre uscivo dalla posta, mi guarda, mina un movimento con i piedi e mi serra la bocca, e quanta gente per un po’ faceva in modo che la guardassi mentre serrava le labbra, anche quello era un gesto associativo. La trasformazione più consistente come ho accennato con il saluto, era proprio questo atteggiamento alterato dei gesti come segni di comunicazione, che via via diventavano sempre allusivi” e meno chiari. Non di rado mi capitava di guardare qualche donna, e da un po’ c’era una tizia che non faceva altro che attirare la mia attenzione nei modi più strani, perché poi si potesse capire qualcosa d’altro, non che mi dispiacesse guardala, ma su per giù tra un gesto di un braccio, o mimante di piedi tipo l’altra, accadeva poco altro di sensato, o che favorisse la comunicazione, sta di fatto che una volta tra un gesto della sua amica, con cui stava parlando e lei, mi volto a guardarla, dopo un poco si siede nei miei pressi una tizia, e incomincia fare dei gesti rapidi con la mano, al che non sai se è il caso di guardala, in sostanza si stava determinando nei mie confronti, una sorta di competizione gestuale per farsi guardare, che inevitabilmente avrebbe generato un esponenziale stato di confusione, tra queste che si rimbalzavano i gesti gli abiti e le situazioni, trovare un approccio razionale in questa situazione era pressoché oltre che poco possibile irrilevante, tanto era il livello di immagine emotiva sottoposta alla dinamica del dominio e del controllo, quanto imperscrutabilmente immaginativa, quanto poco valutativa delle conseguenze per se stesse e stessi, e me, o c’era chi…gioco forza se ne compiaceva. Quel che sussegui fu lo strano gioco delle fedi, e delle competizioni sessuali artistiche.

In un’epoca siffatta le argomentazione e i concetti, non erano in se stessi fonte e determinazione di dimostrabilità, in quando, di approccio alla dimostrazione di un reciproco altruismo dialettico, che mette gli argomenti in relazione tra i soggetti, e li fa agire al di là di un’ipotesi solo dialettica, verso un più ampio orizzonte di conoscenza ed anche un oggettivo empirico nel modo di esistere, ma anche in questi contesti in una sorta di controllo della dimostrabilità; di fatto ad una constatazione di verità, o di analisi del fatto, evidente nella dimostrabilità, ed anche se possibile in un “ampio logico”, in rapporto dialettico, si sviluppava in “rapporto, per mezzo delle associazioni verbali, e si determinava nelle azioni, nei movimenti e negli stati d’animo. E ciò che era evidente era che per mezzo di questo si volesse determinare un controllo sul fare, e di conseguenza pensare, quando interpretare, il senso del dire, tanto il meccanismo era corroborato che in una sorta di rimbalzo associativo, gli argomenti finivano per ridursi, sul guardare e muoversi in riferimento alla associazione verbale, che si associava all’ambiente circostante e agli oggetti o realtà fisiche che conteneva, e si verificava una situazione così spinta, in tale intento di domini dell’argomento per tale mezzo, che il processo astratto della rappresentatività perdeva non solo la sua percezione inconscia, ma si sostituiva al significato per l’effetto che tale spinta associativa andava ad istituire sulle percezioni, emotive quanto, quando da queste di pensiero in riferimento, al senso di quello che si voleva dire e dimostrare, sia empaticamente, che di contenuto del dire, in riferimento all’argomento, e al valore del principio che lo aveva instaurato, all’interno delle soggettività che comunicavano. In conseguenza non solo si finiva in un motto di spirito associativo, ma il perdurare di un costrutto così autoformante, inscenava una conflittualità che per associazioni finiva sulla persona che non solo ancora percepiva la situazione globale della situazione, ma aperti i processi di relazione e di reciprocità, all’interno di una rappresentatività facente come riferimento, la condizione globale delle prospettive dell’individuo nei suoi rapporti di reciprocità, condivisione, spiegazione, e senso interiore quanto astratto e spirituale. Una contrapposizione sistemica tra l’essere, e l’avere in conseguenza del non essere, ma solo rappresentare, in conseguenza di ciò.

E allora in quel tempo gli episodi erano per lo più improntati alla verifica della coscienza che si collettivizzava, e i sistemi empirici, allo stabilire il pensiero appagante con cui determinare un comportamento di relazione, tra la risposta all’effetto e la sensazione psicoemotiva provata, e in base a questo si valutavano le intenzioni.

Ora non so che cosa dissi, tanto da rendere così male interpretabile il senso astratto come di reciprocità, di me come individuo in proposito alla possibilità, che in un caso specifico, “mi rammaricarsi nel vedere la fede al dito di una donna. Sta di fatto che la fede proprio come oggetto, è una rappresentazione non solo di una condizione sociale, ma per lo più dovrebbe essere un oggetto della proprio condizione spirituale, ma in quanto tale espressione poco rilevante in quanto singolo oggetto di metallo. Quindi molto probabilmente fu proprio il contesto generale più che quel che eventualmente dissi. Comunque soventemente mi capitavano donne che ostentavano tale oggetto in una reciprocità aleatoria nei miei confronti, e la spiegazione lascio sinceramente ad un sano processo astratto del “lettore”. Capire., perché ciò che si mostra si condivide, e chi ostenta un oggetto, che cerca, in colui che viene ostentato”. E allora in questo modo di rappresentatività, di verifica, per “demenza associativa” lo stabilire le intenzioni di qualcuno, era soggiogato nel modo, che se ti do fastidio, e tu ti arrabbi vuol dire che ce l’hai con me, insomma una sorta di sensazione di potere sullo stato d’animo dell’altro, o percezione culturale, un modo come un altro per giustificare la molestia in funzione sociale, con i modi i gesti e gli oggetti più legittimi, che dice quale sia il livello su cui adeguare la libertà.

In funzioni di questi movimenti d’immagini, e d’immaginario, dove l’oggetto cambia le percezioni e dove Duchamp in proposito, ha mostrato quello che l’oggetto non può essere, in rapporto all’arte e alla spiritualità in essa. Il sistema dell’arte ha fatto dell’ostentazione, quale non valore, ma solo rappresentazione del non valore la ricerca della superiorità e competizione tra gli oggetti e gli artisti, e per valutazione di questo tra gli artisti e gli artisti, e tra l’arte e la spiritualità, e tra l’arte e la libertà, così funzionalmente omologata, che l’individuo in quanto espressione di valori universali, in quanto anche singolo artista esprime, in tale sistema sta al gioco delle parti in una scena senza scena, né attori, se è parte insita di tale rappresentazione.

E allora in uno dei suoi luoghi deputati, per arte siffatta o non per arte, la dimostrazione di quel che si dice, e afferma nella responsabilità, instaurava un gioco competitivo tutto sul controllo associativo, e sull’alterazione dello stato percettivo. Dove in definitiva si faceva dire per dire dir far fare, e in sostanza, magari mentre si parlava si gesticolava in modo spinto gli arti alle spalle, in un’ipotesi che la tua percezione inconscia finisse per alterare il tuo stato della parola ed emotivo, stimolando un’ipotesi di pensiero o di conflittualità, o alterare la tua “attenzione espressiva” con dei gesti, laterali, o più gesti coordinati, o che finivano per stimolarti un interrogativo, o un bisogno di attivare un processo verbale, e o inibire tale processo. Sta in fondo che in questo non senso, la semplice non risposta rimbalza su chi genera l’atto coattivo perché si determina un non appagamento che per mezzo dello stimolo che si voleva generare, non si è ricevuto, o la semplice predisposizione a dare più forza ai contenuti reali, produce un effetto che spinge l’autoconflittualità, autogeneratasi, e va sempre a finire che il capro espiatorio è il buon senso e la lealtà della espressività, che se anche per conservazione può mediare a ciò non può adeguarcisi. Previo il decadimento stesso della realtà in tutta la sua espressione globale, di ognuno.

E in questo modo dove la molteplicità degli artisti non sanno che istinto rappresentano, comunicando un senso che spesso li identifica con l’oggetto artistico, con cui stabiliscono uno strano rapporto, in quanto oggetto di se stessi, non si sa in quanto corpo, pensiero, comunicazione, e senso, ebbi un episodio in cui nell’allestimento di una mostra in una galleria, l’artista nel tanto agitata e un po’ euforizzata, mentre si accingeva a predisporre un suo oggetto artistico, ch’è in forma di un processo di trasformazione ed espressività di un evento biologico della natura vegetale, attira la mia attenzione tirandosi su i pantaloni e lasciandomi chiaramente intravedere la forma del suo sesso che non posso non guardare, anche con sguardo naturale e attento, e poi con un gesto mi indica la sua opera, con un piccolo suono di approvazione, perché avessi capito. Che cosa volesse dire con quel desiderio di comunicare in quel modo, tra l’arte e la sua storia personale, o la sua rappresentazione intima, con quel modo che nel caos dell’arte poteva andarsi a coniugarsi con il significato del termina performers, anche se alquanto specificata su di me.…!?

 

Il mondo delle immagini credo che oramai invadesse, la percezione e l’immaginario globale, e non so per quale termine associativo, “semiologico”, in uno di questi strani giochi sistemici che si determinavano, non c’erano che “allusioni” con il mondo americano, e mentre gemelle, ragazze donne anziane, bambine che insieme alzavano il braccio, nella mattinata, il pomeriggio sentii in televisione che due aeroplani erano finiti dentro dei grattaceli di New York, prima uno, poi l’altro, e prima uno e poi l’altro i grattacieli crollarono in terra. Era proprio una strana esperienza per un marziano.

 

 

 

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