Introduzione

In un mondo dove il culto dell’immagine pretende tutto, il manifestarsi delle tecniche umane, prende il sopravvento sul senso e il buon senso – e il competere per il competere, diventa e determina i comportamenti e l’espressioni umane, nel controllo idolatra, delle sue rappresentazioni. Una psicologizzazione della volontà di potenza, priva di soluzione come della verità della spiegazione. Una causa effetto determinata dal potere e dalle azioni degli esseri umani. Senza verità e senza parola rappresentabile. Si compete per competere e il caos, finanche nella sua teoria scientifica è espressione incommensurabile delle espressioni della comunicazione come “deficienza” della verità che si uniforma alla sola prevaricazione, come infinità possibilità dell’interpretazione della supremazia e del potere del “fare della tecnica umana” dell’immagine.

Finanche ad assorbire “simbolicamente” lo stesso titolo di questo libro.

Nell’insieme sintattico, (evoluto sperimentalmente) alcuni passaggio del libro, creano, o possono, creare, un asincrono tra il respiro e il pensiero del lettore, e in ciò un Suo tempo riflessivo.

(È un libro impegnativo) Un’opera immaginaria.

 

Patrizio Marozzi - (romanzo senza titolo) pag. 49

 

Che strada è piena di merda, cazzo non c’è proprio posto per i piedi. Questi cazzo di cani perché non lì fanno cagare da qualche altra parte!? E che cazzo dici che dopo sanno dove passerai tu, e poi guarda bene non è merda di cane, antropocentrico, egocentrico rompi coglione. Che vuoi dire che è merda umana!? E già non vedi che pezzi di merda. E che cazzo adesso cagano dove gli pare, ma è una strada piena di merda, in alcuni punti ce ne sono diverse una sulle altre. È il territorio ognuno cerca di cagare in eterno sulla sua merda e se ci trova un'altra merda perde la purezza della razza e per vendicarsi comincia a cagare ovunque, vorrebbe che tutto il mondo fosse pieno della sua merda. La merda sporca di merda non si sa a chi cazzo appartenga. E che cazzo ma è un’ostentazione, un esibizionismo, un sentimentalismo di pura immagine. Cazzo e chi cazzo sono quelli che continuano a passare in auto e a suonare il clacson, che li conosci. E che cazzo ne so chi sono suoneranno a qualche finestra o a qualche lampadina accesa che si vede dalla finestra quando si alza la serrandina, la persiana, tapparella, come cazzo la chiamate, sono le immagini che parlano, le manifestazioni della nuova comunicazione orale di massa, oramai solo gli animali hanno mantenuto delle immagini sensoriali, che gli danno ancora una percezione di bene e male, per quanto anch’essi incomincino a confondersi. E cazzo ma questi suonano ma non s’affaccia mai nessuno, e che significa se s’affacciano o non s’affacciano è una cosa come un’altra, questi continueranno a passare e suonare il clacson perché sia se si alza la tapparella, o si accende la luce della lampadina, o si affaccia qualcuno, per loro è un segno un’immagine di risposta e allora pensano se ho avuto una risposta se ripasso e risuono il clacson faccio rifare la stessa risposta, è come un riflesso condizionato, abbassano la levetta per avere un appagamento e una volta avuto l’appagamento continuano per dominarlo e certe volte quando vedono che si accende la luce per le scale del palazzo si fermano e cagano in modo di farlo prima di chi scende e sta per uscire dal palazzo, poi ripassano a guardare se qualcuno a cagato sopra la loro merda. E la cosa sia che sia avvenuta o no ricomincia sempre da capo per la competizione di chi caga prima di chi accende la luce prima di chi la guarda per primo, e di chi suona il clacson prima o dopo. Oramai in questa strada si parla per queste immagini, e per mezzo delle parole che i sentimenti suscitano associandosi a queste immagini. Guarda quello che cazzo fa? Chi dici? Quello che è finito in terra sulla merda, scivolando sulla merda. Pianta il cellulare e lo lascia acceso con il monitor che trasmette delle immagini pubblicitarie o televisive. E perché? è un modo che si sono inventati per difendere la loro immagine quando cadono nella merda scivolando sulla merda, una specie, una moda si pianta il video cellulare nella merda più vicina e lo si lascia lì andandosene con la merda addosso, poi ogni tanto i riciclatori d’immagini segnalano i cellulari che hanno bisogno della ricarica.

Ma chi cazzo sono questi due? E tu chi cazzo sei che cazzo vuoi, pezza di stronza puttana bagascia minorenne ritardata che rompi i coglioni ti appaghi e ti soddisfi in frullati merda sessuale e stimolante per la sua diarrea ch’è meno puttana di te, e tu minorenne in generale pezzo di imbecille ritardato figlio di cagate di traverso chi cazzo sei che cazzo rappresenti insieme a quei mentecatti delle classi e categoria sociali al giovanilismo idiota e alla maturità delinquente della classe dominante, e tu classista di ogni età e categoria di quale pezzo di merda di buco di culo della terra fai parte per dire chi cazzo sono questi due, leccaculo servo bastardo di merda sporca di merda, razzista ritardato, che se Cristo è morto non è certo morto ignorante, brutto figlio di merda di tutte le famiglie, e pezzo di coglione che pensi che per il fatto che fosse come te avesse un quoziente d’intelligenza quanto il tuo, o misurabile e inquadrabile nella tua merda mondiale planetaria e sociale antropocentrica e egocentrica, che stai lì a cagare sulla tua merda o sulla merda di un altro. Sbattiti il cellulare e le tue immagini la tua prevaricante quanto ignorante comunicazione d’immagini e suoni o gesti in qualche cagata e stai ad attendere la ricarica per sentirti partecipe.

E tu chi sei? E che cazzo ve ne frega anche a voi che guardate l’associazioni della merda e non sapete parlare che di merda, neanche quando cagate. Il potere.

 

Quanto tempo è ch’è chiuso questo posto? C’è un dito di povere ovunque. Junger non so si viene ma non incominciate a rompere con il fatto che la spiegazione è la rappresentazione stessa dell’alter ego di chi scrive al di là del suo impegno e di ciò ch’è vero e ciò ch’è falso nella rappresentazione per dare all’immagine l’evidenza della realtà di quel che vede e quel che mostra. C’è poco da stare a discutere la rappresentazione sta nel confronto tra l’esistenza dell’autore e le sua capacità di vedere la realtà per mezzo della sua capacità di confronto con la verità. E la sua capacità di distinguere la verità dal falso, mostrando anche la falsità, magari nella rappresentazione del suo io facendo finta di non sapere per dire quel che sa, secondo il grado e livello della narrazione, ma questo non c’entra né con il pensiero debole né con il fatto di non dire chiaramente che il suscitare un pensiero (non) debba per forza soggiacere ad un’emozione, per sperare che per mezzo di questa emozione il cosiddetto lettore pervenga ad un grado di consapevolezza. In realtà se il cosiddetto lettore è un’imbecille deve sentirsi un’imbecille, che poi sia della sua responsabilità falsificare se stesso e ciò che legge, e certe volte il cosiddetto lettore non si rende conto neanche di farlo. Insomma togliamoci dalle palle il cosiddetto e si pensi all’essere e si parli in questa forma. Pessoa Musil Kafka, incominciamo a togliere i teli dai mobili e facciamo un mucchio di polvere in quell’angolo, credo che forse verrà anche Dostoeveskij. Joyce vedi se ti riesce ti togliere qualche telo dai quadri, anche se tra la polvere diamo un po’ di ambiente, attenzione alla polvere ch’è sopra che appena tocchi il telo viene già tutta insieme.

 

Che cazzo vuoi brutto pezzo di merda, vaffanculo chiunque tu sia. Cagate al muro la grande evoluzione umana non è tanto quella di vedere nel più potente di ogni nazione l’evoluzione della specie in una sorta di dimostrazione pratica dell’uso che fa di un cellulare una scimmia e quella che ne fa un cosiddetto essere umano. La pubblicità ha di fatto superato tale concetto, giacché non vi è differenza dall’immagine che si vede e quella di se stessi, il fatto stesso che una scimmia possa non essere interessata all’uso di un cellulare passa in secondo ordine di grado di valutazione, se l’interesse della scimmia sia verso l’immagine che viene trasmessa sul cellulare o i suoni che da esso percepisce, di fatti i tempi apparenti di comprensione attraverso i test psicologici o sondaggi di opinione stabiliscono chiaramente che l’individuo umano pur in assenza di conoscenza o di un perché quant’altro del perché, si predispone meglio in funzione di un oggetto, per un’innata curiosità nell’essere come razza quella che può avere il controllo sul potere in genere e le sue possibilità, su questa scala di valore in effetti una scimmia soccombe al perché dell’immagine per mezzo della funzione dell’oggetto come spiegazione del movimento che controlla il potere come esempio di esistenza. Si direbbe per effetto della scienza psicologica che la cognizione di coscienza ha come reazione una spiegazione ritardata sul funzionamento “corretto” dell’oggetto come possibilità di controllo dell’immaginazione e possibilità di comunicazione dentro i codici specifici dell’appagamento come conseguenza dimostrativa del sapere che interagisce con la realtà nelle possibilità del soggetto che investe l’oggetto, delle sue proiezioni e predisposizioni. Non si capisce allora perché non siano ugualmente tenute nella stessa considerazione le valutazione della scimmia sull’uso del cellulare, se non per il fatto che chiunque può usare un cellulare, ma il maggior uso che ne fa l’individuo umano rispetto alla scimmia, lo pone per questo ad un gradino più alto biologicamente rispetto a quello della scimmia. In definitiva psicologicamente la quantità è superiore ad un'altra quantità in quanto uniformata al significato dell’oggetto indipendentemente dal suo uso, in quanto ciò pone l’usante sullo stesso piano dell’usato, per stabilire la quantità della superiore stabilità di usura dell’usante come dell’usato, che su questo motiva la risposta e il motivo dell’usare in funzione del quanto si usura quando, ponendo termine alla compulsione e al controllo del potere che stabilisce chi sia superiore a chi e perché. mi si obbietterà in effetti una scimmia se sente al cellulare una suono incomincerà a comunicare per mezzo dei suoi suoni e finirà per usare anche il movimento del corpo come funzione di un’immagine da trasmettere semioticamente, che fa dell’immagine del segno il significante su cui stabilire il significato delle intenzioni della comunicazione. Certo detta in questo modo il concetto di riflesso condizionato che non sa bene cosa comunicare della scimmia che per tale ragione d’incoscienza è inferiore all’individuo umano, pone il termine di controllo psicologico come possibilità evolutiva e pertanto di spiegazione e comunicazione tra le razze in ragione di un riflesso che ne spiega un altro, come determinazione stessa del linguaggio in funzione di una risposta che riflette il linguaggio sul significato del riflesso che agisce in funzione della spiegazione dell’oggetto come spiegazione del riflesso del movimento. Ma se nel riflesso condizionato per definizione psicologica della scimmia c’è un intenzione perché nell’individuo questa intenzione della scimmia non può essere un suo volere, basta stabilire un’etica che dia al volere il significante di potere e che stabilisca il significato del potere in ragione del maggior volere sull’intenzioni del minor volere, così psicologicamente si stabilisce la superiorità di una razza rispetto ad un’altra, come tempo che stabilisce per l’usante la superiorità dell’uso del significato che cambia in funzione del cambiare dell’oggetto e della capacità di adattarsi all’uso modificante dell’oggetto, questa maggiore capacità di adattabilità pone il possesso di ciò che modifica il modificante al di là delle eventuali intenzioni possibilità di quel che si vuole comunicare, ma dà alla possibilità di non fare uso della coscienza in funzione di una spiegazione che dà al gesto e all’immagine, infinite possibilità di controllo sul possesso delle possibilità per mezzo del controllo dell’uso. Ora mentre passeggiavo su questa strada la questione mi si poneva in termini quanto mai evidenti sul fatto delle differenti possibilità di controllo, il concetto di fondo era se per mezzo del possesso l’evidente dimostrazione stabiliva la qualità delle feci, della merda in ragione del fatto se nel cagarle cedeste rimanessero attaccate o no al muro, e la difficoltà che aveva risolto l’immagine la comunicazione per mezzo del fatto che se in ragione di una persona intelligente, si aprivano infinite possibilità di potere e di controllo in funzione di potere essere e fare le cose più stupide, per il controllo stesso dell’intelligenza che si psicologizzava, l’immaginario stesso del controllo per la libertà assoluta del controllo senza controllo per potere aveva bisogno di un riferimento meritocratico per stabilire la superiorità della razza sulle intenzioni e l’eventuale coerenza ad esse qualora tali intenzioni non dessero adito al potere. Ora se per molte vie si era posta la questione di evitare ciò, con il semplice fatto che il controllo stabilisse psicologicamente naturalmente chi non dovesse più cagare perché non si era evoluto come razza senza capire l’uso, l’usato come se stesso, rimanevano una serie di possibilità di controllo per poter continuare a cagare ed una di queste era di fatto la questione che nel cagare contro il muro lo spruzzo di merda avesse la forza e la volontà propria di andare verso il muro e rimanerci attaccato. Ora per tale pratica si era stabilità socialmente una regola emulativa che stabiliva che la cagata doveva essere fatta con il culo verso il muro, ma sollevati dal suolo. E in sostanza il potere stesso aveva stabilito questa nuova forma di naturalità, che dava a chi aveva più potere la possibilità di farsi sollevare più in alto per potere cagare più in alto nel muro, e via via in queste nuove determinazione meritocratiche fino a chi non poteva proprio cagare perché non riusciva ad alzare i tacchi da terra, seminando cagate in terra. Ora mentre passeggiavo in questa strada e osservavo le varie cagate sul muro, una tizia stava imprecando verso chi poteva farsi sollevare per cagare. Pezzi di stronzi bastardi figli di puttana bastardi, pervertiti. E mentre sta sbraitando contro il mondo appeso a quel muro una telecamera che sta sul muro la riprende e ne diffonde l’immagine su dei mega video schermi, che la mostrano senza audio mentre gesticola come una scimmia, che non dovrebbe avere intenzioni, e poi la telecamera si muove e mostra i caganti appesi e compare una scritta sull’immagine in forma sms, con il numero dei votanti, che “dice”: cacoi i gesti di chi è in alto, ma cacoi è per tutti.

 

Se si attende una voce da qual luogo essa sta. Sotto questo telo ho trovato una bottiglia di porto, è ancora sul tavolo quasi piena. Chi?!

 

Di giorno certe volte è impossibile andare per questa strada, ed ora mi conviene sedermi. Scelgo quel tavoli lì. Buongiorno bella giornata sembra essere giunta l’estate.? Uhh! UhU! Gentile scimmia la vedo un po’ perplessa. Scommetto che le hanno rubato la banana! EHHI EI! EIHI! Che vuole è un mondo senza rispetto ne sostanza, un mondo di ladri e di persone squallide. Con quei gesti mi dice ch’è stata negli Stati Uniti e ch’è qui da poco, è rimasta sorpresa di vedere quel che ha visto. È un po’ quello che sta accadendo dentro la maggior parte dei cervelli umani, credo che si sarà accorta del fatto che quella stupida cosa di dare a cesare quel ch’è di cesare a dio quel ch’è di dio, che già la dice lunga su quel che sia in sé la logica materiale di un regime economico, che in fondo non è altro che un potere della materia che sta dove sta e non potrà mai essere in nessun altro posto, insomma quasi a dire che la spiegazione non potrà ma giustificare la sua esistenza, lei in fondo sa che la qualità della vita non può essere un derivato di qualcosa che non riesce a muoversi al di là dell’incoscienza. E che vuole lo sa perché le hanno rubato la banana per una sorta di immobilità della coscienza e dell’intelligenza che ha fatto come non mai si potrebbe dire da supporto ad una condizione di cose che hanno tolto la mediocre materialità dell’economia, il potere più becero per intenderci con qualcosa che ha dato una spiritualità alla materia una sorta d’infinità economia basata sull’immaterialità del denaro come del fare stesso dell’uomo, dove tutto è possibile in base all’evidente dimostrazione ch’è possibile in quanto c’è un modo per farlo, indipendente dal suo valore e dalle conseguenze. Se tutta l’economia diventa un’illusione del fare umano, diventano così illimitate le possibilità dell’uomo sulla realtà per mezzo del potere economico. S’immagini un’identità globale al di sopra di tutto e in tutto che trasmigra senza emigrare mai, che dà alla coscienza lo stato dell’ubiquità al di là dei limiti della coscienza in una sorta di spiritualità dove l’illusione del sapere è già l’esistenza che afferma la spiritualità alla materia come possibilità che può determinare il volere e la consapevolezza di cosa sia l’affermazione dell’ignoranza, come realtà che modifica la realtà in funzione della spiritualità che fluttua in una megalite di variazioni di borsa dove l’illecito perde il connotato di controllo ma si apre ad infinte possibilità per una nuova materia e una nuova realtà della forza, immaginino cosa immaginiamo nel sentirsi in questa immensa costruzione di marketing che toglie all’uomo i limiti di una identità che fa della materia l’artefice stesso della sua immaterialità. È per questo che le hanno tolto la banana, perché la questione che essi si pongono senza neanche sapere di porsela, in una sorta di reattività inconscia, che era già disastrosa, e mi scusi, ma l’avrà gia notato dal fatto che volevano farle credere con ogni mezzo che la qualità delle banane non era peggiorata. Be’ ora questa reattività inconscia si è così deteriorata che sommandosi al sub cosciente pubblicitario del tempo presente, con gli incubi e sogni più profondi che l’individuo si porta dentro, quasi in una soluzione di tutti i problemi finisce inevitabilmente per riconoscere la verità del tutto inconsciamente al di là della consapevolezza attuando tutto un sistema di difese della coscienza per sorreggere in ogni modo l’immaterialità dell’illusione spirituale del potere dell’economia spiritualizzata, fino a negare non solo l’evidenza, la realtà o la verità, ma a non volere vedere neanche le soluzioni, che sono avverse, per la loro coscienza, quanto la percezione della verità che proviene dal loro inconscio. La qual cosa sembra un po’ psicanalitica mi dirà lei. Uhu! EIHI! Ma di fatto la qual cosa è di gran lunga più complicata giacché tale situazione è ormai evidente nella maniera più complicata possibile. se mi permette l’esempio, se una volta io avrei potuto dirle per sommi capi le cose di cui sono a conoscenza, le molte cose che ho studiato, e la gran parte della capacità della mia esperienza magari ipotizzando una sua comprensione, la qual cosa poteva rimanere nell’ambito delle sua capacità d’individuo. Ora le dico subito che non avrei sicuramente avuto da lei quell’atteggiamento di nulla facenti che usano la coscienza e la consapevolezza come una zerbino inutile, e stanno a sostenere solo una posizione di vuoto accademismo o di associazioni di convenienza quanto un consenso basato sul non sapere reciproco per affermare tale non sapere. Ma tornando alla spiegazione in questione voglio dirle, che adesso c’è un delirio di spiritualità che dà una sorta di potere superiore ad ognuno di costoro, e non è più necessario espletare le cose nel senso più reale, ma basta esprimersi o affermare qualcosa di vero e nel modo più vero e coerente con la propria persona e con l’esperienza della realtà e la propria coscienza e spiritualità, che in una sorta di iper potere il loro inconscio gestisce la loro coscienza con tutti i possibili inganni e difese, e spiritualità dell’immaterialità della materia, con il potere dell’ignoranza per inibire in tutto il loro possibile la condizione di coscienza ed esperienza ed esperire della verità. EIHI! EIHI! UhU! È già è un bel inganno e guardi che la sua banana a quel punto è difficile anche dimostrare che sia mai esistita. E il motivo che io credo, per l’accadere di ciò, è che nei pensieri più profondi di costoro si sta facendo strada il convincimento che Gesù Cristo fosse stupido, ma dico proprio uno senza cervello che non avesse grandi capacità intellettuali, e che di fatto la similarità con dio è di gran lunga superiore in un cretino qualsiasi che ha il potere di fare quello che fa, perché quello che fa è il potere di fare quello che vuole in base a quello che può. Di conseguenza è più simile a dio lui che Gesù Cristo, perché Cristo ha scelto di fare quello che voleva non sapendo se ne sarebbe stato all’altezza, anche se ne conosceva il perché. difatti con la dimostrazione inconscia della stupidità ultima di dio, la consolazione del fatto che Gesù fosse una persona umile e per questo per associazione logica il più cretino dei cretini, e quindi qualsiasi cretino che si ritiene umile può ambire ad essere più intelligente di Gesù, e per mezzo della sua interpretazione della colpa stabilire la condanna al di là del perdono ch’è di dio, che così come si dimostra è alquanto cretino in materia comparativa, e l’esperienza di un cretino per quanto singolare, deve essere soggetta al giudizio di chi si ritiene più simile a dio, indipendentemente da chi espleta l’esperienza come espiazione ed espiatorio dell’io comparativo come sapere di dio. Mia cara amica, mi permetta di esprimere questa espressione di affettività, in maggior ragione del fatto che era da moltissimo tempo che non trovavo qualcuno così sensato nelle risposte, e che si muovesse in modo così spontaneo e appropriato con il proprio dire. Sa bene che oramai dovunque c’è gente che fa gesti per disturbare la comunicazione, per far pensare quello che vuole che si pensi, che dice cose per avere risposte che non c’entrano niente, che associa i gesti a degli oggetti, e i significati all’associazione che avviene mentre si muovono gli oggetti in direzione della spiritualità economica. È una continua mostra di fare per far fare, dire per far dire, senza che sappiano né quello che fanno, né perché lo dicono. Lo vogliono e basta, e devono credere di sentire qualcosa e tanto basta. Ci sono posti come l’Italia ad esempio, dove può incontrare l’arte ad ogni passo, e infinite bellezze naturali, ma non si stupirà affatto di questi tempi nel vedere quanto sia alto il livello d’ignoranza e di associazione per il controllo di tale ignoranza, in una vanagloria del cretino più cretino, del cretino sul cretino. Mi dirà che sono prevenuto perché forse sono italiano, intanto magari esserlo, in fondo è sempre stata la terra dei pochi, e dell’inventiva di molti, era. Ma guardi che anche lasciando l’Italia le basta andare in un supermercato, accendere la tv, entrare in un seggio elettorale, andare in una luogo sacro, parlare così come viene e vedrà che tra quello che dicono e come si muovono sembra che facciano sempre la stessa cosa per che cosa, in una sorta di rimbambimento dell’esaltazione della sciapezza della comunicazione psicologizzata, come un test reciproco senza fine che serve solo allo scopo di sentire la spiritualità dell’immaterialità economica che tutto può far essere e controllare fin anche l’ignoranza più profonda. Ma lei mi ha capito dico proprio come parlano e come si muovono, nello stesso modo in cui le hanno rubato la banana. Sa bene che deve incominciare a temere, perché quelli come lei sono stati presi come nuovo paradigma, cercheranno in tutti i modi di dimostrare “di essere superiore a lei”, e che lei cerca di imitarli, ma non ce la fa perché i suoi gesti non corrispondono ai tempi del condizionamento, e che il condizionamento è la vera strada per un coscienza superiore per dire che quel che dicono e che fanno è più vero di quello che fa lei.

Be’ ora se permette me ne andrei, dovrei proprio. UHU! UHU! Eih! Grazie è stato un vero piacere anche per me, arrivederci.

 

E allora ha senso dire che è quasi un’apologia, se di fatti oggi come ieri non vi è nessuna opinione e l’atto stesso di interpretare la tua azione non fa che svolgere il compito di chi consenziente non si pone la questione d’interrogarsi, ma l’aleatorietà di esserci, in quanto facente vece o funzione di apparente. Ecco perché dico si può stare ad affermare che l’espressione stessa della comunicazione data è solo inerente a se stessa, come l’imponderabile per il fatto della realtà e che la questione è un’altra, è la libera espressione reale plausibile per il fatto in sé di essere vera, e in quanto vera rappresentativa del significato, come del volere dell’autore al di là di un’ipotesi che dia al significato il termine di apologia, quanto in realtà è il contingente stesso che viene sviscerato come annullamento stesso del contingente, ma tempo reale che non si determina nel contingente che non dà all’apologia la sussistenza di cui ha bisogno la spiegazione di un fatto al di là di tutto il tempo, per un frammento di uno spazio di tempo. E allora l’ineluttabilità della realtà che si rappresenta in ogni tempo, in tutto il tempo, in tutti i contingenti, come nel termine di ognuno di essi, non solo non è una giustificazione, ma neanche un’espressione concreta del perché la spiegazione del contingente non riesce ad andare oltre se stesso” e per ciò ad essere realtà in ogni presente del tempo. Sia tu che io Musil del resto, noi che siamo qui in questo posto, tranne Joyce, che ha in un modo, forse in un certo modo come sul dirsi pubblicato in una logica del contingente - difatti non è la rappresentazione se nello stato che non vi si rappresenta, che un divenire divenuto, al di là del possibile rappresentabile della quantità del contingente. E in effetti la questione principale in noi altri non è stare dove non c’è locazione ma apologia, ma essere dove la coscienza sa di essere in quanto evento al di là dell’incoscienza che afferma i fatti al di là delle possibilità sia della spiegazione in quanto non spiegazione del contingente ma come realtà del cambiamento dei fatti nella realtà della coscienza che sa distinguere ciò che le accade. Se in questo caso il contingente è ineguagliabile da se stesso in quanto i fatti della coscienza non trovano nell’individuo il sapere che dà alla coscienza la capacità di formare la realtà nella realtà stessa della verità della rappresentazione, impedendosi di fatto non solo la soluzione, ma il fare stesso della coscienza che si dice e si parla e che comprende l’ineluttabilità di un contingente senza presente, e la conseguenza della catastrofe; questa vita parallela dell’incoscienza che s’immortala e sta in affermazione della spiegazione di tutto il tempo, pone di fatto la coscienza di chi “scrive” in un senso del contingente che non da adito a nessuna ipotesi, e in quanto ipotesi a nessuna apologia della spiegazione, ma all’atto stesso della realtà che si rappresenta per mezzo della coscienza come espressione dei fatti della realtà al di là del contingente della spiegazione dell’apologia, per l’apologia che contraddice la soluzione per spiegare la contraddittorietà della realtà e affermare così l’impossibilità della realtà come azione del contingente che non sa spiegare se stesso pur rappresentandosi. Questa ottica del consenso della realtà contingentata al punto di modificare per inefficacia della possibilità di modificare, e pertanto che si determina nel cambiare il presente in funzione di uno stato di coscienza che percepisce la volontà di cambiare perché nel contingente scopre la volontà nell’incoscienza di volere essere per sempre, come volontà che si rappresenta. In realtà non è questa visone di realtà contingentata che dà alla verità della rappresentazione la dimostrazione e la rappresentazione della spiegazione, ma l’imperturbabile condizione di essere della coscienza dello scrittore, che si pone la questione di avere per interlocutore la verità al di là dell’apologia contingentata ma nella coscienza della sua espressione umana di umanità. E allora in quel momento che lo scrittore scriva la realtà è imprescindibile dalla verità, e la reale coscienza di ciò è nella rappresentazione di un contingente che per rappresentazione si fa sì arte e in questo contingente, ma in quanto arte espressione al di là del contingente, e in quanto ciò espressione di un sapere che interroga se stesso lasciandosi interrogare dalla verità, che non ha possibilità di rappresentazione. E allora lo sguardo sa di non essere ad un episodio del presente, ma il presente è all’interno di un tempo che non sa tutto di se stesso, ma che sa più di se stesso. Ora in questa dimensione della coscienza dello scrivere, quindi in quanto persona che del pensiero sta alla conseguenza in quanto azione di se stesso non ha l’obbligo di delegare all’analisi dell’apologo il significato della verità e della realtà contingentata per la sua opera pubblicata, ma ha il diritto di scriverla al di là dell’ipotesi dell’apologia del contingente del consenso anche al di là dei limiti della così costituita contraddittorietà del contingente, che sembra esprimere una sorta di dualità che in realtà è figlia di un intellettualismo della coscienza per lo più contingente al consenso omologato quanto qualunquista del perché dell’incoscienza del contingente dell’apologia per il tempo presente. In effetti qui si pongono due questioni, l’una chi in un siffatto realismo si rappresenta in quanto rappresentazione, e mi viene di concordare con Pessoa chi se non l’autore se dell’autore vi è rappresentazione, se non la sua persona, in quanto arte della rappresentazione e stato della coscienza, ma l’altra questione forse è perché nel modo in cui guarda il guardate e da quel punto di vista l’immagine di ciò che ha guardato, come l’imperscrutabile tempo di ciò che si sta guardando, e lo sguardo in sé da quale parte e luogo guarda.? E allora Joyce ha dato un salto oltre il salto in quanto l’immagine è andata dove non c’era, eppure l’immagine si è confrontata con l’inquietudine della coscienza o con il significato stesso della coscienza, sta di fatto che la rappresentazione ha trovato una crisi proprio nel suo tempo. E chi scrive sorge sempre presente. Cos’è la coscienza di chi scrive, o meglio cos’è la coscienza dello scritto, l’evento la persona il luogo – la realtà e la realtà è al di là della sua possibilità e se la coscienza si annulla al di là delle sue possibilità, le possibilità di rappresentazione della coscienza, sempre più reali, al di là delle reali spiegazioni dell’incoscienza, e credo con questo di avere dato adito a Kafka del suo scrivere. Ma tornando a me ora vorrei dire che il senso stesso del potere scrivere al di là dei possibili contingenti non può dar luogo all’ipotesi da me espressa nella guerra parallela, che l’indicibile dell’esperienza trovi un senso nel lato caratteristico del significato del contingente, so che questo può essere il peggior modo di irrealtà nello scrivere, perché il contingente sovrasta l’incoscienza con il peso del volere senza che questo trovi un perché, e allora gli appigli su cui poter far leva alle possibilità della coscienza, così ridotta svolgono una dimensione tra l’esperienza che si vive e il significato per uscire da quella esperienza, e allora lo specchio, non può che essere lo specchio con cui si guarda se stessi, ma attraverso di esso si cerca di guardare tutto quello che accade intorno, e impegnare le proprie energie capacità, affinché l’identità una coscienza al di là dell’annientamento della coscienza, una posizione della speranza, trovi il punto di vista positivo per la verità che dà alla coscienza l’opportunità di comprendere. In fondo in un campo di guerra l’essere e il non essere sono assenti, e la guerra per giustificare ciò è un’altra guerra nella guerra, come nella prima guerra mondiale. E allora il sapere e il capire non può che essere esperito, ma scritto dallo scrittore e come porsi con l’interlocutore che deve sapere quando il contingente non considera l’interlocutore, qui forse c’è il principio stesso tra la possibilità e la negazione non della possibilità, ma del possibile, e allora vi è vi è in questo campo del sapere ciò che si può ridurre ad un dovere, ma il dovere accampa pretese o lascia libera la coscienza di dire la verità in quanto non riduzione della spiegazione per mezzo del contingente, né conseguenza strumentale dell’apologia e possibile falsificazione dell’identità dell’autore. C’è un termine impronunciabile preciso qui che si coniuga con la verità, e che distingue, la tesi perseguibile dalla realtà in perseguibile della verità, sta nell’impossibilità della falsificazione della coscienza per mezzo dell’apologia, che non può che essere inibita dalla coscienza, e che non può stare a mezzo con il contingente in quanto strumento contraddittorio perché non contingentato, ecco che la coscienza torna nell’ambito dello scritto in quanto libero dalla coscienza in quanto espressione artistica della rappresentazione della verità che non dà adito all’apologia di dire quali siano i limiti dell’apologia stessa del contingente. Nell’uomo senza qualità l’ipotesi invereconda che la falsificazione potesse dare adito alla contraddittorietà dell’interpretabile in funzione del sapere dell’apologia del contingente, non solo trova una non spiegazione nella sua non spiegazione, ma altresì determina il fatto che la falsificazione del contenuto e del suo significato non può avvenire in quanto negazione stessa della sua espressione, nel significato trasversale del contenuto al di là di ogni tempo presente. L’ipotesi matematica geometrica aritmetica che cambiando i fattori cambi il senso del significato in rapporto a ciò che sia giusto e ciò che sia sbagliato, non modifica di fatto la realtà in rapporto alla verità della realtà della coscienza come al di là del contingente dell’apologia. Ciò di fatto non può avvenire se non per mezzo della menzogna che frammenta il tempo, inibendo la coscienza. Ma in stato la realtà rimane reale con le possibili conseguenze, al di là del racconto delle conseguenze del contingente per mezzo dell’andare al di là dell’apologia del contingente. Credo che ci sia un modo più profondo nel racconto modale di esprimere il linguaggio artistico, ma il racconto modale è tanto più vero nel suo linguaggio più è vero in rapporto alla realtà della verità e allora finisce per essere sempre, nella sua esperienza che si racconta in sé, come profonda libertà d’espressione della coscienza consapevole di ciò che esprime chi scrive come autore. Comunque voglio concludere questo mio dirvi chiedendo se nell’immagine sul contingente, nella crisi del significato che esprime la contemporaneità l’atto di Dostoevskij, come espressione che si pensa editoriale, e che ha evoluto la condizione di te Pessoa, in un certo qual modo, come dicevo in ragione di una possibilità di diffusione senza precedenti, non si ponga la questione di un dovere di libertà che dia possibilità di dare integrità alla libertà d’espressione attraverso il volere del suo autore di essere referente di se stesso nella comunicazione della sua opera, anche in un ambiente contingente apologico che svolge un controllo sulle possibilità tecno economiche della diffusione per mezzo di terzi e delle correnti regole economiche di cui si fanno “riferimento” come determinazione di un marketing del contingente.!?

 

La strada è invereconda esosa pusillanime, gli urli e i contralti schiamazzi sovrastano, ne invadono lo spazio, sono suoni di applausi e gridi che non esistono che rappresentano i motivi dei sentimenti, inventati senza essere stai creati, strani giochi di realtà con cui stabilire il gusto e la qualità di qualcosa che ha a che fare con ciò ch’è giusto e sbagliato. La giustizia ha le sue regole e il clamore è il suono di fondo che sovrasta le percezioni, che induce i sentimenti che governa i sensi prima del pensiero, e le emozioni prima dei sentimenti. Ad ogni mio passo in questa strada sembra si rinnovi il grido il suono gli applausi, per non si sa bene cosa e per che cosa abbia fatto. Bisogna partecipare, partecipare a tutto questo, bisogna essere sociali e condividere questo suono collettivo, che i significati così prendono corpo, sostanza, e danno soluzione e affermazione. L’uomo domina la coscienza ne abbatte i dubbi: le invereconde parole. Ed a ogni mio passo tutto si moltiplica e giù a raccogliere la merda ch’è in terra e gettarla in alto, per poi ricadere liberamente su ognuno, e via un osanna di applausi, di approvazione e a ridere e gioire. E poi subito un buu! E poi un ooh! E giù prima una forca poi una fucilazione una ghilliottina una sedia, una siringa. Gloria all’evoluzione della specie della coscienza gloria ai ricami della verità con cui stabilire la libertà. Cammino in questa strada in un tempo in cui l’uomo doveva si diceva tra sé, avrebbe avuto le possibilità di essere libero, avrebbe avuto più possibilità di capire e di conoscere, di esprimersi, ma si è dimenticato di dire chi fosse costui, e cosa fare con tutti questi applausi e gridi quando costui avrebbe saputo anche perché. e allora tutti ad applaudire e gridare ancora più forte. Che non si sapesse che non si sentisse, che non si vedesse, bisogna controllare ogni cosa e far applaudire e gridare tutti insieme. Gridando e applaudendo l’emozioni si moltiplicano si sovrastano la coscienza si uniforma. La strada è impazzita, ma che importa noi siamo io noi siamo io, rinnoveremo cambieremo la sconfitta tutti insieme e guai a chi non vorrà partecipare, non sarà della nostra immensa patria, perché dio non può che volere la distruzione del male. Questa ancor nuova religione grida all’uomo la salvezza eterna, l’affrancamento dalla solitudine, chi rinuncia alla coscienza chi al progresso in nome della nazione. Se la libertà ha una scopo è quella di dimostrare la superiorità del bene sul male. Chi è costui che vuole camminare da solo sulla nostra strada, la nazione e la patria sono i valori di ogni singolo uomo, che ama il bene comune e così ci sarà un solo benessere per tutti la vera libertà. La strada è piena di merda, la strada è sovraffollata di potere e di potere al di sopra di ogni terra, ch’è l’unico posto in cui l’essere umano riesce ancora a poggiare i suoi piedi liberamente e pur questo è negato, negato non dalle soluzione, ma dalla coscienza che schiamazza incosciente sulla terra che non fa che indicarsi l’un l’altra, additarsi che condanna per assolversi, che disconosce la realtà come la verità, con un BUU! o con un OOH! “E (è) una risata registrata su cui regolare il senso dei discorsi e della immagine delle persone che ha di fronte”. La strada è impazzita ancora di più e ormai tra il suono dei morti e la gioia della morte non c’è più nessuna differenza, è l’indifferenza che esibisce la sua isteria la sua religione senza dio nel pianto ossessivo di un grido che ride  senza posa e allora leggo senza urlare e dico le cose che sono state dette, ancor prima ma ancor dopo di tutto ciò: “Quando sarà il mio turno di essere steso con la testa fracassata come quest’uomo qui con il ventre aperto come quell’altro là, i miei uomini troveranno il tempo di mettermi in un luogo lontano dal passaggio, al riparo di una siepe o dietro un cumulo di rovine? Quando freddo avrò!” Avrà si sente gridare dalla strada e come per uno strano richiamo della polis giù una fragorosa risata che ha riempito tutto lo spazio in ogni dove, e poi un uha e qualche battito di mani, ed anche qualche fischio. Ero stato interrotto e continuo a dire: “E i soldati marceranno sopra di me e i chiodi dei loro stivali squarceranno il mio viso proprio come un attimo fa io ho squarciato il viso di quel caporale inciampando su di lui nella neve.” E giù la strada un BUU! OOH! Ed è tornata tutta nel suo schiamazzo registrato con la merda che continuava a cadere dal cielo, dopo essere stata sollevata e lanciata. E continuavo a camminare per la strada e giù tutti a gridarsi la cose più squallide sul sesso, nel modo più scurrile possibile e un grido di gioia per l’intimità svelata, e un’associazione con un suono, e un’associazione con l’immagine, e tutti a dirsi quel che sono e che fanno con il sesso, siamo alla velocità della coscienza al grido più profondo della strada, allo sfrecciare dell’emozioni e del significato alla spiegazione psicologizzata dell’intimità, alla soluzione della paura, alla piena responsabilità della propria vita per mezzo della comunicazione di tutta la strada, alla libertà della coscienza, (all’osanna per l’idea della castità), all’impossibilità dell’intimità di dire a se stessa, alzati e cammina, senza i giusti urli di approvazione, assoluta dimenticanza di ogni possibile momento mori del corpo, attraverso un sì perenne al look della coscienza del corpo, per mezzo dell’insulto sessuale, dell’identità che sovrasta tutto. La strada è così impazzita che merda sprizza ovunque, dai culi dalle mani dalla bocca, dal naso e dai sessi. E per chi stanno urlando di gioia per un condannato a morte, e vedo un tizio ch’è vicino a me mentre continuo a camminare sulla strada. Mi fa – fanno sempre certe strane feste per questi morti. Rivolto a lui gli chiedo, lei chi è, com’è che mi rivolge la parola.? Mi risponde sono un condannato a morte sepolto in Sicilia. E gli chiedo ancora perché sta leggendo e cosa?. Sto leggendo questo ultimo brano di un libro italiano: La Paura di De Roberto. Che cosa dice: “Il tremore del soldato crebbe, spaventosamente; le stesse labbra scomparvero dalla faccia cadaverica.

Nel silenzio attonito, più greve, ovattato dai vapori, una voce annunziò:

“L’ispession!… El scior maggior!…”

Afferrato allora il riluttante con le due mani per le spalle, Borga lo scosse forte, e gli gettò in faccia:

“Di’, vōi, come l’è che femm?”.

Improvvisamente gli occhi di Morana lampeggiarono, mentre il corpo si torceva per sottrarsi alla stretta:

“Ecco… così…”.

E prima che nessuno avesse tempo di comprendere che cosa volesse dire, che cosa stesse per fare, corse lungo il fosso, fino al cunicolo, si chinò ad afferrare il moschetto, ne appoggio il ciglio di fuoco il calcio, se ne appunto la bocca sotto il mento, e trasse il colpo che fece schizzare il cervello contro i sacchi del parapetto.”

La strada urla per conto suo, o non per conto suo, non si sa ora cade di tutto dal cielo, non c’è oggetto che non si confonda nella pioggia di merda, e la merda non lascia che essa si esaurisca, anch’essa è diventato un oggetto di eternità, che vuole stare al di là della terra in una nuova coscienza nella velocità stessa della sua immagine prima della sua, “ora”, finalmente solo ipotetica scomparsa.

E in un sol colpo di finto teatro la blasfema folla, iconoclasta per sua stessa immaginazione dell’immaginario e della realtà, pare udire senza udire se stessa e dir al codesto, chi tu sii per nostra sempre incoscienza, che s’appaventa: Io il modo si chiede se ha bisogno di te. (tutta la folla insieme che non han ragion di uno) Non so rispose non più codesto, certo io ho bisogno della verità, non aggiunse ma disse.

 

Se c’è un uomo dove il significato stesso di tutto quel che guarda “è costretto a chiamare”, non di meno ciò che si osserva è proprio l’esatta definizione di quel che la realtà ha del dove la rappresentazione, e di come è quel che si guarda, io Kafka non potrò mai dirmi Kafkiano. Se di Kafka vi è un luogo l’intero sistema dei luoghi si svolge sotto gli occhi dei  modi della realtà, e la realtà è la definizione stessa di quel luogo. L’esatto contrario non è l’esatto contrario, ciò ch’è reale è già in se reale. La trasformazione è il modo stesso della realtà, è il luogo parallelo che non può essere una rappresentazione, ma un fatto dalla sostanza stessa del luogo. I movimenti sempre sono reali, come lo è lo stesso significato, che si rappresenta in quanto visibile dell’immagine del luogo della realtà. Le trasformazioni sono in se ciò che non c’è di trasformabile, l’inevitabile conseguenza del luogo che si sostanzia, e che si svolge per la coscienza dell’immagine. L’accusa è in se il luogo che non ha più rappresentazione, e la vita non può più svolgersi nella rappresentazione dell’immagine. E allora la realtà che mente, demistifica la costrizione della menzogna, come dell’essere costretti alla menzogna, e ciò che si rappresenta è la verità demistificata dalla rappresentazione del modo della rappresentazione, il significato non è il luogo, ma il luogo senza soggetto, e dove il soggetto della persona rappresenta la realtà, attraverso l’irrapresentabilità della verità nel luogo della realtà, in quanto completamente assente del soggetto umano della realtà. Sono io io Kafka, o è Kafkiana la realtà nella metamorfosi al di là di una possibile comunicazione umana, di umanità stessa delle regole “quali umane”, tra la trasformazione e il significato di chi si trasforma per impossibilità stessa delle regole di dove si trova, per il luogo stesso del soggetto che si esprime. È sociale Kafka, o è Kafkiana la socialità, e l’immagine di prende l’aspetto di dove, o di comunica per mezzo di cosa, ed è “ora” non è forse di già qualcosa che sta dove guarda se stesso, che non può stare dove chi non è in grado di guardare. E allora è Kafkiano il modo come si guarda, o è Kafkiano chi guarda, per il fatto stesso che Kafka non guarda più ma dice ciò che vede per mezzo di ciò che guarda dove la realtà si osserva senza rappresentarsi, perché la verità è impossibile da rappresentarsi. E allora è Kafkiano Kafka che inventa la rappresentazione dove la rappresentazione non ha più rappresentazione ma racconta ciò che viene fatto nel luogo della realtà al di là della verità che la realtà mostra senza più vedere “vedersi”. Kafka è Kafka sta, Kafka chi, Kafka cosa.

Scarafaggi erano chiamati quelli delle trincee, quelli che stavano lì per ore ed ore, affossati aspettando se il colpo d’artiglieria pesante li colpisse o no. E i morti venivano disseppelliti e infossati dalle bombe, venivano scavati sulle trincee. Il bombardamento era così continuo che ad un certo punto era come se dormissi, senza riuscire a far dormire il cervello che si riempiva d’immagini, con il corpo che in terra dormiva in un torpore al di là del silenzio, nel rumore che l’ottundeva. La sperimentazione psicologica, ha trovato motivi di studio come dire peculiarissimi, che ora si osservava nell’effetto dell’odio nazionalistico che la propaganda, mai così ben organizzata prima d’allora scientificamente costruita, aveva strutturato il cammino sociale, e la definizione dell’avversario. Ci si massacrava senza senso, tra l’attrito e la posizione che sulla terra si stava, tra la tattica della posizione e la morte in “qual luogo.”

Se io sono Kafka difatti sono anche Kafka. Con la sua coscienza.

 

Il monito

Cammino sulla strada da solo e sulla strada non c’è nessuno, osservo tutto quel che c’è sulla strada, la rappresentazione di io megalomani quanto vacui. Che danno a quel che tengono sulla strada una sorta di guerra che rinnova la coscienza. Non c’è una consapevolezza, la consapevolezza non c’è una persona, un essere il vuoto richiamo a fare, ma un vuoto di richiamo a fare, una pubblicità della pubblicità, una rappresentazione della rappresentazione senza invenzione né fatto, l’incoscienza dell’incoscienza che si adopera per condizionare l’incoscienza: il vuoto richiamo a fare che vuole vincere sul un vuoto richiamo a fare per avere, e essere l’azione che condiziona – Io ti condiziono! Io ti condiziono! Io ti condiziono! Io ti condiziono! – Vi offro questo libro con la virile rassegnazione e la malinconica franchezza che caratterizzano chi ha combattuto nella fanteria per venti mesi […] La guerra ci ha resi, in certo senso, dei medici e, costringendo nella nostra testa giorno dopo giorno gli stessi pensieri, ci ha anche trasformato in psicologi.

Un soldato di Verdun.

Cos’è che manca […] qual è la spiegazione?! Eppure ciò che non sa fa e fa ciò che non sa perché si ripeta ciò che non sa, perché si osservi ciò che non sa, perché, per continuare a fare ciò che non sa. Un termine e un sostantivo, un sostantivo e un aggettivo, un aggettivo e un altro aggettivo, il sostantivo, il termine l’oggetto e il suo derivato, qui, non ora, il soggetto senza soggetto il significato senza perché, per continuare a fare ciò che non sa. [(c’è un’ipotesi per la soluzione?!)] che ipotesi!

Alcuni dei suoi compagni lo riconobbero e dissero il suo nome: “Aspetta guardalo: è tal dei tali”. Non provarono nemmeno a tirarlo fuori perché non avevano gli attrezzi né il tempo per farlo. Non si può fermare la circolazione in un punto dove passano i rifornimenti di cibo e le bombe cadono in continuazione. Così i resti di quel pover’uomo staranno lì finché i piedi dei passanti non li avranno consumati o finché il fango non li avrà ricoperti del tutto.

All’ingresso del mio alloggio la terra è stata tanto triturata e rivoltata che sembra una duna di ruvida sabbia. Al mio arrivo il corpo di un fante con il suo cappotto blu emerge per metà da questa mistura di terra, pietre e frammenti indicibile. Ma poche ore dopo le cose sono cambiate. Se n’è andato lasciando spazio al fante di un reggimento coloniale con la sua divisa kaki. Più e più corpi vanno e vengono in sequenza. La bomba che seppellisce uno fa apparire il successivo. Comunque ci siamo abituati a questa vista; sopportiamo lo sconvolgente puzzo di questo ossario in cui viviamo, ma dopo la guerra la nostra joie de vivre sarà avvelenata per sempre.

Al mio fianco ora c’è un tal dal pelo rosso, che mi pare proprio il fiammingo Van Gogh. E la strada mi appare ancor di più quel che è ma tant’è quel che non è costui, che mi sembra sul punto di sparire e di cambiare per sempre. Mi dice che non c’è niente di diverso son gli stessi di Corot, che gozzovigliano blasfemi senza ritegno né reale sostanza della verità, paiono essere meglio, solo perché sono peggio, tanto peggio da far apparire vera e trasformata anche la menzogna che essi dissero per sempre, ora come allora.

 

C’è un modo per dire soltanto io sono, e qual è il significato tra ciò che sono e mi si rappresenta.? Dinanzi a ciò che sono nelle possibilità di potere essere per guardare. Io sono chi per se stesso si espresse e scrisse come io sono attraverso lo sguardo di chi è, l’osservatore che si guarda attraverso lo sguardo che guarda perché io sono, colui che osserva, mentre osserva chi si osserva chi io sono. Io sono non è mai io non sono perché io sono è l’osservazione stessa nel modo in cui io sono è scritto – Pessoa – io sono altri non è, perché gli altri sono io sono, in quanto io sono osserva se stesso, essendo io sono. Io sono sempre anche quanto io sono, perché tra io sono e io sono, c’è sempre l’analogia con io sono. Io sono identità, io sono rappresentazione io sono l’analogia nella rappresentazione, io sono osservatore che guarda. Io sono, attraverso io sono. L’analogia tra Pessoa e un altro nome che dà all’io sono l’identità delle parole, dà all’identità la verità della rappresentazione in quanto io sono osservato da nomi sconosciuti che si osservano per mezzo di io sono, l’autore Pessoa che tu sei, e che. Io sono e tu non sei, negli altri nomi che io sono e che io sono non è, in quanto L’autore è. Io sono, come. Io sono che si rappresenta ed è io sono – reale – come chi guarda chi, parlando chi io sono, come. Io sono – Pessoa – tu sei […]. Io […] sono, chi!? Perché. [quando]

 

Guazzabuglio la strada ora è un finto guazzabuglio, un caos al di là del caos, non un guazzabuglio: caotico. Io voglio sono essere non sono perciò. Ci sono strane mescolanze avverbi che si associano, che si associano da soli; e poi scompaiono. E rimangono le persone che continuano a muoversi e parlare. Oggi sulla strada stanno come un feudalismo e le persone eseguono ogni cosa che appare loro sensata, in funzione del loro: io voglio sono essere non sono perciò. Il sistema molto semplice con cui si apprende tale stato, è la ripetizione del io perché dico, che diventa io credo, perché faccio io dico. La ripetizione palese e sublimata di guarda – dove – qua, spinge gli individui della strada nella ricerca di cosa, che assume il significato di perché dico e cosa è chi, la funzione collettiva di tale fenomeno spinge gli abitanti della strada, ad ingurgitare sostanze che aumentino la funzione del cagare nel modo più rapido per eseguire “i consigli” di guarda dove qua. Tale sviluppo competitivo ha dato alla strada una condizione suprimazionale che per gradi va alla riduzione di genere gerarchica, di velocità che così si compone. Io oggetto […] [immagine] senza (io) O=infinito l’oggetto l’immagine senza. Sulla strada tra i creatori per la migliore merda possibile, dell’oggetto l’immagine senza, ci sono i divulgatori di perché senza parole, che usano le parole senza perché. la ripetizione dell’O come stato infinito si è già evoluto proprio in questo istante nella sua assenza totale – c’è una sostituzione di perché in perché, dell’immagine infinità senza immagine dell’oggetto senza O. la psicologia del perché io, ha trovato dire sul perché lui, o tu. La profondità di tale stato di feudalismo ha stabilito sulla strada: come già, senza già, ma è, senza quel che è. L’infinito senza O si annulla ed esiste: ecco perché. tra i vari sistemi psicologici in cui gli individui cagano l’un l’altro sulla strada li riassume tutti il più rapido ed efficace di essi a cui tutti per mezzo della loro azione di comportamento concorrono e partecipano chi per mezzo della psicologizzazione, chi per mezzo dell’ignoranza per psicologizzazione, chi per mezzo della psicologizzazione che ha per fine l’ignoranza come affermazione di se stessa, che ignora ogni altro grado del feudalismo, di conoscenza e informazione per pubblicità o pubblicità, “o coercizione della psicologia”, di chi e perché..

E vedo un’ingente fila in attesa davanti a ripetitori mediatici, che stabiliscono quanto mangiare quanto cagare e perché bere quando. La qual cosa consiste nella rimozione immediata e peritura () con una tecnica di semi “ipnosi associativa” in cui l’adepta al massimo del suo fare per mezzo delle domande del demiurgo psicologizzato, a cui si affida avverso e felice, in vece sua e di se stesso; il ricordo che in lui ha destato dei conflitti emotivi, in un “tempo della sua vita”, e rapidamente in questo “piccolo gioco associativo” viene rimosso nell’adepta il ricordo emotivo, quel ricordo emotivo, e tutti gli episodi emotivi successivi legati a quell’episodio, e dopo di ciò il ricordo stesso di quegli episodi. Uno di essi intervistato appena eseguito ciò in vece di se stesso, ha dichiarato sulla strada di essere contento perché la sua produttività aumenterà sicuramente e quindi la sua qualità di vita, ed è ancor più contento per la rapidità “in” cui ha ottenuto ciò. Per questa nuova classe sociale ci sono a decadere tutte nuove classi sociali che nel cambio di significato enfatizzano in vece di se stesse di provare emotività al di là di ogni emotività e prima che il pensiero sia influenzato dall’emotività non controllata, in tal modo si appagano rapidamente non controllando il perché dell’emotività per dire e ripetere io oggetto emotivo. E normale [che?] oggi sulla strada c’è festa perché c’è merda gratis per tutto, oggi hanno iniziato anche a mangiarla, non sanno che la loro merda è priva di sostanze necessarie alla vita. che.

 

Se il mondo oggi avesse un altro giorno, che cosa si direbbe attraverso le cose che si stanno ora dicendo, perché se un’immagine significa qualcosa in funzione di un’altra, come per altra più “ampia ed enigmatica, o spiritualmente rivelatrice” – per ovvia possibilità dell’esperienza il significato di quel che si fa e si dice, acquisterebbe non solo più senso ma anche un’immagine di sé. E allora questo sguardo sul tempo, attraverso il proprio oggi, ché difatti termina con l’avere eluso tale possibilità della coscienza, annullando i tempi, dando alle immagini la sostanza senza le parole, di immagini che si sovrappongono ad altre immagini, e che riducono il loro significato all’associazione meno pensata, che dà alle immagini più profonde dell’uomo il compito che le priva del significato, come della possibile rappresentazione della coscienza, di sovrastare la memoria come spiegazione mai risolta, del ricordo di se stessa, che non ha più memoria di tale ricordo, in quanto non più rivelato nel tempo tutto del presente, come mai stato, come immagini che non si sono mai sapute leggere. E allora il significato ch’è privo dell’immagine ma che non priva dell’immagine dando alle parole la possibilità di ricordarsi, ricordare oggi il significato di quel che si dice, e che si scopre nuovo ma di sempre s’è vero, non per una sovrapposizione d’immagini, tanto meno di rapida associazione, ma che identificano nella spiegazione il divenire che manca affinché ciò che toglie significato alla parola come rappresentazione non tolga l’immagine stessa di quel che avviene, ma che può rappresentarsi per mezzo del dramma, per la soluzione del dramma, come rappresentazione di un dramma sì sempre presente, ma nell’infinito richiamo, che dà al dramma l’immagine della rappresentazione drammatica, in quanto spiegazione, sì dell’insolvibilità della morte, ma l’uscita dal dramma per mezzo del dramma stesso, che sa della propria immagine quel che della propria immagine non sa, dando alla rappresentazione dell’immagine l’oggi, che nella drammaticità di sempre, non subisce l’immagine della morte come affermazione dell’immagine del presente, che finge di rinnovarsi. Gli infiniti significati profondi della drammaticità della vita non terminano in una rapida sovrapposizioni di immagini senza senso, che illudono della mancanza del dramma in quanto insolvibile dell’ultima morte che si vede, come il dramma eterno, a cui far ricorso per il significato dell’immagine di tutto il tempo. Ma la risoluzione da questa immagine della coscienza spiega la possibilità dell’inevitabile dramma come fatto impossibile del presente e di ogni spiegazione della vita, che trasforma la vita per non più trasformarsi: le immagine sono rapide e si associano rapidamente, la memoria langue come il pensiero, che non ha l’immagine della coscienza e della soluzione per vincere nel presente l’eternità del dramma, essere oggi, l’immagine che non si può essere mai stati, potere essere nella rappresentazione come vita, altresì non avere più rappresentazione né immagine ma la morte significato privo di senso, nell’illusione dell’oggi, e nell’ultima immagine della morte, che spegne il significato del dramma. Ciò che appare svanisce, come i sentimenti che nell’immagine dell’oggi, vogliono vincere sul dramma senza che abbia luogo nella coscienza, ma nella profondità più immediata dell’ultima immagine della parola morte. Se io Joyce del linguaggio comune apro le immagini alle spiegazioni, è nel significato della ricerca, della ricerca come possibilità concreta di rappresentare il dramma per mezzo della visione del dramma, che non può trovare soluzione al dramma se non nella coscienza che quel che avviene sta avvenendo oggi per la soluzione di sempre del fatto del dramma. Oggi possibile del significato delle possibili immagine delle parole che cercano per mezzo dell’esperienza la concretezza del dramma e della rappresentazione, l’accostamento” come linguaggio che non sa ma cerca come la coscienza che cerca se stessa, per mezzo delle immagini che va a guardare e con cui osservarsi al di là con l’immagine del dramma, in un rappresentabile del vero rappresentabile, un “oggi significativo” dell’immagine reale del dramma, che dà a chi guarda la possibilità di scoprire, la soluzione al suo dramma, come dramma di umanità di vita, che salva se stessa, per mezzo stesso del dramma. Della vita. [e del possibile silenzio]

 

La drammaticità della strada è ora di un’apparenza che dà all’oltraggio, l’apparire del non apparire dell’oltraggio. La parola che si rappresenta priva di rappresentazione, per una logica dell’oggi, che l’immagine mente a se stessa per mezzo di una parola che mente in quanto dice quel che vede come qual che è, dà alla soluzione di questa strada di quel che vi vedo, la rappresentazione di un presente possibile perché verificante, e per tale non bisognoso di rappresentatività come spiegazione per mezzo del significato di qual si voglia parola. La conseguenza è già presente e non può che essere essa stessa l’immagine della spiegazione come della soluzione in quanto conseguenza che ne procrastina un’altra. L’ineluttabilità di questo simposio è la stessa volontà per la conseguenza che esegue un discorso sull’ultima immagine della morte, come rappresentazione dell’oggi reale e vero. Non vi è bisogno di dramma in quanto il dramma non ha bisogno di nessun’altra parola. Essendo sufficiente l’ultima immagine della morte conseguente, per conseguenza della morte insolvibile. E lo spettacolo della strada è oltremodo significativo di ciò, la merda ha assunto la visione della visibilità e basta dire e fare le cose, in funzione della sua visibilità. Ormai la strada è piena di gente che non fa che prendere la merda in mano e spalmarsela sul viso, in una sorta di conformazione dell’immagine e di chiedere e affermare la risposta senza chiedere, come soluzione per la propria coscienza, ogni tanto qualcuno si esibisce a tal modo che sembra voglia sapere se con la merda spalmata sul viso è più o meno attraente – è un’ossessione essere guardati, in questo modo rappresentare qualcosa che dice agli altri come essere in quel modo diversi con la merda spalmata sul viso – e questa azione è così diffusa che tutti insieme inventano dei test per dare argomento alla merda che li distingue l’uno dalle altre, su cui dicono quello che una vuole o che cosa è una o uno, o gli altrie. Queste immagini che si guardano cercano così di superarsi le una sull’altra, ma per merda tutte quante insieme, un po’ per viltà stabiliscono la loro differenza in base al colore della merda che hanno sul viso, e che sono costretti a massaggiare continuamente, per non perdere la proprio immagine ed apparenza. Ed ogni parola è buona per parlare della merda e della merda altrui, e continuare a massaggiarsi il viso di merda.

 

Possiamo anche sederci, siamo in questo posto all’interno verrebbe quasi da dire, pensare ch’è una speranza, cosa sta accadendo fuori di qui? Anche questa può apparire una domanda, ma sia ben chiaro qualche finestra possiamo anche aprirla. Vedremmo tutti la stessa cosa udremmo le stesse cose… che c’è se del resto sono scritte per che cosa se non per il fatto stesso di quel che si vedeva come ciò che accadeva, già prima che accadesse. E questo non è bastevole per dire e spiegare, perché quel ch’è essenziale nella vita, è già essere presente come rapporto della coscienza con la verità, quel che accadrà non è una conseguenza del presente che già lo rappresenta. Del resto si è liberi di scegliere di capire o non capire. E il fatto che qualcosa non voglia essere ascoltata in questo caso, è essa stessa la rappresentazione, giacché il modo in cui si rappresenta la verità, deve essere già vero, il suo significato, deve spiegar già, il perché non la si ascolta in nessuna espressione reale come fatto stesso della coscienza che si ascolta ch’è presente nella persona, è già in questo il fatto il luogo del perché si finge di ascoltarla anche se non vi è nessuna percezione della coscienza, come della verità, nessuna realtà nell’essere della vita che dà all’illusione la spiegazione della volontà che dice di rappresentare. Del resto oltre ciò c’è il fatto stesso che il modo di mentire sia già di per se la spiegazione, la spiegazione che dà all’illusione la facoltà dell’immagine della verità, in quanto spiegazione di un ineluttabile presente, ch’è spiegabile per mezzo della spiegazione e non necessario di un volere capire o non volere capire, ma bastevole della spiegazione che fa capire la necessità dell’illusione, non nella rappresentazione, ma nella finzione della coscienza. Questa modalità che dà alla spiegazione la possibilità di mentire senza nessun’altra alternativa, soggioga e fagocita, le emozioni e il pensiero per una soluzione bastevole nell’interpretazione del modo di mentire, per stabilire quale sia l’illusione o la menzogna più utile. Difatti questa morte del pensiero, della coscienza, è associata alla morte stessa, e si alimenta di un’immagine che non ha più imagine la figurazione in tal senso oltre a determinare una psicologia del perché che difatti serve a fagocitare l’intelligenza, a favore del sentimento di paura, come dell’illusione, toglie significato al perché della rappresentazione, dando alla coscienza il modo di rappresentarsi per spiegarsi all’interno della spiegazione che determina, il modo che dà alla conseguenza l’effetto della realtà che non ha bisogno della verità al di là del senso della morte dell’immagine che si eternizza, nel presente della spiegazione ch’è modo dell’effetto e non della realtà, che non rappresenta la verità attraverso il modo stesso di essere reale nella rappresentazione del significato, ma mostra i modi dell’illusione come immagini reali, per acquisire la spiegazione attraverso il modo e per il modo dell’immagine reale che si mostra finta ma uguale per la spiegazione dell’uguale finto senza immagine, che spiega il modo in cui ci si mostra nella realtà nella spiegazione del perché la coscienza in quel modo si mostra, in questa sosietà uguale tra il mostrare finto perché è vero, e il mostrare vero perché è finto, in quanto spiegazione del finto perché vero, per il vero ch’è spiegato dal vero perché si mostra vero. Se un’immagine si mostra ma non ha immagine la sosietà è la già; la spiegazione del perché dell’effetto che dà il convincimento della realtà senza che il modo che la mostra debba essere vero, e quindi atto in sé della possibilità di capire e non capire, che non può che essere la rappresentazione o l’espressione della verità ch’è è, già nello svelare l’immagine dalla realtà dà ciò che viene mostrato per reale, come modo che non dà alla coscienza la possibilità di scegliere, ma rende la sosietà, modo non “uguale” che appaga già in sé per il modo di mostrarsi come atto che spiega l’immagine del mostrarsi, come spiegazione non diversa e per questo che spiega la finzione come la non finzione nello stesso modo, in cui si mostra e già in questo determina l’immagine, del modo di mostrarsi come espressione della coscienza che mostra la sua volontà spiegata a priori perché sosia dello stesso modo, e pertanto dello stesso significato mostrato come vero, giacché associato nell’identico mostrarsi come della spiegazione, che in questo modo crea il modo in cui mostrare le immagini a cui dare la spiegazione, che giustificano il modo come significato dell’immagine spiegabile in quanto sosia della riproducibilità del suo mostrarsi, nella spiegazione del significato, senza che si scelga di capirlo o no: l’immagini sia anche quella di un film, così, non ha più immagine.

Noi siamo dentro questo locale e quel che abbiamo scritto nel modo di rappresentare la verità, per quanto nella forma dell’identica scrittura che può essere ripetuta, ciò non di meno questo non rientra nella sosietà nel mostrare dell’illusione che ripete se stessa come realtà senza modo di rappresentazione, pertanto il volere capire o il non volere capire non è eluso e la spiegazione è il motivo stesso, il significato di volere esprimere la verità per mezzo della possibilità di poterla rappresentare e guardala da un punto di vista in cui essa si mostra, mostrasse ancora nell’immagine umana, che supera il suo stesso modo di mostrarsi come termine ultimo del vedere, ciò che si mostra è anche ciò che non si mostra, ciò che si conosce ancor di più della coscienza, sia essa nella rappresentazione umana che nella conoscenza dell’immagine umana dell’umanità, sia delle vere possibilità al di là dell’immagine.   

 

La questione delle forze in campo, del resto questa cosa è la cosa che interessa, il posto, tutto a posto. Questo oggetto che si muove non ha luogo né spazio, non ha coscienza e non c’è psicologo o psicologia che non sia in sé la proiezione costante di ciò. Del resto un consonante senza musica, un’uniformità dell’essere: l’individuo senza individuo, personalità, sessualità, e men che mai sentimento. Pulsioni e atti, appagamenti e stimoli: la questione delle forze in campo. Si toglie possibilità superando l’illusione con un vero e proprio atto di menzogna, di non curanza della coscienza. Difatti le possibilità dell’amore non stanno in altro che in quel che si è e si vede nell’altro, e s’è chiuso in così poco aderisce ancor di più al fatto che lo determinino le aporie che gli si attribuiscono per mezzo delle immagini con le quali lo si vuol vincolare al perché, come nelle possibilità delle parole che lo vincolano, in base a quel che si è e si vede, una regola del vero, più o meno determinante. Se l’amore è ben altro le forze in campo tendono a ridurlo a ciò, controllante e specificante. È indubbio che se c’è una facoltà dell’intelletto, della coscienza, esse non possono eludere l’amore come al di là di tutta la loro dimensione, come ineludibile possibilità di confrontare la realtà con la verità, l’intelligenza con il sapere della coscienza con la capacità di valutare i limiti della conoscenza, e delle possibilità che cercano di eludere la verità di ciò, per mezzo stesso della coscienza che non si guarda. E allora l’intuizione della realtà come della verità, non deduce dai limiti delle forze in campo, ma dalla libertà di vedere la verità. Le forze in campo sono per lo più una menzogna stessa delle aporie dei comportamenti per i significati della coscienza, e si stabiliscono in una spiegazione tra l’appagamento della menzogna, e le conseguenze della verità, non in quanto conoscenza e coscienza, ma in quanto effetto della verità, che persegue l’appagamento per mezzo delle spiegazione della menzogna, dell’effetto che la stabilisce come vera. Questa aporia interminabile dell’immagine del proprio volere della possibilità del proprio volere è una proiezione costante in chi determina l’amore in quel che è e vede, attraverso i comportamenti dell’aporia della sua immagine, che vede come spiegazione dell’immagine della verità. Se in effetti la calunnia può essere la causa stessa della follia di pochi come di moltitudini di genti, essa stessa trova consenso per mezzo dell’efficacia della sua dimostrabilità, incurante di, incuranti oggetto, di sapere dell’esistenza della verità. La calunnia vieppiù soggiace all’ipotesi che da essa si ricava di affermazione e appagamento, come dimostrazione di potere della volontà che così si dimostra verificatrice di stabilire se una cosa è vera o falsa indipendentemente dalla conoscenza della verità, o realtà in essere nella verità, ciò il motivo e l’arbitrio della coscienza che si spiega e si guarda. L’ovvia conseguenza dello stabilire dei ruoli o classi sociali su cui dare credito della conoscenza dell’ipotesi del fatto, stabilisce il grado di calunnia a cui è soggetta la ricerca della sua verificabilità, come in definitiva possibilità di dimostrabilità della sua verificabilità, ma anche affermazione della calunnia in prospettiva dell’appagamento che ne viene dal verificarla, come dimostrazione della propria possibilità di determinazione del significato. E allora le forze in campo si determinano in uno stabilirsi vicendevolmente dove in ragione dell’appagamento e della mancanza di esso, l’immagine stabilitasi va a produrre l’ipotesi a cui è più conveniente aderire come possibilità, di convenienza e appagamento che partecipa all’appagamento e che stimola la partecipazione all’effetto dell’appagamento. In ragione delle possibilità che l’immagine stabilisce per la dimostrazione della partecipazione e determinazione della dimostrazione della convenienza e autorità della partecipazione. E allora le forze in campo entrambe sono impegnate (tutte oggetto tutti) a dimostrare l’esistenza della calunnia in ragione del fatto se la calunnia sia vera o falsa senza conoscere la verità, ma aderendo per appagamento dello stimolo a dover dimostrare l’effetto che stabilisce l’immagine e la necessità di tale immagine per percepire la spiegazione che la calunnia esiste perché, per l’effetto è possibile renderla reale e dimostrabile, e aderire a tale immagine generata dalla calunnia rende appagante la propria immagine di quel che così si è e si vede. La spiegazione dell’amore per determinazione del credere alla calunnia. L’amore si chiude in ciò, e la stessa possibilità di stabilire la realtà delle sue possibilità, nel confronto con la verità, si riduce alla volontà di creare la calunnia per avere l’appagamento delle conseguenze per mezzo dell’effetto. L’immagine non dà alla coscienza o meglio la coscienza non dà più l’immagine della verità come possibilità dell’amore e della conoscenza di amare anche per mezzo della coscienza, per capire la realtà e risolverla nella possibilità dell’amore che conosce e partecipa nelle possibilità della coscienza della persona, che sa andare al di là del proprio amore di quel ch’è e che vede. Ma per mezzo della risposta dell’immagine dell’effetto né verifica non solo l’esistenza, ma anche l’appagamento che per mezzo della verifica ha di dimostrare l’esistenza di esso, allo stesso modo dell’esistenza della calunnia. Ora l’immagine, l’effetto e la persona sono l’immagine lo stimolo la verifica e l’appagamento, quale immagine non vuole essere altrettanto quale oggetto che appaga non vuole essere tale immagine, quale persona non vuole essere questa immagine per ogni altra immagine, quante immagini sono così la stessa immagine, quale coscienza non vuole potere essere l’immagine, che determina il volere della calunnia come quello dell’amore. E allora basta dare un significato ad un segno, riprodurre quel segno, dare un’immagine a quel segno per mezzo del potere, stabilire la calunnia e l’amore, determinare il bene e il male, per mezzo di quel segno, che tutti saranno stimolati e appagati nell’essere l’immagine di quel segno, e in base alla sensazione di potere che per mezzo di quel segno essi avranno sulla loro coscienza saranno per questo portati ad aderire a quest’immagine ad essere questa immagine, a stimolare quel segno, per aderire al significato, alla spiegazione e riprodurre lo stimolo, per mezzo del significato dell’immagine di quel segno, come motivo per la sensazione.

Se si spiega perché la volontà di chi, annulla la conoscenza a favore della volontà, che inibisce la conoscenza in funzione del non sapere la verità, per potere con l’appagamento dell’affermazione di superiorità, aderire a chi mente (alla menzogna) e dà a tale appagamento il significato di verità, come di potere e superiorità. stabilire la sopravvivenza per mezzo di ciò, dà significato e determina l’amore come volere che non ha bisogno di conoscere la spiegazione, e agisce come volontà che stabilisce il volere dell’amore come sinonimo della volontà che si afferma sull’amore della verità per l’aporia della comunicazione della coscienza che con un gesto cerca di creare l’immagine per far tacere l’espressione come la coscienza che cerca la verità, per mezzo della conoscenza dell’amore. L’effetto del potere sull’amore e la verità.

 

Come potremmo chiamare un’ipotesi o la coscienza che rappresenta chi “ancora non c’è”, eppure è già un’immagine divenuta, in quanto avviene ma quant’è che essa sarà al di là della coscienza come conoscenza della coscienza che ancora non c’è. Essere nella coscienza di qualcun altro, nei pensieri di qualcun’altra senza che questi di fatto esistano, eppure sappiamo che esistono, sappiamo anche che potrebbero non esistere proprio perché non sono nella loro coscienza, nel momento stesso in cui dovrebbero esserlo, “proprio quando sono qui”. E allora non vi è un’ipotesi ma la coscienza stessa che guarda attraverso lo sguardo di qualcuno che è, e che potrà non essere più, ma non potrà non essere il non più. E allora la coscienza che si confronta, deve guardare se stessa, deve sapere che è guardata e c’è un fatto d’esperienza nello sguardo che la guarda, con cui il tempo della coscienza deve inevitabilmente sapere che essa può non esistere più, ma in questo tempo del non più la verità di sempre non può essere elusa, e non può neanche essere travisata dall’incoscienza che cerca il volere della coscienza senza la capacità di capire l’esperienza al di là stesso del tempo finito della coscienza di ognuno, come anche della verità nella coscienza di sempre in tutti. Si soltanto solo, si è soltanto soli, siamo soltanto soli. Eppure si può essere altri, come altri che possono essere altri, e noi stessi l’altro, nell’istante stesso in cui siamo, ma non siamo se non nella coscienza che s’interroga, che guarda l’esperienza con la capacità di conoscerne la verità, guardandosi. E allora la rappresentazione stessa di un fatto che sta nelle possibilità di sentire capire è l’esperienza che non può eludere la coscienza e la propria responsabilità nei confronti della rappresentazione che va a capire come fatto dell’esperienza che si confronta con la coscienza, per mezzo della capacità della propria esperienza di avere coscienza di sé, come realtà che si confronta per mezzo della verità, in una capacità d’esperienza che sa i limiti della propria coscienza come delle possibilità con l’altrui confronto dell’esperienza. Difatti la coscienza che sarà, è insita nelle possibilità dell’esperienza di chi scrive ben al di là di chi legge, a cui è dato adito di non appartenere all’altrui esperienza nella rappresentazione in cui la sua capacità d’esperienza non è superata dalla coscienza che non riesce più a guardarsi, in quanto esperienza al di là della coscienza esistente. Questo brevissimo istante in cui, in cui chi scrive sta nei limiti di chi legge, come silenzio di chi legge, ch’è nei limiti di chi scrive pone il tempo della coscienza al di là di tali limiti come evento unico, come ogni istante, che si concretizza nella realtà della coscienza, anche dove essa non vi appare più, dove la rappresentazione è la sola rappresentazione che esprime l’esperienza con cui ogni persona interroga la propria capacità di fare esperienza dell’altro, come se stesso che guarda la propria coscienza. “si è in un altrove ch’è qui”, che chiude questa frase con ora io parlo, dove chi ascolta condivide l’esperienza con l’esperienza dell’altro, senza che la coscienza impossibile neghi la coscienza possibile come finzione della conoscenza, che determina la verità nell’impossibilità di conoscere la verità dell’esperienza determinato la coscienza e le possibilità della sua esistenza, come possibilità che ciò ch’è scritto non sia vero e inesistente senza la coscienza che lo rappresenta, e appaia senza rappresentazione della verità, e soltanto nella voce di chi legge come realtà senza la capacità d’esperienza della coscienza e dei limiti delle sue possibilità.

L’abuso del giudizio, lo sproloquio della conoscenza, la vera capacità del lettore di capire, capirsi, rappresentarsi la capacità dello scrittore. Il talento come rappresentazione di se stesso, e non qualunquistico consenso del significato, pone la verità, come questione primaria della conoscenza al di là delle possibilità dei limiti della percezione del presente, come evento significativo del potere della biologia come presente unico verificarsi della coscienza, solo arbitrio dell’esperienza e della sua interpretabile capacità, a fini propagandistici della verità. La verità ch’è per sempre è sempre in quanto punto d’osservazione che trova il suo significato, nella possibilità che essa esista al di là della coscienza rappresentata biologicamente dai sensi, ma per essi altrimenti l’esperienza ha la possibilità di conoscere l’esperienza come realtà biologica condivisibile, ma non implica conseguentemente che la coscienza sia di per se impegnata consapevole di un esistere ben al di là della biologia, ma altresì non partecipi più al mondo dei sensi, almeno come biologicamente li si percepisce. L’immancabile fine di scrivere, o di leggere non è di per sé. E allora l’illusione del presente è tutto nel controllo dell’esperienza biologica determinandone la comunicazione come evento della realtà che spiega la coscienza come esperienza verificabile per mezzo stesso della spiegazione verificabile dalla biologia del presente, come soluzione della verità percepita dai sensi, che si guardano controllando il significato dell’esperienza, per mezzo della realtà visibile, della coscienza biologica, che domina il suo non esistere della coscienza. Nel modo più visibile possibile, la negazione stessa delle possibilità della coscienza come esperienza che supera il suo significato attraverso la verità della sua rappresentazione. Come delle possibilità al di là della coscienza, che in certo qual modo stabiliscono la fine tra le possibilità dell’io della coscienza, e l’apparire dell’io collettivo della scienza. Le possibilità dell’amore.

E allora se la chiamiamo Molly – l’episodio che in un certo qual modo mi è accaduto “qualche giorno fa” – guardando il mondo, le persone con le loro esperienze di controllo sulla condivisione dell’esperienza, sulle possibilità di conoscenza, della comunicazione, della verità, in tutti i gesti del vivere che oramai sono tra i più faziosi che possono immaginare, per auto determinarsi come presente della coscienza biologica. Come vi dicevo, se o sogno avesse possibilità il disfacimento della coscienza, morale intellettuale, la demenza associativa con cui si costituiscono, in reciproco rapporto delinquenziale, forse potrebbe trovare una risposta una soluzione, in realtà hanno stimoli immaginativi, più o meno “in stato di veglia” su cui proiettano l’atto dell’appagamento, più che altro sono costituiti e costituiscono la loro percezione della realtà sull’odio che alimenta lo stimolo e la competizione, che fa riferimento all’esistenza biologica, che ha l’immagine della funzione come proprietà finita della coscienza: la proiezione in tal modo appaga. La realtà è confronto della coscienza, che in tal modo può essere elusa e costituirla al di là delle sue possibilità. O nell’idiozia morale che determina e controlla l’incapacità di valutare la coscienza, superando i riferimenti di identità, e cultura, con l’atto psicologizzato della coscienza, come proiezione immaginativa del significato dell’atto, attraverso un comportamento proiettivo sull’immaginario della spiegazione. Una percezione ch’è incapace di stare nella coscienza, come di scrivere e leggere. “Qualche giorno fa”, andavo in bicicletta, pensando alla strada che avrei dovuto fare, ed ogni tanto ho pensato che cosa avremmo fatto qui oggi. Lungo la strada vi erano diverse prostitute, per lo più di colore, dal colore della pelle così, bello e intensamente nero, che alcune forse più delle altre avrebbero meritato, un attenzione, profondità artistica per la loro estetica, per l’insieme della loro bellezza fisica. Difatti più belle di quelle che appaiono come modelle, sono pluri miliardarie, in spot pubblicitari solo per il loro aspetto fisico. Sta di fatto che tra la comunicazione dello stimolo pubblicitario e la realtà di queste che stavo incontrando sulla strada, lo scarto della comunicazione, tra la relazione e l’associazione, al di là dell’immagine, poteva essere non solo evidente ma presente tra la possibilità di amare e la sua negazione, in quanto proiezione dell’immagine per mezzo dello stimolo inibito quanto appagato. E allora il controllo tra la determinazione dell’oggetto d’avere, e la coscienza di sapere della relazione produce nell’atto della spiegazione, la concretezza della comunicazione tra le persone e il loro reciproco stabilirsi. Ma di fatti se per l’immagine pubblicitaria la relazione non può che essere associativa, nella realtà essa può assumere diversi aspetti, e qualità di realtà della relazione. E allora pensando io che vado vicino a loro, in una prospettiva diversa da quella per cui queste donne sono lì sulla strada, per una chiara realtà dell’integrazione del denaro nello scambio sessuale, su cui si coniuga l’effettiva determinazione del perché, con la spiegazione dell’appagamento, lo scarto della comunicazione si è per un momento evidenziato, con il saluto cortese e invito a fermarmi di una di loro, la mia risposta, con un ciao bella! L’invito di un’altra, la mia risposta, non posso, e la sua affermazione “Bravo!” ora sul piano del risultato dell’interpretazione di quel “Bravo” vi è in stato di fatto la realtà dell’identità, e la dimensione culturale, mia come della donna che la pronunciato, ed è indubbio che implichi tale termine un concetto di relazione, al di là di ogni evidente richiamo associativo. È ovviamente poco per potere definire la realtà della comunicazione in divenire, e la qualità della realtà attraverso la coscienza, ma è già avvenuto un possibile, che ha trovato collocazione in quel preciso istante dell’immagine della realtà. Ora al di là della motivazione mia come di lei, dato che io non ero interessato ad una “scambio sessuale”, la possibilità si è sì determinata, ma né in funzione di una inibizione, né in rapporto ad uno stimolo o appagamento ad esso, e allora il gesto ha acquisito una consistenza al di là della funzione, ma una realtà di conoscenza dell’evento, in quanto possibile di confronto. (naturalmente è tutto nell’ipotesi, il fatto che il tutto del divenire poteva evolversi, nell’ambito dell’oggettiva problematica dell’evento in essere, in un ritorno nella dinamica di potere e desiderio, nel gioco più o meno surrettizio della chiarificazione della concretezza verificante, quanto inibente relazione della coscienza con il significato). La realtà è stata quella che quel Bravo, chiaramente riferito alla relazione della realtà reciproca in atto, ha chiaramente dato. In effetti non vi è possibilità dell’amore, finanche ipotetica se non per mezzo della realtà della relazione della coscienza, che sa di se stessa, al di là dell’appagamento e dell’associazione allo stimolo. L’immagine pubblicitaria in relazione alla possibilità d’informazione non ha la realtà della comunicazione, in quanto stimolo che controlla e vuole determinare l’appagamento per mezzo della proiezione della realtà, e la competizione dell’atteggiamento, l’informazione non può eludere in questo modo la partecipazione della coscienza, ma nell’informazione comunica per mezzo della partecipazione della coscienza della persona, e non dell’immagine pubblicitaria come stimolo e appagamento, che inibisce la realtà, alla sola funzione, e la volontà in funzione dell’appagamento della funzione. La relazione è chiara in quanto possibile, possibile in quanto cosciente della comunicazione della realtà possibile in quanto partecipativa della comunicazione del possibile della realtà, attraverso il significato ma nelle possibilità dell’identità come possibilità della relazione, tra la coscienza e l’immagine in divenire che avviene nell’ambito della relazione, dove già è. Pensando a tutto ciò, penso anche a questa voglia di controllo che inibisce la coscienza e la conoscenza, come il perché della relazione, determinandone il limite attraverso l’affermazione della volontà sulla volontà dell’altro, sul piano “de io inibisco di più e tu ti devi appagare, giustificando il motivo della conoscenza e della coscienza su tale utilità, funzionale all’appagamento dello stimolo per lo stimolo. Questo in definitiva ha stabilito, determinando ciò che va stabilito in riferimento al comportamento falso o surrettizio, come giudizio di quello autentico, per la verifica dell’autenticità del gesto e del suo significato per la proiezione e costruzione della coscienza che più piace; le scienze sociali in un attributo di quel che mente o finge emulando la realtà, e la relazione, un disturbo sull’espressione del significato per mezzo dell’effetto dell’espressione del significato, per la determinazione del significato emulativo della realtà della comunicazione senza identità, ma per paradosso si definisce culturale, ed espressione della sua realtà. Una delle cose più nefaste che vedo generato da ciò, è la calunnia psicologizzata che basa il suo esistere proprio sul fare del comportamento stimolatorio, associativo, dove il termina calunnia acquisisce lo spazio per mezzo dello stimolo che si diffonde e propaga in una sorta di affermazione demenziale collettiva che si fonda sull’immagine dell’io mancante che si deve affermare sull’immagine in sé della realtà, proprio al di là della relazione. Collettivizzando il significato e il disturbo, per mezzo della verifica della realtà per mezzo della calunnia psicologizzata. Che in definitiva anche se tendente per specificazione verso l’immagine di un solo individuo, difatti tende a distruggere l’immagine in sé della relazione tra la coscienza e la realtà e le possibilità della verità. Ancora per paradosso una delle sostanze su cui si determina ciò, è la finzione della plausibilità della spiegazione come fenomeno comprensibile a tutti, anche se non lo capiscono, ciò non solo rinvigorisce l’ignoranza, crea le classi, gli accademisti come fenomeni più consoni, e apparentemente ancora non degenerativi, ma dà l’impressione più forte che si sia controllori di quando si deve morire, in una sorta di banalizzazione dell’amore irrefrenabile. Nel mostrarsi della calunnia psicologizzata vi è una sorta d’immagine che cerca nell’impossibilità della comunicazione attraverso il controllo a tal fine, quelle tecniche del segno e dell’immagine proprie della psicologia su cui stabilire la molestia sociale, che acclarano la superiorità del gesto e dell’immagine siffatto, e tramite ciò del volere sul dire e il significato, la persona che si vuole inficiare con la calunnia psicologizzata. È ovvio che in ciò l’associazione a delinquere per citare anche l’aspetto della legittimazione nello status sociale, finisce per essere un tutt’uno con le conseguenze. Ed è in questo assurdo mostrarsi che più di una donna cosiddetta sociale, che si barcamena in questo percettivo autistico di controllo, in questa società del consenso, che l’odio per la comunicazione la relazione con la propria coscienza, in questa coscienza fallita dell’uomo dove l’appagamento determina il sapere e la verità, che basta dire una cosa vera, per quanto reale che l’io in crisi, l’invidia, la calunnia, psicologizzata, chissà che termine ci sarà in futuro – l’individuo inizia una pantomima della realtà della coscienza e struttura il suo modo dal significato che deve essere superiore più che vero, al di là, del non poter sapere e comunicare, ma in una sorta di verifica dello stato emotivo, gli si attivano come riflessi condizionati tutta una serie di aggressività, che stabiliscono il valore del contesto sociale e dell’identità su tale concetto per mezzo della comunicazione, che si sostanzia in disturbi della percezione, per l’affermazione dell’identità, dove in mancanza di realtà si sostituisce la comunicazione, il suo significato, in prospettiva: come di quegli, individui, donne che incominciano a emettere suoni disarticolati, e a disturbare con dei gesti la comunicazione, ed a interpretare così per mezzo emotivo la conversazione, e per tale mezzo stabilire il significato non solo percepito ma da comunicare, e riprodurre sull’immaginario psicologizzato che afferma il significato per mezzo stesso del significato psicologico dell’immagine che si afferma come vera al di là della comunicazione reale, e per la volontà di appagamento dello stimolo per lo stimolo, che dà alla coscienza la superiorità, sulla comunicazione e relazione che così proiettiva appaga l’immagine siffatta, della relazione. Stimolo inibizione appagamento, controllo sulle possibilità della realtà per mezzo dell’emulazione della coscienza. “Senza sentimento”.   

 

E noi da questo posto in cui siamo, dovremmo stare oltre questo luogo, per stare ad osservare il mondo che si trasforma in base al controllo reciproco, tecnologico vicendevole del disturbo per la comunicazione. Saremmo qui in base a questa moltitudine di fallite della coscienza, del fallimento della coscienza che nella competizione di tali oggetti, con se stessi, aspettano il primato della superiorità sull’oggetto, in attesa che la coscienza si trasformi in prospettiva del cambiamento del cambiamento dell’oggetto, per trasformare così l’intera moltitudine, e che dovremmo fare emulare il fallimento del pensiero, per un’ipotesi del pensiero che supera l’azione, e aspirare alla trasformazione dell’immagine stessa, con la velocità delle possibilità dell’oggetto, e nella folgorazione della guerra l’atto risanatrice della coscienza che cambia l’immagine come la sua illusione. Come la morte sempre nuova. In sostanza questa grande velocità al di là della coscienza, è l’arma più efficace per il controllo della trasformazione, per la lotta del tempo della trasformazione, in base alla coscienza che controlla, che domina il tempo con le possibilità dell’oggetto, la conseguenza estrema delle possibilità, ma allora tutto questo vociare fuori da questa stanza dovrebbe essere l’estrema espressioni della libertà dell’identità come coscienza libera dall’oggetto, in quanto arbitrio che sceglie l’oggetto come attributo immateriale della materia, per nell’ambito della materia trovare delle possibilità che non determinino null’altro che la trasformazione della materia. E allora la coscienza che dà un attributo di realtà alla materia, non può cercare nella guerra il rinnovamento dello spirito, ma nella conoscenza l’indipendenza della coscienza dalle possibilità della materia, in quanto possibilità di cui è possibile usufruire, nell’ambito della coscienza e della sua possibilità di comunicazione, che non ha ben sì velocità, ma consapevolezza della realtà come conseguenza della coscienza che applica alla materia, la realtà della libertà dell’identità come espressione della realtà della propria identità di farsi conoscere per mezzo dell’astrazione materiale della tecnologia, in quanto coscienza libera dall’irrealtà, della trasformazione dell’immagine per mezzo della superiorità come oggetto dell’oggetto che trasforma l’immagine, in conseguenza dell’espressione della coscienza dell’oggetto. È forse questo in questa stanza dove il nostro segno è l’espressione stessa delle possibilità di capire, di stare nella coscienza anche al di là dello scarto del suo tempo. Difatti noi siamo ora qui, come in un’altra possibilità di tempo per mezzo di questi segni della rappresentazione. E allora quel qualcosa che viene da fuori, che spiega che l’evento dell’immagine irreale, che lo stabilirsi di un’immagine che guarda un’altra immagine, da senso al fatto che per conseguenza diretta di ciò, l’immagine più ampia che si applica sulla materia, dà alla conseguenza l’attributo di realtà, solo perché più confacente alla proiezione della coscienza sull’oggetto, anziché sull’astrazione della propria coscienza che sta nel significato delle possibilità, e quindi anche come possibile conoscenza dell’altro per espressione della sua coscienza, della coscienza come delle possibilità del silenzio che non spengono la coscienza, dell’identità come possibilità, e nel nostro caso atto stesso dell’essere autore, ma anche “autore” oltre il nostro atto, in certi casi. E allora questa possibilità del tempo che così è reale, stabilisce una velocità del senso e del tempo, che se per mezzo della macchina è del tutto ascensionale, per mezzo della tecnologia astratta, diventa al di là dell’astrazione, in quanto non più astrazione, ma dislivello dell’identità, in funzione dell’oggetto, che così controlla il tempo astratto, come evento al di là della coscienza, che non rappresenta se non per irrealtà della menzogna dell’identità, che per tale possibilità dovrebbe ritenersi controllo della coscienza sull’oggetto, e nell’ambito di ciò la spiegazione e il significato della comunicazione al di là della coscienza. Difatti così non si fa che dare gli attributi della coscienza alla funzione che di essa viene fatta dall’oggetto, e quel che si evidenzia non è il colpevole, che dà ciò è stimolo per verificare il responsabile, o la fanatizzazione che dà all’oggetto la caratterizzazione di demiurgo, al di là dell’ipotesi di coscienza che lo controlla, al di là ovviamente della conoscenza della coscienza nelle possibilità dell’astrazione. Ma la possibilità dell’irresponsabilità della coscienza e delle possibilità dell’identità di scegliere la libertà, come possibilità di conoscenza e della vita. come possibilità anche di amarla, e di amare per essa.

E allora in questo gioco degli attributi, voi, noi che siamo qui, in questo locale, che sembra sia stato riaperto per questa occasione, com’è che sta di fatto che più l’irresponsabilità aumenta e più aumenta il profitto economico, in base al consenso, come appagamento dello stimolo che può eluder la coscienza e sembra anche l’essenza materiale, proprio” in ragione che la trasformazione più consistente è tra l’illusione della materia e le possibilità che la comprensione dell’illusione va a stabilire, ciò che la qualità è, funzionale all’appagamento dello stimolo, e attiva l’atto dello stimolo per controllare l’appagamento, e in funzione di ciò la trasformazione della materia per la materia, stabilisce che la cosa più scadente per la coscienza come per l’identità, è la possibilità della coscienza di conoscere la coscienza, solo per il fatto che uno stimolo senza immagine può associarsi ha qualsiasi oggetto e in dal modo stabilire la realtà dell’oggetto in base al potere, e all’appagamento e non della realtà. senza l’esperienza, le possibilità e i limiti della coscienza, e l’essere come possibilità dell’identità. E allora dico in questo tempo, della velocità ch’è più pesante in realtà di qualsiasi movimento reale, il fatto che noi siamo autori, e pertanto espressione di noi stessi, in relazione con la realtà della rappresentazione, ancora una volta mi fa dire: che cosa c’entra l’involontarietà di chi dovrebbe leggere ciò ch’è scritto, e non lo fa, con l’irrealtà di ciò che viene proposto in lettura, ignorando la “realtà e l’autore.” Se la determinazione importante dello scrivere, è l’atto dello scrivere, non di meno la possibilità di poter essere letti, sta nell’inderogabile stabilirsi critico di chi scrive, con cui l’astrazione entra inevitabilmente nello stabilirsi della coscienza del lettore come silenzio dell’indeterminatezza dell’oggetto, che sta al lettore al di là dell’autore. Il tramite.

 

E ora noi dovremmo uscire da qui, difatti tra un po’ usciremo da qui, e come abbiamo scritto scriviamo senza essere che con la verità e la realtà, senza la necessità di stabilire un contatto con la quantità che stabilisce, con l’eternità di chi guarda chi, per dire di essere guardato e verificato, in base all’immagine, e al metro dell’illusione degli infiniti presenti. Se c’è in questo la possibilità di un’illusione dell’ipotesi per mezzo dell’inverificabile possibilità di confrontarsi con la coscienza, l’ipotesi di un’ingiustizia clamorosa per lo svolgersi della realtà, non dà adito alla stupidità, di valutare se stessa, mai per mezzo di posticipi o anticipi interpretativi che null’altro sono che intalentuosi momenti della stupidità di sempre, dell’odio stesso che alimenta la coscienza, sulla demistificazione della traduzione del momento, per la convenienza dell’illusione, di puri ladri o ignoranti della libertà della coscienza, e dei suoi infiniti incontri nella realtà. E allora la mediocrità di questi cosiddetti odianti trova la matrice del loro inferno, non solo nella inadempienza alla conoscenza per la libertà. Ma noi sapremo che costoro, a cui noi siamo del tutto sconosciuti, finiranno per immaginare nella loro struttura immaginativa un meccanismo in funzione dell’odio, soltanto per il fatto, che per mezzo dell’immagine che hanno di loro stessi, come loro ipotesi al di là della costruzione dell’ipotesi, come possibilità; crederanno di vedere la loro immagine in relazione con noi, solo per identificarsi con ciò che non è vero, in loro attraverso l’immagine di se stessi, che odiano quel che non conoscono, pensando che questa immagine sia corrisposta dall’altro noi come reale. Questa pazzia di ogni significato che sta lì fuori e che attraverseremo non curanti per la libertà di poter scrivere oltre il limite dell’apparire, dà l’unicità ad ognuno di noi, e le proiezione di un’immagine in disfacimento, della proiezione di questa immagine di costoro, su chi non conoscono, “dicono” anche della possibilità delle parole di stare dove costoro non vogliono stare, nel significato della coscienza. E allora in questo locale sicuramente c’è qualcun altro, ch’è in questo locale come fuori di esso, proprio come noi che sa leggere la propria coscienza, che vive nelle possibilità della realtà oltre l’ignoranza del presente di questo mondo che ha dato all’immaginare il significato dell’apparire, come proiezione che odia l’essere e la realtà della coscienza, che immagina di conoscere e sapere la verità, senza sapere chi conosce né sapere se lo conosce, proprio come non conosce se stesso se non come immagine di se stesso, come oggetto senza coscienza. Ma ciò ora qui, appunto, non esiste più.

 

 

 

Appendice

Sono citati due brevi brani – di dichiarazioni di testimoni storici - dal libro “Verdun” di Ian Ousby”, Al Momento non so chi sia l’editore, e il traduttore italiano da menzionare – perché paradossalmente pure avendo due copie di questo libro, queste mie due copie iniziano entrambe da pagina 17. Grazie

 

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