Introduzione per internet

 

La mia sarà una breve introduzione, che con piacere faccio, per il libro di Patrizio Marozzi.

Del resto non è che abbia molto da dire, o meglio non mi va di indicare perché, questo è il suo ennesimo capolavoro – anche perché indicare quello che per me sembra più che ovvio, e per me anche per altri, dall’intelletto e il pensiero profondo. Un libro che parla in modo meraviglioso dei viaggi del cuore dell’anima e del corpo, quasi che il tempo attraversi se stesso, con se stesso e con gli altri: non si può immaginare di meglio di un libro che parla di viaggi. …e vorrei non aggiungere altro perché di già avverto il desiderio di parlare della psicologia che non è psicologia in cui stanno i vari personaggi, che hanno un nome, ma che come vi apparirà essi non hanno enunciato completamente. Ciò ovviamente nulla c’entra con la dicitura di nessun riferimento con fatti e personaggi reali. Ma più esattamente, credo, con il mistero della poesia che apre il “racconto” che contiene i versi e le parole di tutte le altre. Un gran libro, e ripeto l’ennesimo capolavoro di Patrizio Marozzi.

Buona lettura

 

Bernardo Joyce

 

 

Patrizio Marozzi - Il Tempo pag. 76

 

 

 

 

…che vuoi disse egli al compiuto gesto.

— Niente aspettavo che tu ci fossi.

                                         

                                          Bernardo Joyce

 

 

 

Ho ascoltato invano questo momento

non l’ho potuto afferrare

per nessun lembo del suo vestito

Ho cercato tra il profumo del suo corpo

e non ne aveva

Ho sentito che tu c’eri perché non c’eri più

Ho guardato passeggiare invano il mio corpo

cercarti

ma non averti mai


                         LA MATTINA

 

 

 

M — Buongiorno, dicono che oggi sarà una bella giornata.

P — Buongiorno, come è andata ieri sera?

M — Così così, c’era L in una delle sue fasi di crisi e tutta la sera non si è fatto che ascoltarla.

P — Ma quando la smetterà di commiserarsi, è possibile che non riesca ad agire un po’ di più. Ciao, io esco; a stasera.

M — Ciao

 


Ho ascoltato invano il mio corpo

Ho cercato tra il profumo perché non c’eri più

Ho sentito del suo vestito

afferrare questo momento

passeggiare

cercarti

ma non averti mai


                   L’ESPERIENZA DI C

 

 

 

C — Non so immaginarmi in un’altra situazione analoga a questa; mi sembra che nella  vita ripeta sempre gli stessi errori, l’esperienza mi passa addosso senza lasciare nessun effetto. Dicono che sia colpa di qualcosa che mi è accaduto nell’infanzia.

Continuo ad amare uomini di altre donne, a desiderare ciò che è di ostacolo alla realizzazione dei miei desideri. Mi capita di sentirmi sola, colma di solitudine e so far fronte a questa emozione, facendo finta, credendo che le cose non sono quel che sono.

Quando ho visto P la prima volta ho immaginato che fosse un uomo solo, chiuso nella sua intima solitudine; con quel suo muoversi quasi nascosto, trascinare il suo corpo come se non fosse il suo. Il suo sorriso tranquillo e conciliante. Quando lo vedo ho come l’impressione che stia per andarsene, mi dà quella sensazione di cose inafferrabili che sembrano che stiano lì per scomparire, ma in realtà sono sicure, perenni, per questo irraggiungibili


Del suo vestito nessun lembo ho sentito

Tra il profumo del suo corpo

tu non c’eri

perché non c’eri più

Il mio corpo non l’ho potuto afferrare

Ho guardato passeggiare

Ho sentito

Ho cercato

Ho ascoltato

questo cercarti

ma non averti mai


                   L’INCONTRO

 

 

 

P — Pronto, potrei parlare con padre A?

— Un attimo!

A — Sì, pronto!

P — Ciao, sono P

A — Salve P, come va?

P — Normale. A oggi ho del tempo libero e mi sono chiesto se ti andava d’incontrarci.

A — Certo; vieni tra un’ora, così sarò libero.

 

P — A, quando penso a te mi chiedo se sia giusto che io abbia dei dubbi riguardo le scelte della mia vita, se sia normale che mi senta estraneo della mia stessa vita, abbandonato dalla mia stessa solitudine. Avverto che il senso della mia esistenza è in un altro luogo, lontano dal mio vivere; meglio è come se il mio vivere mi dicesse che c’è un altro posto dove io vivo, un luogo parallelo a questa mia esistenza, dove le mie scelte acquistano senso, ma è un posto a cui non riesco ad accedere. Pensando queste cose mi rifletto nella tua vita, ripenso ai nostri ricordi, alle esperienze che abbiamo condiviso, agli abbracci, ai baci che mamma ci dava, alla sua instancabile generosità nei nostri riguardi; all’allegria, gli scherzi di nostro padre. In tutti i momenti tristi o di gioia, noi siamo stati accompagnati dalla loro serenità, entrambi abbiamo sentito queste cose, entrambi su di esse abbiamo costruito le nostre sicurezze. Come altri gemelli, uguali. Poi quando abbiamo incominciato a essere soli è iniziato il nostro cammino individuale; a vederci un po’ diversi.

Ed ora A, quando ti guardo e vedo il tuo viso uguale al mio, mi chiedo se dentro il tuo corpo non ci sia anche la mia anima, se il percosso della tua esistenza non sia quello giusto anche per me; forse io non ho fatto altro che allontanarmi da ciò che la nostra anima ci indicava, tu l’hai seguita, ed io credo di averla smarrita.

A — Fratello mio, guai se mai il dubbio non invadesse la nostra vita, se i nostri pensieri non avessero un perché e fossero così sicuri da non lasciare spazio a ciò che sentiamo. Questo dubbio che sentiamo ci permette di percorrere la nostra strada, passo dopo passo; anche quando ci sembra di averla smarrita, siamo solo ad una tappa del nostro cammino. Fratello mio voglio chiamarti così perché la scoperta di quello che io ho sempre provavo per te, mi ha fatto capire, scoprire la fratellanza che ognuno di noi ha con l’umanità. Noi percorriamo la nostra esistenza cercando e in questo cercare riusciamo a scoprire; tutto ciò che troviamo è una scoperta; possiamo solo scoprire. Eppure in questa nostra invenzione agisce una scintilla che ci fa parte della divinità. Questo essere ad immagine di Dio ci fa sentire che se esiste un mondo che scopre, un mondo esistente, c’è un creatore che ha instillato sul suo creato il suo alito di vita, che agisce insieme ad ogni sua creatura rendendola partecipe della divinità. E come un padre e una madre che trasmettono al proprio figlio ciò di cui son fatti, così Dio ci ha trasmesso sé stesso, donandoci la sua scintilla divina. Questa sua azione generatrice ci fa costantemente partecipi della sua attenzione, esseri concreti dell’esistenza di cui ci è affidato il compito di scoprire e generare la nostra vita.

P pensa ai tuoi dubbi come l’espressione della tua capacità di cercare, di approfondire la vita, questo fa di te un artefice della comprensione.

P — Vedi A, se pur consapevole che questo mio interrogarmi mi è essenziale per sentirmi partecipe della vita; lo stesso non posso nascondere a me stesso il timore di ritrovarmi perso lungo il tragitto. Se con la mia intelligenza partecipo a un processo di astrazione, che cerco di risolvere attraverso un momento dialettico, nell’attimo in cui sono solo, nell’isolamento, mi accorgo dell’impossibilità della mia logica; di un sentire che mi pone da solo di fronte ai dilemmi dell’umanità, con la storia che si frantuma dentro di me e che dentro… Sento che solo dentro me la posso ritrovare. …Giorno dopo giorno, mi sento come un lupo che non ha più il suo branco, che fa delle domande ad un agnello.

 

A — Come sta M?

P — La vita tra noi due sembra scorrere tranquilla, ci aiuta il nostro carattere tollerante. M è così accondiscendente con me.

A — Salutala e stasera quando torni a casa baciala per me.

P — Ciao A, grazie


Vestito del suo corpo

invano il mio corpo ascoltava

questo momento

Passeggiare che tu c’eri

Per nessun lembo non c’eri più

Questo momento l’ho potuto afferrare

Ho guardato tra il profumo

non ne aveva

Del suo vestito ho cercato

Cercarti

ma non averti mai


                   LETTERA DI P A C

 

 

 

17 Maggio 1977

Ciao C, rimarrai sorpresa di ricevere una mia lettera. L’ultima volta che ci siamo visti ti avevo detto che ci saremmo incontrati; che ti avrei spiegato ciò che posso essere per  te, guardandoti negli occhi. Non pensare — so che non lo farai — che abbia preferito scriverti per evitare quelle che sono anche le mie responsabilità: ci incontreremo, ma quando questo avverrà voglio che tra noi due sia più chiaro qual è il mio stato d’animo. Ieri ho pensato molto a quello che mi hai detto, ciò mi ha fatto riflettere sulla mia condizione interiore, ma di più sul modo in cui mi propongo agli altri. Mi hai detto che sembro avercela con Dio in persona, che sono così teso verso il dubbio, tanto che spesso dimentico le persone che ho intorno. Vorrei dimenticare, ritrovarmi immerso nell’oblio, ma non riesco a non ascoltare la voce stentorea che mi scuote dentro, la voce di quel buio che schiaccia la mia coscienza tra le pareti di una stanza che ha perso il silenzio. Non sono un Giobbe, che grida verso Dio di scendere giù, per chiedergli spiegazione del perché le contraddizioni della sua vita lo sfiniscono, perché la sofferenza lo sconvolge. “Che padre sei se mi lasci sconfitto dal dolore, ho ben diritto di rendere conto a te di questo, di chiederti dove e quando.” Dio non può rispondere, l’uomo si è dato le risposte da solo, le sue risposte hanno generato interrogativi a cui solo l’uomo nella sua solitudine deve rispondere e scoprire la domanda che non ha fatto a Dio. L’uomo ha posto Dio nella condizione di poter solo chiedere, domandare all’uomo e far si che esso si interroghi; Dio chiede all’uomo, ciò che l’uomo ha mancato di chiedere a lui.

C io chiedo a me stesso la responsabilità della mia umanità, anche se nella paura vorrei darla a Dio, ma l’unica cosa che posso è di chiedere aiuto.

Non so interrogarmi più di chiunque altro e non ho nuove risposte da dare, ma lo sconvolgimento che ho dentro non mi dà altra condizione che quella di cercarle. Non voglio rispondere alle tue domande, perché non voglio farti domande. Sono sposato, semplicemente sposato, questa è l’unica cosa che posso domandarti. Vorrei da te una risposta coraggiosa, giacché non credo in un uomo in balia degli eventi, ma in un uomo con una sua volontà, un uomo che agisce verso il senso della vita con la possibilità della propria forza; l’opportunità di amare mia moglie è una possibilità che la vita mi ha dato, un’opportunità a cui non voglio rinunciare.

Se anche non abbiamo mai fatto all’amore, il sentimento che mi hai manifestato non lo considero niente, ma l’opportunità di pensare ad una persona cara, di saperti partecipe della mia vita, ciò mi dà la possibilità di esserti vicino. Mi auguro per noi due che questa limpidezza non si perda e rimanga aperta alla luce degli altri, scoperta e leale.

                                                      A presto P

 


Lembo che tu

del suo vestito invano ne aveva

invano questo momento

non l’ho potuto afferrare

Passeggiare

ma non averti mai


                               L’ANALISI

 

 

 

…Da un punto di vista giudeo-cristiano si potrebbe anche dire che la non-religione equivale a una nuova “caduta” dell’uomo: l’uomo areligioso avrebbe perduto la capacità di vivere coscientemente la religione e quindi di comprenderla e di assumerla; ma nel suo intimo ne conserva ancora il ricordo, così come, dopo la prima “caduta” e benché spiritualmente cieco, il suo antenato Adamo, l’uomo primordiale, aveva ancora abbastanza intelligenza per ritrovare visibilmente le tracce di Dio nel mondo. Dopo la prima “caduta”, la religiosità era precipitata al livello della coscienza distrutta; dopo la seconda, essa è caduta ancora più in basso, nelle profondità dell’inconscio; è stata “dimenticata”. …

F — Che cos’è?

P — Che cos’è?! Dottore non è la prima volta che le leggo questo brano; e non è la prima volta che mi chiede che cos’è. Credo che tu abbia delle resistenze non  indifferenti verso di me. È un brano dal “Il sacro e il profano” di Mircea Eliade.

F — Non ricordo che tu me lo abbia già letto.

P — Infatti è così, sei tu che me lo hai letto in una delle prime sedute che ho fatto con te. Non è la prima volta che ti capita di non ricordare quello che proviene da me, anche quando è qualcosa che tu sai, se te la dico io scompare dalla tua memoria; per questo ti ho letto questo brano, penso che la tua percezione sia del tutto profana, abbia perso la memoria dell’atto sacro, lo sviluppo dello spazio tempo che ti pone di fronte a te stesso.

F — È vero quello che dici, verso di te sento come un senso di estraniazione, come se perdessi qualcosa che pensavo di avere.

P — Hai paura di scoprire quel che non sei. Mi hai chiesto l’amicizia, ma non fai niente per averla, ti rintani nel tuo ruolo, immoralmente, hai paura di uscire da questo studio e incontrarmi fuori e mostrarti senza autorità. Trovo limitativi questi incontri con te. Ti capita spesso di dire, impegnarti per fare una cosa e prometterla anche, e poi dimenticarla, o fare l’opposto di quel che avevi detto.

F — C’è poco da aggiungere a quel che dici; sento che hai ragione, eppure mi sfugge il perché di tale ragione; mi chiedo se non abbia sbagliato ha fare questo lavoro, forse non sono giunto a risolvere… ad integrare il materiale del mio inconscio con la mia coscienza. Il confrontarmi con le tue dinamiche, con le tue problematiche,  mi pone dinanzi ai miei limiti, a tu per tu con il mio inconscio…

P — Spesso mi hai ringraziato, sei arrivato a dirmi che sei tu che devi pagarmi, però non riesci ad uscire da qui, non riesci a superare il tuo stupido orgoglio e vivere la tua identità senza la struttura palliativa che ti sei costruito, vuoi rimanere il dottore solo perché ti dà l’illusione di essere superiore e continui a trascinarti questo tuo complesso d’inferiorità… chissà da quando. A me da fastidio questo, mi disturba, perché mi sottopone a un lavoro compensativo e di rielaborazione del nostro rapporto, che non mi compete, giacché tu dici di essere l’ “analista”.

F — È quello che cerco di essere, è quello che vuoi da me.

P — Ma tu non sai bene quello che vuoi essere, e in realtà non riesco a comprendere cosa tu voglia da me. Un giorno vuoi essere un mio amico, poi ti chiudi proteggendoti nella tua torre d’avorio; penso che tu manchi di dimensione etica e non te la puoi cavare dicendomi che mi ringrazi dell’aiuto che ti do. Sai che i nostri incontri ti sono utili per la tua crescita; spero che tu non pensi che io non mi renda conto di questo; io sono consapevole di ciò, ma il tuo modo di comportarti mi sottopone ad un’azione di riequilibrio che devo svolgere da solo, giacché tu pur sapendolo, pragmaticamente non fai nulla per accompagnare con le azioni il tuo dire; ed è qui che manchi clamorosamente nella dimensione etica. Perciò ho deciso di porre termine al nostro rapporto; per me è diventato frustrante colloquiare con la tua incapacità di riconoscere e accettare concretamente i tuoi limiti. Penso che gli psicanalisti come te siano adatti solo per persone succube

 

Questo momento l’ho potuto

afferrare

perché invano ho sentito il mio corpo

Tra il profumo

del corpo suo

Ho sentito che tu c’eri

tra passeggiare e invano

cercarti

ma non averti mai


                       DIARIO DI M

 

 

 

17 Maggio 1977

Questa mattina P è uscito come tutte le mattine, eppure in questi giorni sento che c’è qualcosa che lo angustia, come se dovesse capire, cercare qualcosa d’indefinito; stasera gliene parlerò. È stato sempre difficile afferrare quello che ha dentro, è come se la sua anima cerchi una via d’uscita, l’accettazione della propria esistenza.

Il suo cercare di afferrare quello che non… forse non si può prendere, me lo rende alcune volte incomprensibile; è come sentirlo vicino, ma non riesco a capire dove siamo. Quando entro nel suo studio, mentre metto le cose in ordine, alcune volte mi soffermo a leggere i suoi appunti, mi trovo a scoprire la sua ansia di cercare, il suo guardarsi intorno in attesa di posare il suo sguardo su qualcosa di definito. In cerca di Dio si scopre incerto, non riesce a capire da dove proviene tutto quel che sente dentro, si sofferma sulle luci e le ombre, aspettando di parlare, di trovare le parole, i suoni, per scoprire il significato di ciò che ancora non riesce ad assorbire nella sua anima, un corpo che non ha immagine, diafano come un guardare nel vuoto: la vista di un cieco, un sentire senza sapere cosa.

Io alcune volte mi sento dentro questo suo guardare e in quei momenti una vertigine mi sorprende e non sento più la terra sotto di me, non sento più chi sono; mi aggrappo ai miei ricordi e scopro il suo viso, ma non riesco più ad abbracciare il suo corpo, non riesco più a vedere il mio di corpo; mi afferro al pensiero di Dio e cerco di ricordare l’eternità e allora un profumo mi avvolge e mi sorprende nuda, vestita del lembo di un vestito che forse è di Dio stesso, qualcosa a cui misteriosamente mi afferro, pensando a P

Quando stasera tornerai ti chiederò dove siamo, perché ho bisogno che tu mi abbracci. A stasera.

 

PS

— Ricordati di dire a P che è tornato G


C’eri c’eri

ho guardato

Ho sentito il profumo

Il corpo non ne aveva

del suo vestito

del suo invano passeggiare

ho cercato

Questo lembo di corpo

invano ho ascoltato

Per nessun

il cercarti

Ma non averti mai


                               IL RITORNO

 

 

 

M — Pronto?!

G — M sono G

M — G…

G — G. D

M — G! come stai? Scusami se non ti ho riconosciuto, ma è così tanto tempo che non ti sento. L’ultima volta che ho avuto tue notizie è stato due anni fa, quando abbiamo ricevuto una tua cartolina dalla Cina.

G — Sono tornato da una settimana, prima di chiamarvi mi sono un po’ sistemato, due anni di Cina hanno un po’ cambiato le mie abitudini e prima di ritrovare i mie modi da occidentale mi ci vorrà del tempo.

M — Io e P ci siamo chiesti spesso che fine avevi fatto, nessuno di quelli che conosciamo sapeva dirci se eri tornato dalla Cina o dove fossi. Eri sparito e l’unica notizia che avevamo era quella cartolina che ci avevi spedito, dove ci dicevi che ci saremmo visti presto.

G — M non è accaduto nulla di misterioso, sai…  ho incontrato una donna…

M — E adesso?

G — Adesso lei è tornata in Inghilterra, ed io ero rimasto solo e ho capito che quello non era più il mio mondo; ed eccomi qua. Ma parlatemi di voi, che fa P?

M — P lavora in una piccola casa editrice, sembra contento, ed io per il momento faccio la casalinga e lo aspetto a casa.

G — A che ora torna, vorrei vederlo, ieri sera sono stato ad un concerto e mi piacerebbe, come facevo una volta, parlarne con lui.

M — Ti do il numero della casa editrice, così lo puoi cercare subito, ma dammi anche il tuo telefono, così se non lo trovi ti faccio chiamare appena torna a casa.

G — Il mio è sempre lo stesso, sono tornato nella stessa casa ed ho trovato le stesse cose di quando me ne sono andato. Ogni tanto mandavo dei soldi alla mia vicina e lei gentilmente ha provveduto al necessario per non far morire la casa.

Posso chiamarlo subito?

M — Chiamalo, non lo disturbi, anzi quando saprà che sei tu mollerà quello che sta facendo e ti chiederà subito d’incontrarti.

G — Ti ringrazio M, a presto.

M — Speriamo che non passino altri due anni.

G — No, questa volta no. Ciao!

M — Ciao

 


Invano

invano profumo aveva il suo corpo

Il corpo mio

per nessun lembo del suo vestito

l’ho potuto afferrare

perché non ne aveva

ascoltato

questo momento

che tu non più c’eri

Per cercarti

ho cercato

Ma non averti mai


                                   PARLARE

 

 

 

P — …Ciao! quando tempo; poco fa quando mi hai telefonato stavo leggendo un manoscritto che parlava di una persona scomparsa e di una donna che attraversa città, nazioni, nella speranza di trovare qualche traccia della sua memoria. Sono due anni che si sono perse le tue tracce, sinceramente quando mi veniva in mente il tuo ricordo, non sapevo cosa pensare.

G — Per un po’ la mia esistenza ha attraversato altri luoghi, spazi, tempi che mi hanno spinto dove non avrei mai immaginato; quando ripensavo a te a questi posti, ai nostri comuni amici, a tutto quello che avevo fatto prima di andarmene, mi sembrava che questa parte della mia esistenza non facesse più parte di me; si era perduta, estraniata dalle mie emozioni. Ormai vivevo in un mondo completamente diverso e dentro di me non c’era spazio per una coniugazione con il passato, tutto si era trasformato così rapidamente che i ricordi non si adattavano più al mio presente; e non avrei mai immaginato che qualche mese fa questa parte della mia vita che sembrava così lontana sarebbe tornata dentro me reclamando alla mia coscienza tutta la sua legittimità, richiamandomi nei luoghi che da  tanto tempo avevo abbandonato. In realtà non me ne sono mai andato, ho solo lasciato che gli eventi si appropriassero di me. Be’ eccomi qua!

P — Ora che stai facendo, come stai trascorrendo queste prime giornate nel tuo vecchio mondo?

G — Sai la cosa che mi lascia perplesso è che ho ripreso a fare quello che facevo prima di andarmene, come se non fosse trascorso neanche un giorno, se non fosse accaduto nulla nel frattempo.

Ieri sera sono andato a sentire un concerto: “Erwartug” di Schönberg e mentre ascoltavo ho sentito dentro di me la mia instabilità, il mio non esserci, era come se la musica mi chiedesse di dare delle risposte, mi gettasse addosso le sue frasi, le sue domande.

P — Schönberg ha composto quest’opera nel 1909 e dopo così tanto tempo, ancora l’Erwartug rappresenta un atto musicale estremo; la musica si libera dalla tonalità e così Schönberg si liberò dagli agganci tradizionali della sua arte; musica che va oltre i limiti si estende oltre essi. Le parole del testo, la donna dell’opera è alla ricerca della stabilità è avvolta da domande che si sospendono, che lasciano l’attesa nel presente — Mi chiedo come abbia fatto ha realizzare un’opera così… in diciassette giorni.

G — Si presume che abbia usato l’intuizione, forse anche la scrittura automatica, surrealista.

P — Io non credo, lui si è spinto dove il suo sentirsi libero l’ha portato e in questo stato quel che si crea lo si sente in armonia con quel che si è; e tutto procede spinto dalla sua stessa intensità verso un equilibrio creativo, nella ricerca dell’espressione. Proprio per questo suo peculiare stato Schönberg nell’Erwartung, porta la musica, nel mondo interiore; nella manifestazione del sentire della donna senza nome, l’orchestra ci comunica ciò che avviene, il suo vedere; l’espressionismo ci dice della sua stessa realtà…

G — La protagonista non si trova ha perso la speranza e quando si volge al passato sente solo la nostalgia, nessuna speranza. La nostalgia che ci rende prigionieri del passato; sai è per questo che me ne sono andato, che sono stato via tutto questo tempo: per fuggire dalla nostalgia del mio tempo che passava, per dimenticare la storia che fino a quel momento la mia vita aveva costruito, dovevo dimenticarmi e cominciare tutto daccapo. Non sopportavo l’incertezza in cui ero finito, non avevo risposte per le domande che nascevano dentro me; e l’unica cosa che ho saputo fare è stata quella di distruggere il mondo a cui non sapevo rispondere, costruirmi un nuovo presente che togliesse ossigeno alla mia memoria, ho provato a ricominciare da dove avevo smesso di rispondermi


Il profumo

Tu c’eri

c’eri

Corpo

lembo

vestito

Non l’ho potuto afferrare questo momento

Corpo

sentito

ascoltato

Ho guardato passeggiare nessun invano

Non più del Suo

cercarti

ma non averti mai


                   LA STORIA DI G E S

 

 

 

S — Sapevi che le cose potevano andare in questo modo.

G — Non ci siamo mai fatti nessuna promessa.

S — Ci siamo fatti compagnia, sembra brutto ricordarsi così; ma è quello di cui avevamo bisogno quando ci siamo incontrati. Ci siamo dati quel che potevamo.

G — Forse ora siamo un po’ troppo crudi verso noi stessi, sembra quasi che vogliamo apparire indifferenti dinanzi alla fine della nostra storia.

 

S e G erano giunti a questo momento dopo quasi due anni di vita vissuta insieme. Ora dentro loro si stava sviluppando il convincimento che forse c’era stato qualcosa di più di quello che credevano. Avevano sempre saputo che il giorno della loro separazione, prima o poi sarebbe giunto, ed ora recitavano la parte che si erano costruiti dentro per affrontare la fine della loro relazione, facendo finta che era così che doveva andare, e sono così dentro questo loro convincimento, da non riuscire più a cambiarlo, come se dentro loro la paura di scoprire i sentimenti che nutrono l’uno verso l’altra avesse preso il sopravvento sulla realtà stessa del loro volere.

 

…I giorni erano incominciati senza che nessuno dei due se ne fosse accorto, come se il tempo avesse deciso per loro il luogo in cui si sarebbero visti per la prima volta.

Erano in bicicletta, lontani dal traffico occidentale, in mezzo ad un mare di cinesi che pedalavano indifferenti nel vedere quegli occidentali che cercavano di imitarli.

Lei aveva la pelle chiara, il suo corpo si muoveva con eleganza e agilità, il suo sguardo osservava ciò che le succedeva intorno: gli altri ciclisti, i suoni e i colori della città, e il suo viso non perdeva mai l’espressione di attenta curiosità.

Lui la vide dall’altra parte della strada — la “osservò” subito, nella speranza che lo sguardo di lei si incontrasse con il suo; lei non si accorse di lui. Spinto dall’istinto lui iniziò a seguirla. Vedeva i suoi capelli mossi dal vento, cercò di raggiungerla. [Che sentiva dentro di sé che lo spingeva ad agire?] Voleva conoscerla, ma avvertiva in sé una strana ansia, un timore. [forse la paura di non riuscirci?]

All’improvviso lei rallentò voltò la testa verso un caffè; si spinse sul bordo della strada, posteggiò la bicicletta negli appositi spazi e si diresse verso i tavoli che erano fuori, sul marciapiedi davanti al locale. Se sedette ad uno d’essi, prese la sua borsa, l’aprì e ne tirò fuori un quaderno ed una penna; lo appoggiò sul tavolo, lo aprì e inizio a scrivere. G si era fermato un po’ prima del caffè, sul bordo della strada. Scese dalla bicicletta che prese per il manubrio, camminò verso il parcheggio delle biciclette, vi lascio la sua, poi si diresse verso il caffè, passò davanti al tavolo dove era seduta lei, si sedette alcuni tavoli più in là, quasi nascondendosi in mezzo alle altre persone. La osservò, guardò la mano di lei muoversi mentre scriveva; comprese che era attratto dai suoi gesti, era come se emanassero un profumo famigliare, ma che per una strana e inspiegabile situazione non aveva ancora sentito.

Lei come se sentisse di essere osservata si voltò, lo vide.

[…Avevano trascorso  due anni insieme…]


Del non

ne ho

Tu che

più

Non

del

suo

Che

il

mio

Ma

non

averti

mai


                            IL VIAGGIO

 

 

M dopo aver parlato al telefono con G, scrisse nel suo diario, poi “tornò” nello studio di P. P in quel periodo stava riordinando il suo archivio ed aveva chiesto a M se poteva aiutarlo. Mentre M suddivideva il materiale, ordinandolo per anno, trovò un piccolo manoscritto con l’intestazione  —“MAROCCO L’IPOTETICO VIAGGIO VERSO L’IPOTESI”. Si ricordò che P era stato in Marocco l’hanno prima del loro matrimonio, e che durante quel viaggio lui gli scrisse una lettera.

Aprì quelle pagine ed iniziò a leggere


 

2 Luglio. Appunti di viaggio.

 

Credo che un granello di sabbia che si “sospende”, affabile e so­litario nello spazio, percorra i gesti di un viaggio, non qualunque, ma umano; camminare nel terso di un cielo uguale, nei luoghi e nei colori che si combinano nei passi di una strada fatta di freddo ed in­nevato asfalto, o nell’irrequietezza della sabbia di un deserto. Pur tuttavia guardo sempre il cielo e scopro quel richiamo multi­colore della terra; sotto lo stesso colore una moltitudine di sé, di voci che fluttuano alla ricerca della consapevolezza.

Guardo i miei passi e li scopro in movimento, sento i miei piedi nudi e sento la pelle dell’infinita terra dirmi chi sono, dove andrò; lo stesso di un uomo che stringe la mano ad un altro uomo, che scopre l’infinito racconto della propria storia.

Guardo i colori di un paese, di un paese immaginato e scopro, la tavolozza dei colori della storia di un popolo, il suono dei po­poli, la voce dell’umanità che si ripercuote in ogni dove, che trova dove spesso non si ricorda.

Leggo i giorni di questo viaggio e mi “affretto” a capire i luo­ghi di un cuore, i passi di un pensiero, ché l’esperienza trascina vor­ti­cando sulla vita i suoi “significati”; raccontano di un luogo dietro l’infinita parola, di un cuore che scopre il suo respiro, di un re­spiro che ne cerca un altro.

 

“Allàhu akbar! Allàhu akbar! Allàhu akbar! Allàhu akbar! Ashhadu an là ilàhà illà Allàh! ashhadu an là ilàhà

Allàh!

Ashhadu anna Muhammadan rasùl ’llàh! Ashhadu anna Muhammadan resùl ’llàh!

Hayya ’ala ’s–salàt! Hayya ’alà ’s–salat!

Hayya ’alà ’l–falàh! Hayya ’alà ’alà ’l–falàh!

Allàhu akbar! Allàhu akbar!

Là ilaha illà ’llàh!”

 

Sono partito da alcuni attimi, e da qualche momento ascolto il suono del pensiero, che esprime questo nuovo luogo del mio cammino. Dio è grande, è la voce che ascolto ora che sono tra que­sta gente, sopra questa terra. Poco fa ero seduto sopra al cielo e osser­vavo i miei compagni di volo che parlavano, che guardavano fuori dall’oblò. Chiudevo gli occhi e mi chiedevo a quale sarebbe stato il loro pensiero se avessero saputo che il cielo che stavano guar­dando, un giorno, sarebbe esistito senza che loro se ne fossero ac­corti.

Mi domando come ho fatto a dimenticare il giorno di ieri, come è accaduto che quello che mi teneva fermo al mondo, così determinante, avesse smarrito la sua immagine; era rima­sta dentro me, pallida, come una macchia silenziosa dentro il suo mo­mento.

Già da un po’ ho fatto gli ultimi gradini della scala dell’aereo, e da un po’ passeggio su questa terra, tra queste persone. Mentre os­servavo le hostess dell’aereo, mi sono chiesto, chi sarei ’stato io ai loro occhi?


Tra il profumo del suo corpo

ne aveva sentito il perché

Cercato il suo passeggiare

Tu

invano ho sentito questo momento

e

non l’ho potuto afferrare

perché più non c’eri

Del vestito

nessun lembo ho cercato

Non ne aveva il cercarti

Ma non averti mai


 

3 Luglio

 

Odo le voci di gente sconosciuta, dove il luogo di una città si apre alla mia coscienza; dove le parole e gli affari si destano di cu­riosità: gesti e contratti per l’atto di un trasporto tra altre genti.

I luoghi di un’arte, a me privata, qui si destano stentorei e quasi avvolgenti sul mio corpo eccitato dai colori.

Odo il mio cuore palpitare, nella speranza che scopra un altro cuore un nuovo petto. Guardo le danze nei volti della gente, sco­pro curiosi occhi, profondi momenti, che uniscono i miei desi­deri. La sete di capire taglia la mia ansia, scoprendone la sua nuda forma. Sono qui in un luogo generato dai miei occhi chiusi e odo i suoni che delineano lo spazio di una città, della sua arte di vi­vere.

muezzin canta di Dio.

muezzin canta di Dio.

muezzin canta di Dio.

muezzin canta di Dio.

muezzin canta di Dio.

Attesto che non c’è altro dio che Dio! Attesto che non c’è altro dio che Dio!…

L’uomo chiama Dio lo invoca, lo delinea e lo immagina e fer­menta nella sua coscienza il possibile incontro; un incontro che trova l’uomo “solo” del suo vestito, delle vesti che Dio gli ha do­nato, del perché del suo nome.

Attesto che Muhammed è l’inviato di Dio!

Attesto che Gesù è Dio. Io per te forse infedele tocco la parola: «Maestro qual è il più grande comandamento della legge?» Ora egli rispose: «Amerai il signore Dio tuo, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente “e con tutta la tua forza”. Il se­condo poi è simile a questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi comandamenti dipendono tutta la legge e i profeti».

Non trovo sovvertimenti nella parola, se non quelli della fini­tezza di ogni essere umano; e “pur” comprendo che le differenze non sono di Dio, ma dell’uomo.

Vorrei che tu entrassi nella mia “Chiesa” e pregassi Dio come sai; vorrei entrare nella tua “Chiesa” e pregare Dio come so.

Poter danzare come un derviscio:

 

“Risuona tamburo, riecheggia flauto! Allah hu!

Ondeggia nella danza o aurora! Allah hu!

Anima di luce nel cortile dei pianeti. Sole del

Signore quale loro centro creato! Allah hu!

Cuori! Mondi! Il vostro danzare si arresterebbe se

Non lo accendesse amore, Allah hu!

E colui che guida la nostra ronda d’amore è

Più in alto del sole e dell’aurora…

                                         

                                          Gialâl ad–Dîn Rûmî

O con il Cantico…

«Altissimo, onnipotente, buon Signore,

tue sono le lodi, la gloria e l’onore e ogni benedizione».

Che tu sia lodato, o mio signore, insieme a tutte le creature,

specialmente messer fratello sole,

il quale è luce, e per il quale ci illumini.

Ed esso è bello e radioso per grande splendore:

di Te, o Altissimo, esso è immagine.

Che tu sia lodato, o mio signore per sorella luna e le stelle:

in cielo le hai create splendenti e preziose e belle…

Che tu sia lodato o mio signore per quelli che perdonano per il tuo amore

e sopportano infermità e tribolazione.

Beati quelli che sopportano ciò in pace

poiché da Te, o Altissimo, saranno incoronati.

Che tu sia lodato, o mio signore, per sorella nostra morte corporale,

alla quale nessun uomo vivente può sfuggire…

Lodate e benedite il mio signore, e ringraziatelo,

e servite a Lui con grande umiltà.

 

                                 San Francesco d’Assisi

 

…donarti le parole.

Uomini che si fecero creature e scoprirono l’arte con cui lodare Dio.

L’arte come cardine che sostiene le porte che aprono la cono­scenza della cultura dell’altro, dell’occhio e della sua lacrima, del sale del suo sorriso…


 

7 Luglio. Marrakech.

 

…Mohamed, guardano i miei passi il tragitto tra la folla, il di­scorso di chi si frequenta nella casa degli altri.

Gli Hôtel chiamano nelle loro sale le voci dei turisti, i viaggia­tori si siedono, si siedono e osservano i colori di danza per loro, di chi dice e racconta il proprio momento: l’incontrarli genera il gesto del saluto, il suono del narrarsi. Odo l’odore di donne rac­contate dal tempo, che dal tempo guardano il mondo. La città si forma, i suoi muri ricordano, dicono che c’è stato altro e ci sarà al­tro.

Mohamed la città prega, si racconta a Dio, il tempo si ferma, torna sacro e eterno; la preghiera dice e i luoghi parlano; Dio ascolta l’uomo in tutti i luoghi della terra.

Camminano i miei passi, colorano i quadri delle mie emozioni, l’arte dei racconti delle mie storie si offre all’ascolto dei passanti. Chiudo gli occhi ed ascolto il suono delle parole di un artigiano che contratta il prezzo del suo tempo; l’Occidente incontra l’Oriente e le loro memorie, dicono del tempo che ha incontrato le loro voci, lungo il cammino di una storia di vita.

Mohamed, accolgo chi mi vuol fare da guida dentro questo tempo, bastano pochi soldi e il tempo ti soccorre. Credono che sia diverso, di un altro posto, ascolto il suono della loro lingua e il suono mi rimane nelle orecchie e ti chiedo di tradurre quel che odo; di dirmi dove vogliono andare quelle parole. La mia mano sorregge il mio destino, la mia mano stringe altre mani, e il mio destino ne in­contra altri, do il mio tempo alla storia, la mia storia alla vita, la vita a se stessa. Volo lungo i sentieri, raccolgo i miei pensieri per capire dov’è la terra; nessuno all’infuori di se stesso può sentire la propria nudità. La “campana” che rintocca e che svela tutta la vita, mi dice che non vi è terra diversa sotto i piedi di un essere umano, che tutti i passi di un’intera era sono un passo per volta; un passo alla volta dentro il tempo dell’umanità.

Mohamed vorrei ritrovarmi dentro i sensi del mio corpo e se­guire con essi l’anima del mondo, vorrei vociare in giro che la vita ode i respiri dell’uomo, vorrei fecondare con il mio seme il tempo e spar­gere i suoi frutti nei luoghi. Parlami Mohamed della tua casa, bussa alle porte della mia; la fragranza del profumo di una “Donna” ci ridesti in armonia con i pensieri della vita.

Mohamed, il mio e il tuo mondo, il nostro universo, languisce per le angustie di chi ha fatto della vita una strategia.

Urliamo insieme e mangiamo il pane, cantiamo bevendo il tè, toccando le mani delle donne che lo hanno fatto, forse è solo il rac­conto dell’amore…


 

9 Luglio. l’Hamman.

 

…Profumano i vapori degli ‘stati’ di questo luogo, gridano in coro le mani che toccano il mio corpo; la nebbia dei vapori risve­glia la mia immaginazione, guardo il colore della carne, lo mostra il luogo con i suoi umori. Afferro un pensiero e mi ricordo dei giochi d’estate, quando stanco e felice mi sedevo in terra appog­giandomi a un muro. Chiudo gli occhi e lascio che i miei pensieri galleggino sulle acque delle riflessioni, della memoria e del fu­turo, mentre delle mani premono sulla mia pelle. Mohamed, l’hammam è un ristoro insolito, un luogo d’incontro che infrange gli specchi, dove le figure si ada­giano e ridestano, dove il tempo dura del proprio stato d’animo. Ho percorso la strada in mezzo alla gente, ed ora tra essa qui mi riposo e ascolto il mio cuore che batte, che infrange il silenzio del mio de­siderio.

Riporto i miei pensieri dove mi hanno lasciato e mi vedo nello sguardo di un altro. I vapori che tengono sospeso il calore, raccol­gono le parole e le adagiano nello spazio che la mente ha co­struito con ciò che immagina; accolgo il mio corpo e lo porto dove ora sto e ascolto il mio viso bagnato; ancora un po’, poi tor­nerò all’aria, di fuori…

 


Corpo

Corpo

del suo vestito

ho cercato il profumo

non più questo

che non ne aveva

Tu del tuo passeggiare ho cercato

Perché nessun per cercarti

che c’eri invano

Ma non averti mai


11 Luglio. Ciao Marrakech.

 

…Viaggio tra i posti di un bus, guardo i visi e le teste che vi­brano dei loro pensieri adagiati sul ritmo della strada, nel viaggio verso un paese che si apre ai miei sguardi interni, un paese che at­traversa se stesso — verso Sud — lasciando città e luoghi per rincon­trarli nel suono di altre città, che come momenti si affacciano alla mia co­scienza. Lasciare Marrakech, incontrarla e riviverla mentre da essa si va verso altri luoghi.

La città di Quarzazate, la aspetto nella strada che sto percorrendo, immerso nei visi della gente che viaggia con me in questo pullman.

Penso, penso agli anni che sono trascorsi da qualche giorno fa, ai ricordi che mi tornano in mente, al traffico e alla strada bagnata; penso anche al mare, al mare che vocia nella sua risacca, che mi racconta con il suo profumo, il mio luogo, il posto su cui pog­giano i miei piedi, ora che il pullman sta attraversando le monta­gne. Guardo il profilo, il profilo di una donna, “seduta un po’ più in là”, chiudo gli occhi e cerco di sentire il profumo del suo co­lore, il gesto dei suoi capelli; è così quando ci si sente accarezzati dal desiderio, nella speranza che la cosa più naturale del mondo si accorga di noi e ci faccia toccare il mondo, i pensieri e il cuore di un’altra persona. Ascolto il suono del mondo nella voce di un bambino che parla alla propria madre, chiudo gli occhi, non com­prendo il significato di quelle parole, ma il senso di quel suono, mi svela il posto nel mondo, di una madre e di suo figlio, il mondo di una famiglia, il ricordo di tutte le famiglie.

Durante le soste, accolgo i sorrisi e i gesti e dono i miei, comu­nico guardando alle emozioni e trovo quel che ho dentro, mi rammento di me e degli altri.

Quarzazate; sento i taxisti pronunciare i nomi di altre città, di luoghi che ’ti accarezzano, che “tornano” con nuovi suoni nelle tue orecchie: stai viaggiando e speri di essere un viaggiatore, stai at­traversando gli spazi del mondo a piedi nudi, con la polvere tra le dita.

Prendo la sacca e la tiro su in spalla, e cammino lasciandomi av­volgere dalla musica di questo posto, dal luogo che in esso rie­sco a capire; cammino tra la gente, mi fermo e osservo le mie scarpe, penso a come esse siano vicine ai granelli di polvere e le guardo, così im­polverate che sento il mio volto aprirsi in un sor­riso. Mi siedo in un caffè, distendo un po’ le gambe e mi sgranchi­sco, irrispettoso dei ca­noni della mia educazione. Apro la sacca e tiro fuori gli appunti che ho scritto fin qui; appunti del mio viag­gio. Seduto in un caffè, “scrivo”: Mangio, pane e pomodori, ali­menti adatti per un vegetariano come me, e mentre bevo il tè, penso al tempo, al mio tempo, con cui ho abbracciato questo paese, al mio ricordo sempre fre­sco dell’esperienza della mia co­scienza.

Ho colorato nella mia memoria la Casba, calpestato i tappeti; mercanteggiato i colori, acquistandone uno solo, uno soltanto per il mio ricordo, per ciò che hanno trascorso qui i miei passi.

 

Sono nell’hôtel consigliatomi dal viaggio. Questa notte sembra passare senza che il sonno giunga; sono sdraiato a letto, mi alzo e vado alla finestra, guardo fuori, passeggio nella stanza e torno a sdraiarmi sul letto.

Fatima mi raggiunge nei miei sogni, mi racconta dei suoi giorni, dell’acqua che raccoglie tra le sue mani, del tempo che scandisce l’origine dell’uomo, del suo affaccendarsi e custodire il mondo; dei suoi passi che portano il nutrimento al tempo, ciò che cambia il mondo. La donna chiama la propria libertà, la racconta al profumo dei fiori, alle ali di un uccello, al fruscio di un pen­siero che cresce dentro il suo cuore; la sapienza del suo ventre, nutre il rinnovarsi del mondo, deve accendere la luce dove un uomo può creare buio; scon­volgere la cultura con la mano della conoscenza. Fatima a te è affi­dato il compito di crescere il mondo della tua libertà, di conoscere il senso più profondo della cul­tura in cui vivi.

Mi sveglio con in bocca il sapore della notte, del mio sogno, e come per incanto la prima voce che odo svegliandomi è quella di una donna, la stessa voce che ha cantato nei miei sogni; mi sor­prendo nell’accorgermi di non aver sognato, ma di essere stato prima dove “sarò”, di trovarmi nel luogo ’dove i miei occhi chiusi avevano già visto. Lo stupore svanisce presto e questa mia perce­zione si trova su­bito immersa nel giorno che sto per incontrare e la sua voce si disto­glie da me insieme alle altre voci che mi giun­gono dalla strada; il mistero mi ha chiamato, lasciandomi in bocca il sapore di una donna.

Zagorà, Zagorà, viaggio sul taxi collettivo, verso Zagorà. Arrivo e il posto si appropria di me, mi trova diverso dai pensieri di ieri; il mio umore assorbe il grido di questo posto, il tempo scorre nello spazio vuoto della mia clessidra e dalla sua sabbia scopro il deserto.

— Cantano i tempi, gli spazi infiniti, il rossore del sole. Quell’immenso fluttuare di forme, mutevoli e infinitamente di­verse, ingannano l’occhio che non vi scorge limite, pensando che tutto sia uguale, fin nelle immagini del suo pensare.

Tutto si racchiude e tutto si apre, e dalla solitudine più forte può nascere quel che non si era mai pensato prima: anacoreta, o beduino, viandante dello spazio, più freddo e più caldo; sei solo, solo con l’altro che puoi incontrare, solo col tempo che si ferma inesorabile dove esso finisce. Dove la legge più spietata della so­pravvivenza può sconfiggere ogni anelito di umanità, ma dove la forza di un’u­manità può elevarsi a rappresentazione ultima di se stessa. Lì puoi incontrarti, lì trovare lo spazio che ti mancava e rovesciare il mondo della paura; lì dove le differenze si acuiscono fino a scompa­rire ed essere inutili, senza nessun illusorio perché. Occidente ed Oriente sotto lo stesso cielo inesorabile.

Il deserto così immenso, mi racconta la sua invisibilità, mi sof­fia nelle orecchie il mistero di un’intera esistenza, lasciandomi solo il respiro dopo un urlo infinito, il suono stentoreo della voce della pro­pria anima.

Continuo il viaggio, e attraverso i pensieri, i posti che parlano nelle mie riflessioni, e mi ricordo del cielo quando incontro la notte.

La notte è forte, forte come il mio desiderio; Mohamed dimmi quanti sono gli occhi che mi guardano da lassù, dov’è la stella che mi dirà chi sono, accendo uno strano desiderio ora che sono sotto que­sto cielo. Mi sento dove non sono mai stato prima, pieno di stupore e rappresento questo cielo dentro ogni mio ricordo. Si ap­presta nel mio cuore il desiderio di donare: dire che il mondo che i miei occhi guardano è mio, e “te” lo regalo; te lo re­galo come si dona ciò che è unico, come si lascia un ricordo e si li­bera un segreto, negli oc­chi di una donna, un cielo perso di stelle, un ricordo assoluto troppo grande da immaginare.

Mohamed, due esseri umani, seduti sotto una tenda, nella notte, parlano, ascoltando lo spazio che il deserto gli ha creato in­torno, attorno alle loro parole. Questi esseri parlano delle leggi ne­faste di ogni integralismo, in cui l’uomo vuole sostituirsi a Dio; del tempo che non vuole arricchirsi della comprensione; di una mano che non vuol dimenticare la propria debolezza, che si chiude nella paura, nel buio senza coscienza. Due esseri umani nel buio di una notte, nel deserto, possono capire chi sono e strin­gersi la mano, liberarsi dal re­spiro impaurito e abbandonare il ri­cordo della paura.

Sotto questo cielo una sola lacrima ha accarezzato la mia gota, è scivolata giù sul mio viso e, dal mio viso, come per miracolo si è persa nel vuoto, e poi, poi, ha bagnando la terra ed ho sentito den­tro me, “acuto,” il richiamo della vita.

— Apro gli occhi perché il giorno mi chiama, ma la memoria della notte è ancora dentro me, e so che la “sua” emozione mi ac­com­pagnerà per il resto del viaggio.


 

13 Luglio

 

Guardo il mio sorriso negli occhi di chi ho di fronte e cerco di co­municare, con gesti e sguardi il racconto del mio viaggio, chiedo dove andare, dove trovare le gole di Dadès.

Ho dormito durante il giorno, ed ora ch’è sera esco dall’ hôtel ed attendo una nuova notte, aspetto che le sue immagini, toc­chino le mie emozioni.

Cammino tra le gole; guardo il viso della notte e tocco con le dita il suo colore, lo af­ferro e lo porto in bocca; il suo sapore mi ri­corda le storie che avrei voluto mi fossero state narrate da una Donna; il sentimento che mi nasce dentro mi racconta dello stu­pore e dei respiri profondi. Guardarsi intorno e non vedere nes­suno. Trovarsi avvolti nel proprio mantello con gli occhi che si inumidiscono dall’emozione; vien vo­glia solo di camminare e re­spirare profondamente, sentirsi nella notte, tra le sue braccia.

Ricordo i passi trascorsi, i rivoli del tempo che tornano alla mia memoria, lo snidarsi di quel che si è sentito. È mattina! e mentre guardo la luce del giorno, afferro le cose che da essa i miei occhi prendono e guardo il mio proseguire, il mio viaggiare in questo viaggio; guardo un cammello che “passeggia” e attraverso con esso le oasi e i colori dei posti che mi incontrano. Un pastore mi guarda e senza sapere il perché, “misteriosamente” mi indica la strada; dove il mio guardo coglie il mio muoversi…


Momento per nessun cercato

e

del tuo corpo vestito

ho potuto afferrare che tu c’eri

Il corpo del profumo

invano cercarti

Ma non averti mai


 

15 Luglio.

 

Verso Nord, l’antica storia guarda “bianca” il nostro tempo; tra Fez e Meknes, la storia vortica misteriosamente nel pulsare dei mu­scoli di un cavallo, i berberi che mostrarono l’agitarsi dei loro im­pulsi, trovarono il tempo galoppando, spronando i loro cavalli, verso un tempo che doveva esser preso, sollevato, reso storia.

Fez città vociante con la sua medina; passo attraverso i “solchi” stretti, tra le case e mi viene quasi voglia di leccare questi muri, di trovare lo sguardo attraverso il mio sapore, e così allargare i vicoli ed aprire gli orizzonti; attraversare gli ambienti delle abitazioni ed entrare nelle anime dei loro abitanti. Di sedermi sulle loro sedie, di mangiare nei loro piatti, di dormire nei loro letti.

Attraversando questo ’posto sono preso da un senso impulsivo che mi spinge all’agire. Tocco tutto ciò che mi sfiora, guarda, ascolta, così mi sembra di placare la sete del mio stomaco. Una strana ansia gira intorno alla mia immagine, è come se avessi la voglia intensa di “sentire” l’estremo odore di un grido lacerante, un urlo che squarci lo spazio e il tempo, il rumore sordo che in questo istante sento den­tro.

Mi si affolla la mente di pensieri, il cuore di emozioni; guardo i miei piedi muoversi, su un terreno proclive all’agitarsi, seppur fermo nel suo estremo mondo temporale.

Finalmente, guardo il puzzo dei conciatori di pelli; lo respiro a pieni polmoni, quasi intossicandomi dei colori che osservo, mi viene quasi voglia di sporcarmi un po’ con loro, nel fango e nei colori, di­menticandomi chi fossero quegli animali, che io non volli mai ucci­dere. E con le mani imbrattate di colore, toccare, il gesto di qualcun altro. L’espressione del mio viso incontra lo sguardo di uno di questi conciatori; guardo una donna, con sotto il naso una foglia di menta, ne respira l’odore. Mi allontano da qui, devo sedermi e raccogliere un po’ i pensieri e ritrovare un ordine nelle mie emozioni.

Mi siedo su un muro basso, nei pressi di una casa; vicino a me c’è una donna europea che sta dialogando con una persona an­ziana, del luogo. Chiedo a lei di cosa le sta parlando, quell’uomo. È una signora francese, di origine algerina, e che per mia fortuna parla molto bene l’italiano. Mi dice che quel signore le stava rac­contando dei Merinidi o Marinidi di Fez — non ho ca­pito bene, ma non m’importa — che dal XIII al XVI sec. svolsero qui attività di costrut­tori, arricchirono Fez dei loro palazzi; costoro, qui, eres­sero numerosi seminari, medersah, e in par­ticolare BU–Inaniyyah, in cui si guarda il rin­corrersi degli archi, il movimento verso l’alto dei leggeri pilastri; alte arcuate e l’equili­brio dell’insieme di piastrelle di ceramica, le­gno scolpito e stucchi colorati. Saluto la signora e faccio un gesto per far capire all’uomo che lo ringrazio: un leggero inchino ac­compagnato da un sorriso. Un ricordo ed è già memoria.

Moulay Idriss, la guardo un po’, ma non sono convinto, del perché un non mussulmano non possa entrarvi…


L’ho vestito

il profumo

Guardato del suo corpo

e

non aveva sentito che tu c’eri

Il corpo mio

non vestito

non più di un lembo

tra questo momento

cercato

ma non averti mai


 

18 Luglio.

 

Nord, verso Nord, sull’altipiano, tra le montagne del Rif. Viaggio, incontro percorro, affronto lo stato delle cose che mi acca­dono intorno, dentro, attraverso ciò che guardo; mi racconto den­tro il tempo e lo spazio, misurabile attraverso i miei respiri. Guardo gli occhi di un bambino che mi ha fermato per vendermi qualcosa, ma non rammento a cosa possano servirmi, o non, le cose che mi mostra.

Viaggio avvolto dai colori che mi scuotono dentro, ma che fuori mi lasciano in uno strano stato di rilassatezza; forse è sem­plice stanchezza, dovuta al caldo e al fatto che non ho dormito benis­simo; ma mi piace pensare che questo stato della mia consa­pevo­lezza sia dettato dal vento puro degli eventi, che fanno pre­sagire la sensazione di ciò che forse accadrà.

Odo il nome dei posti, delle città che sto attraversando, guar­dando le abitazioni e i colori di cui sono rivestite, e i nomi di que­sti luoghi mi danno le parole per pensare alla mie emozioni. Me le rac­conto pensando a me stesso che solitario viaggio per un Marocco in cui non sono che un passante osservato. Leggo i luo­ghi sulla cartine che mi porto dietro, ma su cui non ho tracciato nessuna “strada”, e poi li guardo con i miei occhi, man mano che li incontro.

Giunto a Rabat, mi fermo su un terrazzino dipinto di blu. Respiro tranquillamente mentre bevo il mio tè e qui lascio che i miei pensieri attraversino quest’aria, che ritornino sui passi che ho già fatto in questo viaggio.

Sono partito diversi giorni fa, con dentro il vivo desiderio di ab­bandonare qualcosa che mi teneva troppo attaccato al suolo; un sistema dove il sentirsi viene soffocato da sovrastrutture bloc­cando l’energia che fluisce liberamente nella vita, e crea dentro ogni esistenza il senso stesso del volere vivere; un mondo che nella sua possibile bellezza ha perso l’energia dell’ignoto che può diventare conoscenza; del mistero ch’è certezza, che dalla vita può nascere altrettanta vita. Un mondo stupida­mente razionale, che ha abbandonato il piacere di stupirsi nel rac­conto di chi si incontra. Ora sono qui su questo terrazzino e mi approprio della possibilità che gli schemi che ci portiamo dentro possano evolversi e non sclerotizzare la vita; l’incontro tra spazi diversi, pensieri così lontani, ma così vicini, tanto da essere den­tro lo stesso scrigno — l’essere umano — può generare una scatu­rigine verso la comprensione, e una crescita reciproca della cul­tura che ci portiamo dentro, fino all’aprirsi alla scoperta di quel che non conosciamo in noi stessi.

Riprendo il viaggio.

 

Casablanca, toccano i miei piedi quando cammino pensando. Casà che eccita la mia fantasia, che guarda il suo sentirsi eteroge­nea, passato e presente, tra Occidente e Oriente, dove il ricordo si ri­forma nella mente, nei suoi spazi infiniti. La metropoli un po’ puz­zolente e variegata, colorata e bianca, puttana e santa, vecchia e nuova.

Casablanca che sta in mezzo a ciò che ho immaginato, in un mondo che mostra le sue sfaccettature agli occhi sorpresi di un estraneo. Casà guarda i bambini che respirano la colla e sente la sua coscienza straziarsi. Casà balla tutta la notte, fa festa con i ru­mori dei suoi altri.

Casà raccoglie le vite nei suoi gridi e nei suoi colori, ed io sento pulsare intorno a me un cuore che non è più solo; lo ascolto nel fruscio degli abiti che mi passano accanto, nell’odore che sento chiudendo gli occhi; così tra la gente, rimango in attesa che qual­cuno mi dica qualcosa, lì fermo tra la gente che passa, ed io così passeggio con i loro passi, con l’odore che ascolto delle donne che mi passano af­fianco; le trovo tutte lì le mie emozioni, quando riapro gli occhi e forse un po’ del ’tempo non è passato senza mo­tivo, non è passato senza chi io non mi sia accorto di lui.

Casà mi ridesta la mattina con le sue voci, mi porta i sogni della notte, e mi tiene con i miei piedi che sfiorano la pelle della terra…

 

…Ora mi sono fermato, leggo i miei appunti, qui, ap­poggiato ad un muro, colgo con la mia mente i miei passi tra questi luoghi: la mia curiosa gioia, la mia sorpresa tristezza, la malinconia dolce che può darti un te­nero abbraccio; sono qui entusiasta di capire, sentire dentro me l’immaginazione, di emozionarmi ad ogni respiro. Mi sento per­plesso e certo, contento e altrove; dentro di me, in uno spazio della mia vita dove conoscere la vita. Mi sento quel che chiedo sulla pelle delle mie labbra…

Infilo i miei appunti nella sacca e prendo a camminare, la­sciandomi alle spalle i ricordi. Sono preso dal forte impulso di toccare quel che ho intorno; tocco i muri, il suolo, il metallo dei pali stradali, la plastica; ma vorrei toccare queste persone, forse estranei, accarezzare il colore degli occhi di queste donne, baciare le loro bocche; il desiderio mi sorprende a Casablanca, il desiderio di amare una donna che respira l’aria di questo Oriente. Raccolgo questa mia emozione e non la dimentico.

Ciao Casà.


 

23 Luglio. Il Mare Atlantico.

 

IL mare profuma, il mare mi respira dentro il cuore, il mare è l’altrove che non ci abbandona mai. IL mare è casa; dinnanzi al mare in qualsiasi posto è sempre lo stesso mare, lo stesso sentirsi in un luogo vicino al mondo.

Raccolgo i pensieri, mentre guardo il mare e abbandono ogni luogo che ho intorno; sento tranquillo che la mia solitudine si nutre, dell’armonica immagine dell’anima che ho dentro; guardo il mare che mi osserva e mi culla, che mi scuote e mi rincuora.

Azilal

El Jadida

Safi.

Il mare mi fa sentire la storia che ho dentro, il respiro che non mi manca. Il mare guarda gli uomini e non pensa al perdono, ne acuisce la povertà e ne esalta la libertà. Mentre guardo il mare ascolto i suoni degli uomini, osservo il camminare delle donne e desidero che le loro mani mi offrano un pugno di acqua salata.

Essaouira

mi soffia dentro il corpo, la violenza di un mare che grida, che urla con il suo vento impetuoso il cupo suono della vita, il ri­scatto stesso della sua immagine. Gli uomini scolpiscono il gesto della fa­tica e forte il sibilo del vento nelle mie orecchie grida la loro vita. Ho ascoltato le parole degli uomini che ’ti sono amici, i racconti delle loro giornate, e nella voce che gridava tra il vento ho sentito le loro storie.

Le storie raccontate dove c’è il mare sono la storia dell’uomo.

Nella sera silenziosa, nel suono del mare di Essaouira, mi ven­gono in mente i versi di Baudelaire.

 

Uomo libero, tu amerai sempre il mare!

Esso è il tuo specchio; tu contempli la tua essenza

nell’infinito svolgersi dell’ondosa violenza,

e la tua mente è un baratro certo non meno amaro.

 

A te piace tuffarti in seno alla tua immagine;

l’avvicini con lo sguardo e col braccio, e il tuo cuore

talora si distrae dal suo stesso rumore

al lamento dell’aspra e indomita voragine.

 

Entrambi siete, a un tempo, tenebrosi e discreti:

Uomo, il fondo dei tuoi abissi è insondabile;

Mare, ogni tua ricchezza è inimmaginabile,

tanto siete gelosi di quei vostri segreti.

 

Ma da secoli e secoli, in lotte formidabili

vi combattete senza rimorso ne pietà,

tanto amate la morte ed ogni atrocità,

o lottatori eterni, o fratelli implacabili!


 

25 Luglio. Le montagne dell’Atlante.

 

L’Atlante mi guarda, dentro le linee dei miei occhi; sospende i battiti del mio cuore tra un respiro e l’altro. Mi aspetto ascoltando i miei passi che parlano al mio corpo.

Qui sento un profumo, che mi ricorda una persona, un altro tempo e luogo; e canto dentro di me la canzone che non conosco; capisco, qui, i miei pensieri pensati da qualcun altro e le parole della canzone mi appaiono in tutta la loro realtà. È bastato un sa­luto, il gesto di un saluto, per tornare dove le mie tracce avevano smesso di ricordarsi, e vivida dentro di me è tornata un’emozione che pensavo di avere perso per sempre; è tornato un posto, un luogo, una persona, che non sognavo più.

Mi “sento” dove avrei dovuto essere tanto tempo fa. L’Atlante.


Passeggiare

e non c’eri

Vestito del profumo

del corpo

invano ho cercato

il mio corpo

Non ne aveva

Del lembo afferrare

il cercarti

Ma non averti mai


 

27 Luglio 1973

 

Cara M, sono seduto in un caffè, in questa terra che ci os­serva, in questo luogo d’incontri. Mentre porto la tazza di tè, verso le mie labbra e aspetto che il liquido scenda giù nell’esofago e rag­giunga lo stomaco, penso alla lettera che ti sto scrivendo, a ciò che ti susciterà il suono delle parole, che ascolterai, quando le leggerai.

In questo luogo mi sei venuta in mente tu, ho pensato ai nostri incontri e alle passeggiate che facciamo insieme. Quando riceverai questa lettera so che sarai sorpresa; non ti ho detto nulla della mia partenza, non ho detto niente a nessuno, forse non ne avevo la forza, troppe spiegazioni; ma credo che quando tornerò dovrò spiegarti, raccontarti.

Sono qui in questa terra che ti è così cara e penso a me stesso, al mio sentirmi in un luogo. Quante volte mi hai raccontato dei tuoi viaggi in Marocco, quante volte mi hai invitato a venire con te. Sono venuto solo, con nessuno, ed ho aspettato di sentire che il luogo da cui sono partito mi si mostrasse attraverso una mia nuova esperienza, ed ho scelto te per dirlo a qualcuno. Mi sono chiesto spesso cosa fosse per te la nostra amicizia e quali siano le cose che ci fanno comunicare. Siamo in un tempo estre­mamente faticoso, faticoso in ogni suo gesto, in ogni sua presenza. Dico questo perché sto pensando a quando sia diventato difficile poter comunicare con se stessi, e quando ancora di più sia diffi­cile raccontarsi, narrarsi agli altri, senza doversi difendere dalle aggressioni improvvise che ci sorprendono senza difese. È diven­tato così incerto il mondo di ognuno, che incontrare una persona che viva serenamente il proprio stato è cosa rara. Tutti sono pronti per vincere la partita contro l’avversario anonimo della propria paura; non sanno con chi realmente lottare, l’avversario è la spasmodica ricerca della propria affermazione; tutti contro tutti, per vincere sull’altro, che è diventato avversario anonimo, non conosciuto, come le proprie coscienze. Non importa se le vittorie siano vittorie di Pirro, o peggio stupidi giochi di vanità; l’impor­tante è esserci, non importa dove, ma esserci, non importa come. L’uomo ha smarrito il senso oggettivo dei valori, e con esso il senso reale della propria finitezza. Non vi è più nessun atto di co­raggio, tutto persegue l’affrancamento dalla paura nell’immedia­tezza di un’illusione. Spesso scherzando cara M ci siamo ac­cesi in discussioni sulle cause del perché gli uomini e le donne non si raggiungono, se non molto raramente nella loro dimen­sione più alta, in quel coraggio che dà la capacità di trasformare il mondo. Gli esseri umani, antepongono alle scelte, l’appagamento delle proprie insicurezze, che nel rapporto di coppia sfocia in pa­radossali sublimazioni; ma la cosa più triste di ciò, è che ormai tutto appartiene ad un determinismo falsamente anticonformista, nell’irresponsabilità della ragionevolezza, lontano dal sentirsi re­sponsabili di ciò ch’è vero.

Ed ora sono qui in Marocco a camminare, a ricordare e dimen­ticare, trovare e perdere; vicino a quel che guardo quando non ho più voglia di capire, quando anche il respiro mi trova libero. Se per ipotesi io non esistessi, o esistessi ma in un mondo parallelo a questo — un mondo lontano da quello che sto, stiamo vivendo— se quel che io sto dicendo e pensando avesse un senso e signifi­cato, diverso, forse superiore da quel che ora, solo ora, riesco a comprendere. Chi sarei io? Io che già esisto qui e in un altro mondo; e quel che sono non è forse solo il riflesso di ciò che ap­partiene al mondo parallelo a questo; la comprensione di ciò, non appartiene già, forse, ad un altro spazio e tempo. Sto esistendo at­traverso tutta l’eternità, e in me già c’è ciò che dovrà esistere, un mondo unico che parla nei suoi episodi spazio temporali, nar­rando a margine di una pagina lo spazio bianco ch’è scritto in un mondo parallelo, in un altro episodio spazio temporale dell’in­tero tempo del mondo. Cara M, dove ti trovi tu, ora, se non in me e fuori di me, in te e fuori di te.

Accade a volte, che quando lo spazio tempo diventa uno, tutto se stesso, tutto il mondo, ogni mondo parallelo annulla se stesso,  nella paura, e nell’episodio cade nell’incomunicabilità della non percezione, nel buio immenso della cecità; e in questo rifiuto, il mondo e l’intero spazio tempo diventano “un unico fantasma invisibile”, parallelo a se stesso; e l’intera esistenza si trasforma da mondo pa­rallelo a un altro mondo, un mondo che non è più conosciuto e non conosce più il mondo. Il mondo che è già esistito torna ad esistere in mondi paralleli che non esistono; dove tutto è già esistito, niente esiste, fuorché la fede che lo spazio e il tempo, un giorno non esistano più e si trasformino in ciò che noi ancora non sap­piamo di essere.

M sono ancora seduto qui, in un caffè e ti sto scrivendo, da un luogo: il Marocco, e un tempo, quello della mia vita.

L’altro giorno, leggendo un libro sul Marocco, ho letto dell’Alìd, la festa del montone; quel che accade al montone, come sai non è molto piacevole; comunque questo rito, con quello del Ramadan è molto importante per i mussulmani. Cara M ti dico subito, che se un giorno mi capitasse di po­ter assistere a que­sto evento, non  lo farò; il mio amore per la cono­scenza, forse do­vrebbe darmi un motivo valido per parteciparvi. Sai, e non c’è bisogno che ti spieghi, che non dipende affatto dal mio essere vegetariano; non mi turbo delle scelte altrui; quanto di ciò che dentro di me suscita il pensiero e la percezione del rito; non posso non attendermi da esso la possibilità di sentirmi ac­colto dall’assoluto, di sentirmi compreso, nel riconcigliarmi con esso. Le profondità di un gesto simbolico vanno comprese ed ac­cet­tate, ben oltre il nostro possibile giudicare — il sentire della divi­nità è incommensurabile. Sento il bisogno di sentirmi accolto, accettato dalla cultura che incontro. Questa esi­genza è tutta mia, ma nel cammino verso la comprensione dell’altro deve esserci anche lo spazio, per essere capiti; e questo pic­colo atto dimo­strativo, forse più per la mia individualità, che per altro, mi fa sentire che sono libero di scegliere, di sentire; libero di non condividere pur ac­cettando e ca­pendo. Pensando a Dio, non posso non pensare all’oggettività dell’esistenza; e in que­sto constatare che il rapporto umano con l’oggettività è rappre­sentato dal suo essere soggettivo. Quando due persone parlano di Dio — dell’oggettività — con la propria soggettività, in questo strano con­fronto spesso succede che queste soggettività che si scrutano, non si capiscano, ma per para­dosso presumano di capire l’oggetti­vità. In realtà l’unica possibi­lità che hanno è quella di capire che ognuna delle loro soggettività è parte dell’oggettività, e in rap­porto ad essa, poter individuare la propria peculiare condizione soggettiva, accettandola e non suben­dola; è l’atto di coraggio più semplice e forte allo stesso tempo che può compiere un essere umano. Stando qui e bevendo il mio tè, ri­penso ad un incontro che ho avuto poco prima di partire, con Giordano una per­sona che mi di­ceva di essere atea; parlando con lui, M, mi vennero fuori alcuni pen­sieri interessanti:

 

“…Ateo, Cristiano, Mussulmano, ogni sentirsi umano ha una cruenta rappresentazione della propria soggettività, nel confronto con la morte; e tu come ti poni da ateo nei confronti di questa di­men­sione, c’è poi molta differenza tra me e te? La morte è tutta la cer­tezza e l’incertezza di cui dispone l’essere umano.

La morte è l’unico confronto sempre presente; ha vari livelli all’interno dell’essere.

Il confronto con la morte è l’unica possibilità che la soggettività dell’individuo ha, per capire i suoi limiti e così confrontarsi con l’oggettività.

La morte è l’unico ente innegabile, negare la morte equivale ad affermarla.

La morte va accettata, non affermata. Accettarla significa “portarla” nella sua dimensione naturale, all’interno del processo vitale.

La salvaguardia naturale della vita degenera con la “paura” di morire, che crea la scissione artificiosa tra la vita e la morte; un assurdo antagonismo. La vita non accetta più la morte, l’uomo pensa di essere immortale, e porta nella vita que­st’il­lusione.

“Giordano” sappi che tra un ateo e un cristiano, non vi è nes­suna differenza: entrambi debbono confrontarsi con l’oggettività della morte; “ma noi siamo veramente cristiani o atei? Da cri­stiano, voglio comunicarti parte del mio pensiero con la frase di un ateo: “Morte ripugnante. La storia degli uomini è la sto­ria dei miti con i quali essi hanno nascosto questa realtà. Negli ul­timi due secoli la scomparsa dei miti tradizionali ha sconvolto la storia, perché la morte è divenuta priva di speranza. E tuttavia non può esistere ve­rità umana senza l’accettazione della morte priva di speranza. Ciò significa accettare il limite, non in una cieca rassegnazione, ma in una tensione dell’intera persona che coin­cide con l’equilibrio…”

 

Cara M, sono qui, che ti racconto queste cose, ti cito “Camus”; in realtà volevo solo inviarti i miei saluti, dirti che il mio viaggio è molto interessante e che sono felice di pensarti. Le possibilità di elaborazione perché le culture si incontrino sono molte, basta che lo vogliano.

In questo momento sto osservando una donna ch’è seduta vi­cina al mio tavolo, e spero che i miei occhi incontrino i suoi, è molto bella, ha i disegni dell’henné dipinti sul suo corpo — e l’osservo guardando i suoi gesti, scoprendo a me stesso la mia curiosità. È armonica nei movimenti e immagino i suoi pensieri che sorridono, M mi piacerebbe amarla.

 

                                          A presto P


 

30 Luglio. Jasmine

 

Guardo i tuoi occhi e mi accorgo che penetrano le mie sensa­zioni, il ricordo e il mio desiderio. Ho sentito vicino il tuo cuore, respirato il suo battito e mi sono accorto dove fossi quando tu mi hai incon­trato. Mi sono guardato dentro pensando al tempo che passava, e ti ho desiderata; ora sono qui nella tua casa, dove stavo non vi era po­sto; tra le tue braccia, nei nostri baci. Mi sento felice nel guardare il tuo corpo nudo, di sentire la mia pelle sulla tua pelle; di accarez­zare le linee dell’immaginazione, sfiorando di baci le tue forme. Odo sulla mia lingua il tuo sapore più intimo riem­pirmi i pensieri, ascolto la tua voce riempirsi di suono. Le tue ca­rezze mi parlano di me, svelano i miei passi; dentro di te mi acco­glie il mondo, final­mente siamo lì e lo tocchiamo, afferriamo, re­spiriamo. Il mondo non è più un estraneo, è in quest’istante, in questo posto dove noi ci amiamo. Mentre ti bacio respiro il tuo re­spiro, sento il suo calore che riempie i miei polmoni, che mi colma di gioia, che mi ama. L’amore quell’afflato che ci fa sentire capiti dal mondo. Mentre ti abbraccio sento il suono del tuo re­spiro parlarmi, ed io ti adoro, ho bisogno di adorarti, di capirti, di ascoltare quel che mi dici, di sentirti. Guardo nei tuoi occhi lo spa­zio che ci circonda, e ripenso allo strano disorientamento che ho provato nel sentire che ti appartenevo, mentre tu sentivi il mio sapore. Credo che non bastino le parole per “raccontarti”, è forte il tuo presente, e non so dirti più cosa è stato prima. Cammino in ogni tuo bacio, in ogni tua carezza, in ogni tuo sguardo e mi trovo nel mondo mentre ascolto i desideri di una fan­ciulla deliziosa che mi ricorda che il profumo non è un odore, ma il ricordo sottile della propria coscienza, che tocca ciò che lo sguardo accoglie sem­plicemente sentendo quel che dagli occhi cade: l’umi­diccio di una lacrima sulla mia gota, che mi annuncia il gesto della tua voce contenta. Appoggio la mia testa sul tuo cuore, e lascio che quella lacrima piena di gioia, accarezzi il tuo seno, Jasmine.


 

2 Agosto. Il Ritorno.

 

Cammino, passo dopo passo, lungo il ciglio della strada, con la sacca in spalla; mi volto e poi torno a guardare avanti, sento il caldo del sole e la carezza dell’aria. Aspetto un istante, prima di pensare a domani. Sto camminando verso il ritorno, ma forse è un’il­lusione non si torna dove si dovrà andare. Sto sui miei passi, sulla terra che calpesto. Ogni mio giorno è un mio giorno, il mio viaggio.

Raccolgo tutti i pensieri che ho lasciato lungo la strada, ricor­dandomi delle emozioni che ho scoperto. È un mondo che non sopporta lacrime, che piange soltanto quando è costretto a vedersi. La stabilità di un mondo apparentemente naturale, lascia agli eventi l’abitudine ad una quotidianità perennemente ragione­vole. Troppe volte quando la verità ci si mostra cadiamo al suolo disperati, quasi sconfitti — se fosse possibile ciò — e ci rammentiamo allora di tutto quello che la nostra precaria e superficiale cono­scenza spesso considera inutile, ai fini di una regolare vita; e nella singolare scoperta della realtà che ci siamo costruiti vediamo tutta la nostra marginalità, nell’esistenza di un mondo che può esistere, forse, anche senza di noi.

 


Perché cercarti invano

del corpo aveva il profumo

Del suo

del mio momento

cercato

Ma non averti mai


                               LA PAUSA

 

 

 

M è seduta sulla poltrona che P ha nello studio, osserva la libreria ed ha il manoscritto appoggiato sulle gambe, pensa alla mattina, al tempo ch’è passato da quando si sono detti buongiorno. Si alza, si avvicina alla scrivania e vi posa il manoscritto; poi esce dallo studio chiudendosi lentamente la porta alle spalle


      

cercarti

ma non averti mai


                                   LA SERA

 

 

 

P guarda le macchine che percorrono la strada, la gente che torna a casa. È in macchina e sta attraversando le strade della città.

 

Mentre sale le scale di casa gli tornano in mente le cose che ha fatto quel giorno. Apre il portone ed entra in casa.

 

M si infila nel letto e si stringe a P

M — Come è andata oggi?

P — Bene… Sono stato da F e gli ho detto che non voglio vederlo più.

P avvicina il suo viso a quello di M e la bacia.

P — Questa mattina sono passato da A, ti bacia.

M — Ha telefonato G, gli ho dato il numero della casa editrice.

P — Ha chiamato, penso che questa volta lo rivedremo presto.

M resta in silenzio, sta per dire che ha letto il racconto sul Marocco. P avverte la sospensione dei pensieri, il sibilo nel silenzio.

P — Che c’è?

M — Oggi mentre stavo lavorando al tuo archivio ho trovato il racconto sul Marocco; non me ne hai mai parlato.

P — Volevo farlo.

M —  Mi è piaciuto molto.

M spegne la luce ch’è sul comodino.

M — Buonanotte.

P la bacia.

P — Buonanotte


 

Ho ascoltato invano questo momento   

non l’ho potuto afferrare

per nessun lembo del suo vestito

Ho cercato tra il profumo del suo corpo

e non ne aveva

Ho sentito che tu c’eri perché non c’eri più

Ho guardato passeggiare invano il mio corpo

cercarti

ma non averti mai

 

 

 

 

                          www.ilmanoscrittodipatriziomarozzi.it