Lola Blues, il libro di Einstein – Una narrativa tra l’invenzione e la documentazione, un libro di costume di media e realtà profonda al di là dell’episodio”. Un libro bellissimo e leggibilissimo, con un ritmo ispirato e veloce. (alla velocità della luce) Dove si ride, piange, sorride – dai più” punti di vista del “pensiero che guarda”, che inventa. Solo un libro.
Dell’’invenzione di questa realtà.
Ed è “puramente” casuale.
Aveva servito un’ora prima al cliente ora seduto nell’angolo del locale: una bottiglia di porto e un bicchiere, ma ancora quel bicchiere non era stato bagnato dal colore intenso del vino.
«Grazie!…” risponde il barman, al cliente che sta uscendo. «Salve!”
Un gruppo di persone entrano nel locale e il frastuono del loro ingresso si diffonde sulle persone sedute ai tavoli.
Il punto di vista relativo della luce. Ogni spazio tempo ha un suo punto di vista e ogni punto di vista spiega lo spazio tempo di ognuno. Se osserviamo la curvatura della luce da un nostro punto di osservazione, un altro punto di osservazione vedrà la forma del tempo in un altro tempo.
…L’uomo continua ad osservarla si fa catturare il pensiero dall’ansia di quel volo solitario, incomincia ad immaginare se stesso: solo davanti ai tasti della sua macchina da scrivere vagare con la stessa ansia, in cerca di un luogo dove posarsi, dove far terminare una frase.
La nostra velocità fa si che la velocità finita della luce determini il nostro spazio tempo relativo, la nostra contrazione temporale.
…Si avviano dal furgone verso l’ingresso del locale. È freddo, ma stasera Lot ha più freddo del solito, o forse come al solito. Lot è per la strada, sente tutta la sua mancanza, l’avverte nella fatica dei suoi passi; pensa a lei sola in casa. Ha voglia di sparire così senza far nulla, senza lasciare memoria della sua esistenza, ha un disperato bisogno d’amore, ma non riesce a dimenticarsi. — Ciao bar!
— Ciao Lolì! come va stasera?
— Vedremo lungo la notte che ciccia butta!
— Lolì!
— Elà Sciappi! vieni qua! fatti… com’è diventato il mio Sciappi!
— Tutto bene, Lolì, tutto bene.
Sciappi lavorava nel locale grazie a bar. Una sera era capitato in questo locale: vide bar che stava cercando di far desistere dal bere il padre, seduto senza equilibrio e che si aggrappava al banco.
- Be’ allora vieni domani sera alle sette e mezza. Bar Pronuncio questa frase che portò Sciappi a lavorare nel locale. Il tempo relativo di Bar coincise con quello di Sciappi, l’orologio determinò l’evento che sarebbe seguito.
Lo spazio tempo si era sincronizzato nel suo tempo relativo attraverso l’apparire della sua forma.
In quel periodo Sciappi aveva diciotto anni. Le sere Sciappi le trascorreva ad osservare la porta d’ingresso del locale, aveva paura di non vedere Lolì entrare, che non si accorgesse che lei era venuta.
Il salto nell’evento successivo porta la luce a dialogare con se stessa; la sua velocità è percepita variabile per effetto della variabilità relativa del punto di osservazione di un determinato spazio tempo nella struttura dello spazio tempo.
— Ehi! Sciappi!
Si volta nel sentirsi chiamare.
Salgono le scale scambiandosi alcune frasi, poi lei si ferma davanti al portone del suo appartamento, infila una mano nella borsa trova le chiavi e apre. Sciappi sente la sua lingua sulla lingua di lei. Lolì sente che lui e al culmine e gli si distende sopra. — Così, segui la mia mano.
La forma del tempo è determinata dalla dilatazione ultima della visione della velocità della luce; l’ipotesi del tunnel temporale è reale per la sua epistemologica confutazione: il passato non sarà mai il passato già vissuto.
— Cosa vuoi da bere Lolì? chiese Bar
— Dammi del porto!
— C’è un tizio che è arrivato all’inizio della sera, non c’era ancora nessuno nel locale, ha ordinato un’intera bottiglia di porto; ogni tanto l’osservo, ancora non l’ha neanche aperta.
— Sciappi va’ a vedere che vogliono a quel tavolo.
— Permesso! Sciappi si fa largo tra la folla, giunge al tavolo: Vi sono sedute cinque persone dall’abbigliamento alquanto personale, senza derogare nulla alla moda: un misto classico.
— Desiderate?
— …Non possiamo più lasciarlo immaginare, fa parte di uno di quei momenti nella storia delle persone e delle generazioni, dallo scarso possibile ritorno, come piace a me definirlo. Dice una delle persone seduta al tavolo, che ha osservato il cameriere attendere.
SORIO Cosa stavo dicendo?
SIARIA Dell’impossibilità di certi ritorni nell’esperienza dei fatti. Però non capisco se parli in generale, o di avvenimenti personali, della tua storia personale.
Tu mi sembri fermo al tuo passato, valuti tutto quello ch’è avvenuto dopo come l’espressione in positivo del vostro agire, in negativo tutto ciò che del vostro dire non è stato attuato. Dove cacchio stavate quando io ero felice; eravate a giocare con le mie possibilità, ve le siete fatte tutte quante, nell’ipocrisia di godervi tutto senza sapere nemmeno cosa: L’impegno, la realtà era ben altra.
SIARIA Però nel 68 c’era più solidarietà, i giovani erano impegnati, erano interessati a quel che gli avveniva intorno.
Può la luce in riferimento a se stessa superare il tempo eterno della sua legge fisica.
Negli ultimi tempi gli accadeva spesso di distrarsi dal suo presente, per ritrovarsi nei suoi ricordi, forse alla ricerca di un perché, del perché della sua vita.
Venerdì sera, sono appena tornato a casa dopo una serata al cineforum, ho visto l’undicesimo episodio di Heimat 2, che bello! Il dopo film è stato in sala da tè; con chi ero? Con persone che si “conoscono”
Nelle leggi della fisica può la luce avere come referente se stessa e cosi stabilire una relatività superiore?
Sono nella mia stanza, guardo i miei amici libri. (Tre giorni dopo le hai esibite nel tuo programma. Ho scoperto questa cosa del tutto casualmente. La facevo nella più assoluta inconsapevolezza, giacché non sapevo cosa realmente fosse: scoprii che mi masturbavo alcuni anni dopo parlando con un mio amico.
[…]Vedi è bene che tu sappia che quelle che a lui piacevano non erano quelle che piacevano a me. La sera: Eravamo in macchina nella mia scatola magica: Lui era già pronto; nel pomeriggio io lo avevo rifornito di tutte le energie immaginabili, non sapevo di cosa avesse bisogno e quindi abbondai in tutto: Iniziai con la cioccolata, un po’ di VoV e poi la bomba: uno Zabaione di tre uova e tanto, tanto zucchero. Io ero pronto a questa risposta; prima di uscire di casa: quatto quatto, da volpone ero andato nel negozio dei miei genitori e avevo trafugato materiale estremamente prezioso: Super profilattici, con doppia barriera spermicida.
Operazione infilaggio profilattico: tutto sommato niente male, il primo non voleva entrare lo avevo infilato al rovescio; e subito ero stato rimproverato da lui: “Non sei proprio alla mia altezza,” impaziente, non ce la faceva più e pieno di tutta l’energia di cui lo avevo caricato stava per esplodere. Io nel frattempo mi ero distratto, dal finestrino laterale della macchina vedevo in alto nel cielo la luna: bella, chiara che mi guardava e mi diceva: “Ma che stai a fa’?” “Ma! non so sai lui. Il mio lui era un tipo che aveva fatto tanta teoria e ora questo si dimostrava utile, fece come doveva fare e alla fine della sua esperienza aveva dato l’impressione che fosse un tipo navigato da mille battaglie.
Mi resi conto che ancora la mia scelta nella vita era alquanto incerta, come affrontare nella concretezza questa situazione. Dove ero capitato. Gli lascia il mio indirizzo e gli dissi di farmi avere notizie al più presto.
Nel disagio che avevo dentro avevo dimenticato di chiederle il suo indirizzo, lapsus freudiano, chissà, questo aumentò il mio stress; avevo paura che potesse fare qualche sciocchezza, cercai di rintracciare il suo indirizzo attraverso l’albergo, ma non vi riuscii. non seppi più nulla. Ero sorpreso dal suo essere, io ragazzo di provincia e lei che con i suoi sedici anni, che mi stupiva colla conoscenza che aveva del mondo, della sensualità… e poter parlare con lei così come a me è sempre piaciuto, senza falsi veli in diretta con le emozioni, vicino a ciò che si sente dentro, mi era sembrato incredibile.
La nostra comitiva era seduta davanti alla gelateria, si rideva e scherzava. Ci eravamo conosciuti la sera prima, presentati da comuni amici. Eravamo seduti su una sdraio, al mare e lei cercava le parole per dirmi che mi amava, io le risposi: “Come è possibile.” L’abbracciai e le dissi di non parlare.
Teneri abbracci, carezze: volevi fare all’amore.
— “Non so, credo che non posso.” Volli scoprire anch’io il profumo, il sapore della tua intimità. Non tornavo dove mi ero fermato, mi gettai lontano, trovai alcune parole e tante le tue emozioni ad accogliermi.
Le particelle che compongono la struttura della luce possono superare la velocità ultima della luce verso una relatività superiore? Punti di vista relativi dello forma dello spazio tempo che superino la dilatazione ultima dello spazio tempo della luce. I quanti possono dimostrarci che la velocità della luce rimane ultima, ma per percezione, relativa anche al di là della sua massima dilatazione? La luce è forse il punto di confine fisico tra due mondi paralleli che vivono con le stesse leggi? La dimostrazione di questo paradosso può forse dimostrarci la validità epistemologica della teoria della relatività? La “struttura ultima delle leggi della fisica?
Il tempo è passato.
Il ‘vero’ artista è unico, già prima della sua arte.
Nelle altre forme del fare non artistico c’è la capacità di saper reinterpretare mnemonicamente la scoperta del fare artistico, come già fatto, prodotto e quindi riproducibile. L’arte si compie nella sua irriproducibilità e nell’atto peculiare di ogni artista del sentirsi al suo limite soggettivo e nella scoperta oggettiva.
L’artista crea l’arte prima che l’arte sia scoperta.
Sono alcuni anni che non vado più in quella strada, la mia vita ha bisogno di altre strade; il mondo da quest’altra parte non è poi molto diverso, forse è peggio perché è più illusorio, la realtà è stravolta dai calcoli del puttanismo, che rende tutto finto senza vita vera, e là dove sembra che tutto sia vero, spesso vi è nascosto l’inganno più grosso quello della menzogna e dell’ipocrisia, quel male di rubare alla vita il suo senso con l’illusione che non accetta la realtà di non poter giudicare per capire. La menzogna di negare alla vita umana la sua dimensione naturale con l’inganno del sopravvivere. Guardo il cameriere, il barman e la donna seduta al bancone. Finisco il porto rimasto nel bicchiere; metto il pacco di fogli nella borsa insieme al computer, la matita nella tasca interna del mio giaccone. Mi alzo, raccolgo la borsa, mi avvio verso l’uscita passando tra i tavoli – guardo il cameriere, il barman e la donna seduta al bancone, per un attimo perdo il suono delle voci delle persone che parlano nel locale e sento la musica che proviene dagli altoparlanti alle spalle del barman; riconosco la canzone: Lola Blues.
Nella luce soffusa, nell’angolo di un locale aperto di notte: c’è un uomo seduto a un tavolo. Dinanzi a sé, sul tavolo, vi è un pacco di fogli, l’uomo ha nella mano destra una matita; una matita di quelle con la gomma per cancellare ad una estremità. Il suo guardare non si ferma a nessuno degli abitanti del locale: sono anonimi per lui, come lui per loro.
«Barman, un latte caldo con del cognac, per favore!»
Si odono queste parole pronunciate da un cliente sconosciuto appena entrato: seduto al banco ha ordinato un latte e osserva ora il Barman che lo prepara.
Il Barman è un tipo corpulento, robusto, ha una pancia tonda sorretta dalla cinta dei pantaloni: è pelato ma ha ancora dei capelli rossicci e ricci ai lati del cranio, le sopracciglia folte e, una faccia tonda e cordiale.
Aveva servito un’ora prima al cliente ora seduto nell’angolo del locale: una bottiglia di porto e un bicchiere, ma ancora quel bicchiere non era stato bagnato dal colore intenso del vino.
«Ecco a lei il latte!» Esclama il barman mentre appoggia con il braccio teso il bicchiere sul bancone.
Lo sconosciuto avvicina la zuccheriera al bicchiere e con la mano solleva il cucchiaino colmo di zucchero; alcuni piccoli granelli cadono sul banco prima di raggiungere il bicchiere. L’uomo seduto all’angolo prende nella mano il suo bicchiere, vuoto; osserva la mano tremolante dello sconosciuto che si affretta a mettere il secondo cucchiaino di zucchero nel suo latte. Lo zucchero per un attimo rimane sospeso sulla schiuma del latte, poi affonda; lo sconosciuto mescola frettolosamente e con l’ansia di chi non accetta di essere osservato inizia a bere.
«Ecco a lei.» Paga.
«Grazie!…” risponde il barman, al cliente che sta uscendo. Buona serata.»
«Sera!»
Uscendo avvolge con cura la sciarpa intorno al collo, nell’illusione di trattenere il benessere che il momentaneo calore della bevanda gli ha procurato.
«Salve!”
Un gruppo di persone entrano nel locale e il frastuono del loro ingresso si diffonde sulle persone sedute ai tavoli.
“Siamo il jazz che dovete ascoltare ’sta sera, chi è il proprietario!?» esclamano rivolti al barman.
«Siete i musicisti, be’! quello è il palco, portate lì gli strumenti e preparatevi. Il proprietario questa sera non c’è, qualsiasi cosa avete bisogno, rivolgetevi a me.» Questa è la risposta del barman.
Tutti si sono voltati per osservare quello che sta accadendo. Qualcuno assume un’aria incerta perché non riesce a capire; leggeri sguardi sospettosi che albeggiano dentro le persone, quando si trovano incerti su quel che succede loro intorno; quell’incertezza che è sempre presente, in agguato dentro ognuno di noi, attiva appena ci sentiamo scrutati da altri, nefasta perché ci impedisce d’abbandonarci tranquilli e sereni verso ciò che sentiamo - il bisogno di comunione e solidarietà con l’essere umano.
L’uomo seduto nell’angolo osserva uno dei musicisti aprire la porta, uscire dal locale e nell’istante prima che la porta torni chiusa, vede entrare nel locale un insetto: una mosca, che inizia a volteggiare sopra, tra le persone che parlano, la mosca si muove tra le loro parole e aggiunge brevi istanti di pausa ai loro dialoghi, (?) ogni volta che rapida passa loro dinanzi. L’uomo continua ad osservarla si fa catturare il pensiero dall’ansia di quel volo solitario, incomincia ad immaginare se stesso: solo davanti ai tasti della sua macchina da scrivere vagare con la stessa ansia, in cerca di un luogo dove posarsi, dove far terminare una frase. La mosca ha scelto il bicchiere di quel latte già bevuto; è sopra il bordo, inizia a scendere lentamente all’interno del bicchiere, è vicina al fondo dove c’è ancora un po’ di dolce, incauta la mosca cade nel latte inizia ad agitarsi, ma le sue ali si appesantiscono e dopo un po’ non riesce più a volare. Un cliente si avvicina al banco, proprio dov’è il bicchiere: lo guarda e si accorge della mosca che sta annegando nel latte; resta lì ad osservare quell’essere che annaspa e fatica; la mosca è quasi riuscita a tirarsi fuori, il cliente solleva il bicchiere, lo reclina per far scorrere il latte verso il lato opposto alla mosca - il latte scorre lontano, ora la mosca è salva; il cliente l’osserva e pensa tra se una cosa, un suo ricordo, un dolore. Mentalmente conta fino a dieci, la mosca è ancora lì ma non riesce a volare, il cliente reclina nuovamente il bicchiere, questa volta dal lato dove è la mosca, che torna ad annegare. L’uomo seduto all’angolo ha osservato tutto, nell’attimo in cui ha capito che nella mente del cliente si determinava quella scelta, avrebbe voluto urlare di no! di non farlo, alzarsi in piedi, ma poi ha pensato che anch’egli è un cliente e null’altro, che non ha nessun dovere di interferire con le scelte degli altri clienti. Il barman prende il bicchiere e lo sciacqua, la mosca scende giù nello scarico — è morta quando ha dimenticato che sapeva volare, in quel momento non c’era già più tempo per salvarla: incauta.
«Ehi barman, non c’è nessuno che può venire ad aiutarci a scaricare l’amplificazione!?»
«Sciappi, vai tu! e di’ a questi di sbrigarsi.»
«O.K.!»
«Cos’è che devo prendere?»
«Ehi ragazzo prendi questo… aspetta fatti aiutare… Lot aiuta il ragazzo.»
Lot si strofina le mani per scaldarle, prima di sollevare insieme al ragazzo la cassa acustica.
«Forza andiamo.» Dice Lot al ragazzo. Si avviano dal furgone verso l’ingresso del locale. È freddo, ma stasera Lot ha più freddo del solito, o forse come al solito. È uscito di casa con la figlia che aveva la febbre alta, pensa alla sua compagna che gli chiedeva di non uscire, di restare con lei quella sera.
«Ma come faccio, sai bene che se non suono non mangiamo e questa settimana abbiamo solo questa serata.»
«Resta! …Lo so, ma stasera resta ci stringiamo tutti e tre nel letto, ho bisogno di calore umano, di sentirmi meno sola, ho bisogno di pensare che per un momento tutto è lontano, che siamo qui insieme e questo istante nessuno ce lo può rubare; sentire di nuovo il momento di quando tutto è stato.»
«Ti senti stanca! Non riusciamo più a capire il perché dell’angoscia che sentiamo dentro, è diventato così faticoso tenere vivo l’entusiasmo, la gioia, non solo... Anch’io vorrei dimenticare questo freddo, ma appena vi provo sento le lacrime e tutta la tristezza, perché?!»
Lei capisce che non sarebbe restato, ma non ha la forza di ribellarsi, sente solo straziarsi dentro, nella fatica del respiro e non sa come trovare la forza per rinunciare a sentire senza più deroghe, pensa tra sé a come reagirà il suo corpo, all’acuirsi della sofferenza. Lot è per la strada, sente tutta la sua mancanza, l’avverte nella fatica dei suoi passi; pensa a lei sola in casa. Ha voglia di sparire così senza far nulla, senza lasciare memoria della sua esistenza, ha un disperato bisogno d’amore, ma non riesce a dimenticarsi. Pensa a questa sera quando dovrà alzare le bacchette della batteria e sente il respiro diventargli faticoso, ma cercherà di “scordare e suonerà.
Mentre i musicisti stanno sistemando la strumentazione sul palco, il barman si volta verso la porta d’ingresso del locale, vede entrare una donna alta con i capelli ondulati, lunghi fino sulle spalle: gli occhi blu.
— Ciao bar!
— Ciao Lolì! come va stasera?
— Vedremo lungo la notte che ciccia butta!
— Lolì!
— Elà Sciappi! vieni qua! fatti… com’è diventato il mio Sciappi!
— Tutto bene, Lolì, tutto bene. Disse Sciappi con un velo di tristezza.
— Spero che tu non l’abbia più con me. È andata così… è vita. Tuo padre come sta?
— Sta! Come vuoi che stia, almeno ora non beve più, racimola qualche soldo con dei piccoli lavoretti, qua e là.
Sciappi lavorava nel locale grazie a bar. Una sera come gli succedeva spesso, da quando era morta la mamma, era fuori per i locali della notte alla ricerca del padre; nell’ansia di quelle passeggiate notturne sperava dentro di sé di non trovarlo, di ritrovarlo a casa quando sarebbe tornato. Invece lo incontrava nei locali che litigava con chiunque e zuppo di alcol. Una sera era capitato in questo locale: vide bar che stava cercando di far desistere dal bere il padre, seduto senza equilibrio e che si aggrappava al banco. Sciappi si avvicinò ai due: — Pa’ è tardi vieni via! Il padre si voltò,
— Ehi figlio di’ a questo stronzo che ho bisogno di bere, che mi serve per dormire, che non posso più ricordare.
— Dai Pa’ andiamo a casa che c’è il tuo letto e lì potrai dormire senza che nessuno ti disturbi.
— Anche io sono contro di me, tutti sono nemici di tutti. Disse il padre
Sciappi chiese quanto c’era da pagare, mise sul tavolo tutto quello che aveva in tasca e chiese al Barman se per cortesia di quel che mancava poteva fargli credito per alcuni giorni. Prese il padre e lasciò che gli si appoggiasse addosso e si incamminò verso l’uscita. Bar era ormai un uomo solo, aveva perso la moglie da tempo che non se ne ricordava neanche, disse: — Ehi ragazzo, come ti chiami?
Sciappi voltatosi con il padre mezzo addormentato che gli si appoggiava, rispose: — Sciappi!
— Ti andrebbe di lavorare qui! per incominciare non prenderesti molto, ma poi se imparerai…
Sciappi fu colto di sorpresa, ma rispose sì.
— Be’ allora vieni domani sera alle sette e mezza.
In quel periodo Sciappi aveva diciotto anni. Un anno più tardi incontrò Lolì.
Era seduta ad un tavolo, era la prima volta che veniva in quel locale, tutta la sera era stata servita da Sciappi, e Sciappi anche quando era impegnato agli altri tavoli cercava sempre di trovare un momento per guardarla e dovunque si trovasse, da qualsiasi angolazione la guardava: le sembrava sempre più bella, ma quello che lo affascinava di più era il modo in cui si muoveva: come muoveva le mani le articolazioni dei polsi, la posizione che assumevano le sue caviglie quando accavallava le gambe sotto il tavolo. Quando la sera finì il lavoro e il locale stava per chiudere, lei si alzò, pagò, mentre appoggiava i soldi sul tavolo rimase un attimo interdetta, alzò il volto guardò in direzione di Sciappi che la stava osservando, ma che come incrocio il suo sguardo fece finta di fare altre cose; lei riprese dei soldi dal tavolo e se ne andò. Quando Sciappi la vide uscire, desiderava correrle dietro, aveva troppa paura, troppa paura di non rivederla più.
Le sere Sciappi le trascorreva ad osservare la porta d’ingresso del locale, aveva paura di non vederla entrare che non si accorgesse che lei era venuta. Per alcune sere lei non venne, poi la vide entrare, era ormai tardi e il locale era pieno, trovò posto ad uno sgabello del banco. Lui quella sera osservò le sue spalle la sua mano che alzava il bicchiere da dove sorseggiava… poi vide che si comprimeva sulla tempia, appoggiava la testa: aveva fatto scivolare dal suo bicchiere un cubetto di ghiaccio e ora lo appoggiava alla tempia con il palmo della mano. Stette così per qualche istante poi rimise il ghiaccio nel bicchiere: E Sciappi guardò le sue spalle mentre usciva dal locale.
Poco prima della chiusura una sera scambiarono alcune frasi e quando il locale chiuse si trovarono insieme all’uscita. Per la prima volta Sciappi la vedeva vicino a sé, pensò che aveva più anni di lui, almeno cinque o sei, la sentiva grande rispetto a sé.
— Che notte fredda! Disse lei.
Camminavano l’uno di fianco all’altra.
— Quando è così mi piace sognare, mi piace esprimere il desiderio di sensazioni… Che diventano reali solo con la gioia d’immaginarle dentro di me. Guardo il cielo e aspetto che compaia una stella, aspetto che la stella cerchi il mio guardarla. Alcune volte chiudo gli occhi e conto fino a cento, poi li apro e la prima stella che vedo la immagino mia e così gli do un nome un tempo e un mio significato. Sciappi si accorse che si era lasciato trasportare, forse lei pensava che aveva esagerato con le sue fantasie. Invece lei.
— E poi?
— E poi cosa?
— “Quale significato?” Gli chiese Lei.
— Penso che su quella stella ci sia un essere buono, che mi dia un letto su cui riposare e che la mattina quando mi sveglio mi accorgo di aver dormito, ch’è un altro giorno di possibilità e che l’angoscia del giorno prima non c’è più.
— …Che l’ansia che ti morde ogni giorno non c’è più. Perché non porti anche me su quella stella, stasera verrei di corsa, mi dimenticherei volentieri di tutti i giorni.
— Verresti con me, davvero!
— Già!… Io sono arrivata a casa, abito qui.
Con l’indice Lolì indica a Sciappi il piano in cui abita.
— Be’ io sono più avanti. Buonanotte… allora ciao!
Lolì lo guarda allontanarsi, con le mani in tasca e le spalle un po’ curve. Pensa che non ha voglia di tornare a casa e sentirsi sola.
— Ehi! Sciappi!
Si volta nel sentirsi chiamare.
— Che c’è?
— Perché non vieni un po’ su, su da me, così parliamo ancora un po’.
Salgono le scale scambiandosi alcune frasi, poi lei si ferma davanti al portone del suo appartamento, infila una mano nella borsa trova le chiavi e apre.
Dentro l’appartamento.
Sciappi — Hai un sacco di C. D!?
Lei lo ha lasciato seduto in salotto, ed è andata nella camera da letto: si infila una tuta, si sente a suo agio. Torna da lui.
Entrando — Sì! per la maggior parte sono di classica, però ne ho anche di jazz; (avvicinandosi all’impianto stereo) senti questo disco, fa parte delle mie reminiscenze rock: ascolta.
“Can you tell me where my country lies?”
— Chi sono?
— Genesis! SELLING ENGLAND BY THE POUND. Bello è!
— Non male! Sei messa bene qui. È tua o sei in affitto?
— L’ho comprata e risistemata; è la mia cuccia. E tu dove vivi?
— Abito alcune vie oltre questa: con mio padre, mia madre è morta da alcuni mesi e così…
— Vieni qui siediti vicini a me!
Lolì si sposta leggermente per fare sedere Sciappi. Sciappi si siede e lei lo abbraccia e gli dà un bacio sulla fronte.
— Ehi ma sei diventato rosso.
— Sì…
— Eh sì, ma non ti emozionare. Lolì mentre pronuncia questa frase sente di avere voglia, desiderio. Decide di non pensare, di non voler capire, si sente sola. Poi pensa in fondo che male c’è.
Prende tra le mani la testa di Sciappi e appoggia delicatamente le sue labbra sulla sua bocca.
— Lasciati andare, non essere così timoroso.
Sciappi sente la sua lingua sulla lingua di lei. Sposta Lolì e gli si mette sopra, sente di essere eccitato, ma non sa bene cosa fare: desidera Lolì, ma vorrebbe accarezzarla, darle dei teneri baci e invece il suo corpo è pieno di ansia e confusione.
Lolì — Calma, non avere fretta, (lo guarda) è la prima volta?
— No ho fatto delle cose con delle ragazze. Tutto mai. È che a te ti voglio bene. Sono emozionato e non so…
— Ssst! non dire nulla, lasciati aiutare.
“Lolì si toglie dalla posizione in cui è, fa sdraiare Sciappi supino sul divano; gli toglie le scarpe, gli accarezza la mano gliela bacia.” Sfiora con le labbra: la fronte gli occhi il collo di Sciappi; lo spoglia e inizia a baciargli il torace, ad accarezzargli con la lingua l’ombelico; slaccia la fibbia dei pantaloni, li sfila; gli toglie l’ultimo indumento intimo: lo bacia lo accarezza con la lingua. Sciappi non sa vorrebbe spingere la testa di lei perché ha voglia di sentirla di più, ma accarezza delicatamente la sua nuca. Lolì sente che lui è al culmine e gli si distende sopra. Sciappi pensa che Lolì non se ne sia accorta, è distesa su di lui e continua a muoversi… sente che non resiste più, che tra un po’ gli sporcherà la tuta. Mentre viene lui cerca di allontanarla, ma lei lo stringe di più, un attimo e anche lui la stringe a sé. Lolì guarda il volto di Sciappi, l’espressione d’imbarazzo che ha.
— Ti ho sporcato la…
— Sì!
Lolì voleva gustarsi quel leggero disagio che volutamente aveva generato in lui. Poi lo bacia con tenerezza. Si alza e si spoglia; Sciappi vede quello che aveva soltanto immaginato.
— Toccami!
Sente il calore e l’umidità tra le cosce di lei e dentro sé tornare il desiderio; Lolì lo fa alzare, lei si distende sul divano, alza le gambe e apre le cosce.
— Vieni.
Sciappi si mette su di lei, poi sente che lei glielo prende e lo mette dentro di sé, con l’altra mano lo accarezza sul fondo della schiena all’inizio dei glutei; e mentre sente il calore di Lolì sente la mano che lo spinge, sente il ritmo del desiderio di Lolì. Avverte i suoi suoni.
— Così, segui la mia mano.
Alcuni giorni dopo Sciappi chiese a Lolì se poteva tornare da lei, ma per Lolì era trascorso un altro giorno…
…Ancora Sciappi non l’aveva dimenticata.
— Cosa vuoi da bere Lolì? chiese Bar
— Dammi del porto!
— C’è un tizio che è arrivato all’inizio della sera, non c’era ancora nessuno nel locale, ha ordinato un’intera bottiglia di porto; ogni tanto l’osservo, ancora non l’ha neanche aperta.
— Dov’è?
— È quello lì all’angolo.
— Lo conosci?
— Mai immaginato prima!
— Cosa sono quei fogli che ha sul tavolo?!
— Forse cose che avrà scritto, o da leggere; rarità di questi tempi. Pensa uno scrittore che legge: un caro “istinto.
— Chissà!? se fossero fogli bianchi ancora da scrivere? Se li stesse per… scrivendo ora?
— Per quel che me ne sono accorto non l’ho visto far niente…
— Niente? Sciappi tu che ne sai?
— Di cosa?
— Di quello seduto all’angolo?
— Non so è lì seduto, sembra pensare, non è uno che disturba.
— Sciappi va’ a vedere che vogliono a quel tavolo.
Con la mano bar indica a Sciappi di quale tavolo si tratta.
— Permesso! Sciappi si fa largo tra la folla, giunge al tavolo: Vi sono sedute cinque persone dall’abbigliamento alquanto personale, senza derogare nulla alla moda: un misto classico.
— Desiderate?
— …Non possiamo più lasciarlo immaginare, fa parte di uno di quei momenti nella storia delle persone e delle generazioni, dallo scarso possibile ritorno, come piace a me definirlo. È improbabile che possa verificarsi un momento storico come quello e…
— Ragazzi è il momento di ordinare. Dice una delle persone seduta al tavolo, che ha osservato il cameriere attendere.
SORIO Per me una birra.
ATIA Una menta.
BRET Spremuta: arancio e pompelmo.
LATIO Per me e… tu cosa prendi Siaria?
SIARIA Un succo alla pera.
LATIO Un altro per me.
SCIAPPI Niente altro, a posto così!?
Sciappi si volta e torna da bar con le ordinazioni.
SORIO Cosa stavo dicendo?
SIARIA Dell’impossibilità di certi ritorni nell’esperienza dei fatti. Però non capisco se parli in generale, o di avvenimenti personali, della tua storia personale.
SORIO Ma è proprio questa la particolarità, quei momenti sono stati così significativi per tutti, che la storia personale si è trasformata in espressione collettiva.
ATIA Ciò avviene sempre, ogni qualvolta c’è una trasformazione; a me urtano un poco i nervi quando quelli della tua generazione parlano pensando di essere stati gli unici che hanno preso coscienza, che hanno cercato di cambiare le cose. Tu mi sembri fermo al tuo passato, valuti tutto quello ch’è avvenuto dopo come l’espressione in positivo del vostro agire, in negativo tutto ciò che del vostro dire non è stato attuato. Mi sembri ancora ubriaco da quella realtà dialettica, che così spesso nella sinistra e soprattutto nella quotidianità di ognuno di voi, ha schiacciato dogmaticamente ogni capacità di vera analisi, di vera critica della realtà. Dove cacchio stavate quando io ero felice; eravate a giocare con le mie possibilità, ve le siete fatte tutte quante, nell’ipocrisia di godervi tutto senza sapere nemmeno cosa: L’impegno, la realtà era ben altra.
SORIO Guarda che noi lottavamo, lottavamo ogni giorno con le istituzioni, che c’ingabbiavano anche il respiro, lottavamo per abbattere le convenzioni che ci impedivano di essere noi stessi, di comunicare realmente, e se ora tu lo puoi è grazie a noi.
ATIA E no! questa proprio no è grazie a me, anzi forse è meglio dire: per causa nostra.
SIARIA Però nel 68 c’era più solidarietà, i giovani erano impegnati, erano interessati a quel che gli avveniva intorno. Ora non so, prendiamo per esempio i miei studenti: sembrano dei cretini…
BRET La realtà è che tu sei venuta dopo l’epoca di cui stanno parlando loro, hai finito con l’idealizzare il 68 e di non accorgerti di quelli come Atia e me, di quelli che sono nati nel 63, nella difficoltà di dover vivere ogni giorno e la sera vedere, sentire, che quello che era avvenuto in quel giorno il giorno dopo non esisteva più, non aveva alcun valore; non capire perché e non conoscere neanche quale fosse la propria colpa. Sentirsi defraudati delle proprie responsabilità, essere costretti a vivere quelle che a noi non appartenevano…
Un attimo solo e Bret interrompe quel che sta dicendo, legandosi all’ideale presenza di un pensiero. Negli ultimi tempi gli accadeva spesso di distrarsi dal suo presente, per ritrovarsi nei suoi ricordi, forse alla ricerca di un perché, del perché della sua vita. Gli sembrava di non capire più nulla e si assentava da ciò che gli accadeva intorno, e all’improvviso si ritrovava a rivivere l’emozioni dei ricordi, ma non comprendeva che cosa fosse quello stato d’animo, sentiva dentro sé la nostalgia che si trasformava in un acuta malinconia, in lacrime che colavano dai suoi occhi, sul suo viso, su l’espressione del suo viso, assente e lontana da quello che di strano sentiva accadersi dentro, era come se il suo sguardo fosse interprete di un’altra vita, non la sua. Quando si ridestava da questi momenti, avvertiva dentro di sé la sensazione che il suo corpo fosse più lontano, come se si staccasse da tutto quello che sentita essere la propria vita. Ora è in uno di questi momenti, ha cessato un attimo di parlare; un attimo soltanto è questo il tempo che trascorre nelle sue assenze, eppure a lui paiono momenti interminabili, così pieni di eventi, che quando si ridesta non riesce a capire quando tempo sia realmente trascorso.
23 Novembre
Monia ti ho trovata bella.
Venerdì sera, sono appena tornato a casa dopo una serata al cineforum, ho visto l’undicesimo episodio di Heimat 2, che bello! Il dopo film è stato in sala da tè; con chi ero? Con persone che si “conoscono”
Sono nella mia stanza, guardo i miei amici libri. Chiudo la porta, mi metto in pigiama e accendo la televisione, ne adeguo il volume all’ora notturna; ci ripenso e inserisco la cuffia. Vado a spasso tra un canale e l’altro, a quest’ora c’è sempre un film a fuori orario, non mi piace molto, cambio; tò guarda Marzullo: “Senza Trucco sembro un topolino.” Ma chi è?! in quale programma l’ho già vista. Mi ricordo che entrava con una motocarrozzetta elettrica nello studio. Devo sentire come si chiama. “Le ginocchia le gambe…” In quel momento tutti quelli che stavano guardando il programma hanno guardato in basso sul televisore, per guardarti le gambe, anch’io l’ho fatto e le ho viste: ben coperte. (Tre giorni dopo le hai esibite nel tuo programma. Hai due gambe da tenerona. )
Incredibile vedere Marzullo che si sorprende, lo psicologo che analizza quello che tu hai ben mostrato, ma la cosa più sorprendente è quella lì con quel nasino e quel sorriso.
Adesso che ci conosciamo un po’ ti chiedo scusa se mi sono permesso di darti del tu, ma altrimenti non riesco a scriverti; se ti è più gradito trasformalo in lei. Io continuo con il tu.
In questo momento non conosco nessun posto in cui mandare questa lettera, affinché tu ne possa fare l’uso che ritieni più opportuno e se penso ai “se” che ho, finisce che non la spedisco neanche; per fortuna ho qualche ma che mi fa continuare a scriverti.
Mi trovo in un momento in cui mi si affollano un po’ in testa le parole; non so se continuare parlandoti di te, …ora non mi sembra la cosa giusta, (Bret ma digli qualcosa di tuo e crea con gli elementi che hai. Ma se parlo di me succede che mi metto a nudo come un pazzo, non che a me non piaccia, anzi. Devo essere onesto: se non si riesce a vivere almeno cinque minuti di verità con una persona, non vale la pena neanche di perdere tempo per quei cinque minuti; allora che faccio io, inizio sempre dalla fine, metto gli altri in condizione di fregarmi subito, be’ fregarmi tra virgolette, nel senso che sono sempre fregature di cui io controllo gli effetti. Insomma se una persona è “inaffidabile” è inutile scoprirlo dopo molto tempo, chi è predisposto a dare fregature le da subito e quindi perché attendere del tempo per scoprirlo. La ricetta è semplicissima basta essere se stessi, sempre e… te lo spiego un’altra volta se sarà, ma adesso mi prende il dubbio, e se tu ne sapessi più di me?
Semplicemente volevo dire che tutto quello che segue in questa lettera, spero che non ti appaia troppo invadente.)
Mi è venuta in mente una mia vecchia storia; sono sicuro che mi dirai — “No per favore questa non me la raccontare, tutto ma questa no! Ascolta è divertente, anche se quando l’ho vissuta…
Devi sapere che io ho iniziato l’attività onanistica, all’incirca all’età di dieci anni. Ho scoperto questa cosa del tutto casualmente. Una volta mi sono appoggiato all’infisso di una finestra di una casa in costruzione e casualmente il mio cosino (come cosino!) nei pantaloni, in quel momento era eccitato, strusciando il mio cosino eccitato, contro l’infisso della finestra mi accorsi che mi dava piacere. Allora corsi a casa mi chiusi in bagno e iniziai a fare questa strana cosa. La facevo nella più assoluta inconsapevolezza, giacché non sapevo cosa realmente fosse: scoprii che mi masturbavo alcuni anni dopo parlando con un mio amico.
Dal giorno che ho iniziato quest’arte è sempre stata una grande lotta tra me e lui. Lui è insaziabile; comunque tra una discussione e l’altra il tempo è passato. […]Vedi è bene che tu sappia che quelle che a lui piacevano non erano quelle che piacevano a me. Insomma tra una “riflessione” e l’altra sono arrivato all’età e… finalmente: Io, Lei, lui, Lei; ci piaceva ad entrambi: Clara. Invece: che casino, io non riuscivo, o meglio era una fatica assurda comunicare con lei che viveva nell’adolescenza condizionata da una paura adulta; Lui non riusciva neanche ad immaginarla. Stavamo per uscire pazzi tutti e due.
E un giorno in spiaggia, in una mattina d’estate, (dopo un anno di Clara) c’era una lei che faceva spudoratamente la corte a lui. Lui mi parlo chiaramente, mi disse: “Senti io non ce la faccio più, ho aspettato anni che tu trovassi qualcuna che facesse al caso tuo ed è stato un fiasco, ora facciamo quello che dico io, quella lì mi vuole, me lo sta facendo capire in tutti i modi; vai a telefonare alla tua lei e digli che basta, che stasera tu festeggi.
Io non feci proprio come mi aveva detto lui, comunque telefonai e le dissi quello che lui mi aveva detto, ma le chiesi anche di dire qualcosa alla sua lei così io avrei avuto qualche argomento valido, per convincere lui a… Mi rispose che la sua lei non ne voleva sapere niente di lui. Io sapevo che non era vero, mentiva; la stronza non era la lei di lui, ma la lei mia.
Esasperato decisi di fare quello che voleva lui; andai da questa tizia della spiaggia e senza aggiungere niente di mio a quello che lui mi diceva le dissi semplicemente: “Lui stasera vuole conoscere la tua lei.” La sua lei mi rispose “A che ora?”
Rimasi un po’ stupito nel constatare con quanta facilità lui era riuscito.
La sera: Eravamo in macchina nella mia scatola magica: Lui era già pronto; nel pomeriggio io lo avevo rifornito di tutte le energie immaginabili, non sapevo di cosa avesse bisogno e quindi abbondai in tutto: Iniziai con la cioccolata, un po’ di VoV e poi la bomba: uno Zabaione di tre uova e tanto, tanto zucchero. Poi ci fu la cena e dopo uscii.
Lei mi aspettava nel luogo prestabilito; si era fatta accompagnare da strane compari che l’aiutarono ad eludere la sorveglianza della madre sulla sua cosa.
Salì in macchina: dissi — “Andiamo?!” rispose — “Andiamo!” e così andammo.
Come stavo dicendo lui era già pronto, ma gli chiesi di aspettare un attimo, che dovevo chiedere una cosa a lei; gli chiesi: “Usi niente possiamo stare tranquilli?” Lei mi rispose: “Quando è il momento fai dietro front.” Io ero pronto a questa risposta; prima di uscire di casa: quatto quatto, da volpone ero andato nel negozio dei miei genitori e avevo trafugato materiale estremamente prezioso: Super profilattici, con doppia barriera spermicida. Quando lei mi rispose con il dietro front, io tirai fuori l’arma segreta e le dissi: “Lo so che natural e più bello, ma se oltre al dietrofront ci mettessimo anche questo.” Lei un po’ così mi disse che andava bene.
Operazione infilaggio profilattico: tutto sommato niente male, il primo non voleva entrare lo avevo infilato al rovescio; e subito ero stato rimproverato da lui: “Non sei proprio alla mia altezza,” impaziente, non ce la faceva più e pieno di tutta l’energia di cui lo avevo caricato stava per esplodere. Il secondo si infilo subito e prima che ebbi il tempo lui già si era infilato nella cosa e cercava la posizione più comoda. Incredibile, Lui: GRRRAAAAOOOUUGGGRR, un leone. Io nel frattempo mi ero distratto, dal finestrino laterale della macchina vedevo in alto nel cielo la luna: bella, chiara che mi guardava e mi diceva: “Ma che stai a fa’?” “Ma! non so sai lui. Io in effetti non provo niente per questa, non l’amo.” “E allora.” “Luna tu c’hai sempre ragione.”
Lei era già venuta da diverso tempo, ma dove fosse andata non me n’ero mica accorto. Lui aspettava a venire, se la voleva godere più che poteva; ma lei era di quelle che prima hanno tanta voglia, ma raggiunto quello che vogliono si stufano subito, chiedeva che si sbrigasse, e voleva che quanto fosse venuto il momento le bagnasse la pancia. Il mio lui era un tipo che aveva fatto tanta teoria e ora questo si dimostrava utile, fece come doveva fare e alla fine della sua esperienza aveva dato l’impressione che fosse un tipo navigato da mille battaglie.
La sera dopo il mio lui si è incontrato di nuovo con la sua lei; questa volta poco dopo che lei se ne era andata, il mio lui si è affrettato a venire; poco prima di venire lui e lei decisero che lui sarebbe venuto dentro lei, e lui: AAAAGGUUoOOOO.
Come lui esce da lei, a me a momenti mi prende un accidente: Aveva forato da chissà quanto e come un matto aveva proseguito la sua corsa fino al capolinea, sfracellandosi contro il muro del parcheggio. (mai tenere i profilattici in macchina)
“Disgraziato hai visto che hai fatto.” Gli dissi; lei non si preoccupava stava facendo i suoi calcoli, chissà quali? Bo! Lui disse: “Comunque ha avuto il ciclo l’altro ieri, sono passati solo due giorni e non può essere accaduto quello che pensi.”
Lei sembrava non preoccuparsi. La sera finì così.
Nei giorni successivi io ero in un forte stato di prostrazione, lei meno, sembrava innamorata, in realtà aveva già fatto tutto il suo programma e io sembravo rientrare nel suo volere mollare i genitori. Travolto dagli eventi che lui mi aveva creato, mi ritrovavo nell’ipotesi di essere responsabile di tre vite. Mi resi conto che ancora la mia scelta nella vita era alquanto incerta, come affrontare nella concretezza questa situazione. Sono convinto che l’aborto è un errore, ma in quel momento c’è stato un attimo, ho pensato di fuggire anch’io. Poi mi lasciava interdetto il fatto che lei non sembrava prendere molto sul serio le conseguenze, anzi. Ricordo che aveva 19 anni ma era (anche se inconsapevole di quel che era la vita) più esperta, come si dice, di cose di sesso; è anche vero che il mio timore forse era eccessivo, giacché nelle condizione di post ciclo in cui era avvenuta la foratura era improbabile che… E lei il giorno prima di ripartire faceva la civettuola con altri possibili lui. Dove ero capitato. Gli lascia il mio indirizzo e gli dissi di farmi avere notizie al più presto.
Il tempo passava e non giungeva nessuna notizia: io ero in uno stato psicologico disastroso, lui era di un abbattuto tale che sembrava non riprendersi più. Nel disagio che avevo dentro avevo dimenticato di chiederle il suo indirizzo, lapsus freudiano, chissà, questo aumentò il mio stress; avevo paura che potesse fare qualche sciocchezza, cercai di rintracciare il suo indirizzo attraverso l’albergo, ma non vi riuscii. non seppi più nulla.
Alcuni anni dopo la vidi in un locale in compagnia di un ragazzo. Chiederle cosa? Io tuttora penso che è accaduto il secondo giorno dopo il ciclo, ed è andato tutto bene.
Da quel giorno ho sempre cercato di prevenire le situazione, scegliendo sempre le conseguenza accettando di pagarne il prezzo. (è per questo che sono sempre in crisi di astinenza)
Quell’estate prosegui, incontrai Frida.
Frida, non era italiana, aveva sedici anni e una sorella gemella. Era libera di sentire le sue sensazioni e le esprimeva, così come le sentiva. Dentro ogni essere ci sono le origini del proprio cuore e Frida a me sembrava appartenere a quel mondo che non ha bisogno di molte spiegazione. Ero sorpreso dal suo essere, io ragazzo di provincia e lei che con i suoi sedici anni, che mi stupiva colla conoscenza che aveva del mondo, della sensualità… e poter parlare con lei così come a me è sempre piaciuto, senza falsi veli in diretta con le emozioni, vicino a ciò che si sente dentro, mi era sembrato incredibile.
La nostra comitiva era seduta davanti alla gelateria, si rideva e scherzava. Frida era seduta vicino a me, silenziosa; sapevo che era venuta in vacanza per incontrare un ragazzo, ma la cosa non era andata come aveva creduto. Ci eravamo conosciuti la sera prima, presentati da comuni amici. Una lacrima e gli occhi azzurri pieni di pianto, subitaneo e improvviso come ogni respiro, l’apparente silenzio e lei sulla mia spalla. Provo a dirle qualcosa ma… lei non parla italiano e io non conosco la sua lingua. L’abbraccio e le faccio capire che è meglio alzarsi camminare un po’; camminare trovare, scoprire, senza accorgersi di quello che già sta accadendo. Il suo non è più un pianto: lei piange, singhiozza, la gente ci passa accanto e ci osserva. “Cosa hai, perché.?” Lei mi guarda ma non può che piangere; la stringo a me la bacio, sento il suo corpo che si aggrappa al mio bacio, il sapore delle sue lacrime, lacrime di donna che non avevo mai conosciuto prima, poi lei che si tranquilla, respira. Quando ci lasciammo quella sera non pensai a quello che sarebbe accaduto l’indomani.
“Non ti capisco.” Eravamo seduti su una sdraio, al mare e lei cercava le parole per dirmi che mi amava, io le risposi: “Come è possibile.” Ma lei mi disse che mi amava:
“Perché?” Non lo sapeva, ma era così. L’abbracciai e le dissi di non parlare.
Un giorno stava cavalcando, cercò di saltare un ostacolo, cadde. Così per caso “scopri che era malata: un tumore alle ossa e ancora due anni.
“Io non so se ti amo, ora in fretta e ci sono troppe cose che devo dirti.”
“No! non serve.”
“Non serve…”
Lei si stringeva a me mentre lanciavo la moto, noi che attraversavamo l’aria notturna, che correvamo nella città: soli.
Scendemmo in spiaggia. Il tranquillo suono dell’acqua, il mare era prossimo. Teneri abbracci, carezze: volevi fare all’amore.
— “Non so, credo che non posso.” come spiegarti quello che avevo dentro, quello che mi era accaduto, a cosa stavo pensando.
— “Perché?”
— “Perché ho paura, ci sono cose che sembrano così certe, sicure, ma presto ti accorgi ‘di quanto sono debole’, di quanto imponderabile sia l’agire. Vivo con l’ansia di scoprire un dramma troppo grosso per la mia coscienza; non so come fare, ho paura di non essere io quello che può decidere e non riesco più a fidarmi dell’altro.” Ti spiegai quello che mi era successo, tutta l’ansia che avevo dentro.
— “Non preoccuparti, lei ha avuto il ciclo poco prima. Stai tranquillo tu sei importante per me.”
Mi abbracciasti, sentii le tue carezze, mi spogliasti come si spoglia un uomo; le tue labbra, la tua bocca su di me… un mondo nuovo che mi stava accadendo. Volli scoprire anch’io il profumo, il sapore della tua intimità. Ci amammo.
Mangiavo camminavo, ma all’improvviso scoprivo la voglia di stringerti di fare l’amore con te; il desiderio così incerto, si era trasformato in un vortice continuo di speranza, di bisogno, la paura svaniva. Non tornavo dove mi ero fermato, mi gettai lontano, trovai alcune parole e tante le tue emozioni ad accogliermi.
Cantavamo insieme in compagnia dei suoni dell’estate.
Ci amammo sotto la luna, il sole, attraverso la forma di ogni nuvola, in ogni sua goccia.
Una volta quella volta, ti amai ascoltando i tuoi suoni. Ci trovammo nudi con la musica di Mozart e godemmo insieme.
I giorni trascorsero e… poi: “Non scriviamoci, quando vedrai una nuvola, un uccello che vola da solo, pensami; pensami ogni mattina quando vedrai il sole, la pioggia il vento, tutto quello che la vita ci dà senza chiedere nulla in cambio, in quei giorni io ci sarò.
Il tempo è passato, Frida è una mia amica.
Seguirono giorni di vuoto, di uno strano sentirsi; poi tornò Clara, che avevo sperato tanto di amare. I suoi strani capricci, capricci di un ipotesi di adolescenza: successe che svanirono, ma io non potevo, non potevo più.
— “Clara dimmi perché?”
— “Non lo so.”
— “Quanto tempo ho desiderato inutilmente, un semplice bacio, quanto è inutile il tempo dei giochi, schermaglie che ci fanno solo perdere. Ora capisco la tua indecisione: il desiderio di scoprirsi impauriti, sei solo bambina e questo fatto d’inconsapevolezza, mi ha distolto dalla vita vera…”
Clara c’è una notizia, tuo padre si è sentito male.
Giorni di vacanze, vacanze.
Perché, quanto tempo c’è stato prima…
Gli morì il padre qui in vacanza e i capricci sembravano essergli finiti; ma io non potevo, non potevo più.
Incontrai a settembre la ragazza del mio primo inverno.
Fu un’estate emotivamente da decimo grado della scala mercalli.
Forse ti posso sembrare un po’ pazzo, forse… Ma non devo farmi troppi forse, o sì. Signora Monia, forse dovrei riscrivere questa lettera, farne una più formale, più adulta e convenzionale, ma mi permetta di affidarmi alla sua bontà e comprensione; mi è venuta così, abbia pazienza. Immagina che questa non sia la mia prima lettera che ti scrivo, ma la terza o la quarta e il fatto che io ti abbia raccontato questa storia ti apparirà plausibile. A Parte il mio nome che peraltro non compare mai, gli altri sono diversi da quelli veri; l’ho fatto solo perché non voglio toccare l’intimità di queste persone, ed anche se per te non avrebbe fatto differenza giacché sono persone che non conosci, converrai con me ch’è meglio così.
A questo punto (spero) ti sarai chiesta: Ma questo qua che cosa vuole da me? Semplicemente di comunicarti che anche se attraverso un mezzo subdolo come la televisione mi sei apparsa un bell’essere umano e mi hai stimolato a scrivertelo. Se poi tra tutti gli impegni di lavoro che hai (che ti auguro di continuare ad avere. Lo so non si fanno gli auguri nello mondo dello spettacolo, ma io non essendo superstizioso se non per gioco, e soprattutto essendo un vegetariano, non ti dirò mai in bocca a lupo, per non sentirmi rispondere quella frase blasfema di crepi il lupo) i mucchi di persone che conosci, tra le molte lettere che sicuramente ricevi quotidianamente ti andasse di spedirmi una cartolina ogni tanto, o meglio una lettera e permetti a me di fare altrettanto, se qualche volta trovi i tuoi amici introvabili e hai bisogno di un amico per dirgli che le cose ti vanno bene o hai bisogno di sfogarti un po’ e mandarlo a quel paese sapendo che non se la prende, puoi disporre di me.
Naturalmente fai e farai come ti sentirai di fare; ma ad una sola cosa ti chiedo per cortesia di non dire di no. Mi piacciono i libri e per farmi sapere che hai ricevuto questa lettera, mandami una bella cartolina con un tuo saluto, che io posso usare come segnalibro; se proprio non puoi pazienza.
P.S.
Spedisco questa lettera nel luogo in cui lei lavora, sperando che ne darà l’indirizzo nel suo programma. A proposito le faccio i miei complimenti, anche se non le do nessun consiglio, giacché ho potuto vederlo solo un paio di volte. Mi saluti e faccia i miei complimenti a “Ciarli e Jo” all’italiana, mi dica Ciarli suda così per le lampade o per l’emozione, ma non vorrei che si emozionasse ancor di più.
CIAO!
Cara Monia con questa ti chiedo un po’ di tempo, lo voglio dammelo! Leggi queste pagine e non farti disturbare da nessuno, tutte, fino alla fine.
5 Gennaio
Penso che la prima persona che aprirà questa busta sia qualcuno della redazione: Salve! Non voglio farle perdere tempo, ciò ch’è scritto qui non riguarda molto il programma, la lettera è indirizzata a Monia, la faccia avere a quella birba di Monia.
Se invece sei proprio tu Monia ad aprire questa busta, voglio dirti che domani è il sei Gennaio, la Befana: Auguri. Non le so dire le bugie lo sai che ti trovo bella. Da qualche puntata ti trovo migliorata, chi ti ha consigliata? L’altro giorno hai ringraziato tutti quelli che ti scrivono, non penserai mica che con me ti basta questo, io non ho scritto al personaggio pubblico, io ho scritto a te, a una persona vera e anche io sono vero: ho due gambe due braccia, una testa e un cuore, un mio modo di essere, forse un pochino particolare, come tu hai il tuo. Ma che ti vuoi ritrovare come quell’annunciatrice, che avete ospitato alcuni giorni fa, di cui non ricordo il nome, che riceve lettere da persone che l’idealizzano, lei legge lettere e idealizza chi gliele scrive e ci credo che ancora sta a fare collezioni di bamboline. Ma che pensi che io mi metto a scrivere così a chiunque, AO io so’ un Lupo, un Lupo solitario, lo so un po’ strano, un Lupo vegetariano, con l’anima di un gatto, i pensieri di un delfino e i sogni di un Albatro. Ma che ti credi lo so che tu vai in bagno come ci vanno tutti e per quanto possa essere particolare, un bagno è un bagno, scusami se sono così terra terra, ma ogni tanto ci vuole. Sotto il sole o la luna, o in periodo di eclissi, le cose so sempre quelle, da che mondo e mondo l’uomo è stato sempre lo stesso; oggi c’è e sembra eterno e un attimo dopo puff non c’è più. Tu tra un po’ sarai così famosa che non ti ricorderai di me, io va a finire che mi chiuderò in un eremo, in una vita contemplativa e dopo, dopo niente, due persone che si potevano conoscere, non si sono conosciute. Mannaggia. Ho capito non son degno di te, ma la canzone prosegue: Non ti merito più, ma al mondo no, non esiste nessuno che non ha sbagliato una volta… Io ancora devo sbagliare e già non ti merito. Ma non ti sarai trovata un fidanzato di quelli gelosi, non mi dire che è così perché questa scusa te lo suggerita io, ecco lo sapevo hai fatto quell’espressione, hai abbassato la testa e te ne sei uscita con quel Mmmm! forse no ma volevo ricordarlo. Ti spedisco le lettere che ti ho scritto, mi sento un po’ scemo non a scrivertele, ma a tenerle qua senza spedirle, le spedisco al tuo programma, non posso fare altrimenti. Sono storie un po’ da “opisteme, forse mi sono messo un po’ in mutande; ecco lo sapevo, ma ti sembra carino ridere così, lo so in questo periodo non sono in peso forma, ma se mi rimetto sotto attività atletica, vedi che fisico che faccio e poi se proprio vogliamo essere sinceri, un accenno di pancetta (eccitante) l’hai anche tu; stai bene, sei in peso forma, non preoccuparti. Sai che cosa sarebbe bello, che mi toccasse chiederti scusa, che all’improvviso mi arrivasse una tua lettera “personale”. Scusa se nelle lettere c’è qualche errore, ma le ho scritte come mi sono venute e non le voglio rivedere per correggerle, vedi sono sicuro che non è necessario mostrare sempre il meglio di sé, ma anzi con una persona di cui hai fiducia si ha la possibilità di essere anche vulnerabili, senza temere. Roma è bella ma è anche piena di nevrosi e un comportamento come il mio può apparire bizzarro (non solo a Roma) ma in realtà è estremamente semplice e naturale. Io un anno fa ho azzerato la mia agenda, l’ho bruciata con tutte le persone che c’erano dentro; ricominciare è sempre faticoso, ma è anche stimolante. Sto provando a conoscerti e farmi conoscere, non so se sono capace di toccare le tue corde, se ci riuscirò, ma voglio farlo essendo pienamente me stesso. Be' salutami i tuoi collaboratori, sono sicuro che a qualcuno sono rimasto simpatico; vorrà dire che a mali estremi, estremi rimedi, ho già deciso la mia fine, mi strafogherò di nutella, così l’epitaffio sulla mia tomba sarà: Visse un’amara vita, ma morì dolcemente. Un cioccolatino, grazie.
Oh leggiti le lettere, le ho scritte apposta. Sfacciatamente un bacione.
13 Dicembre
Monia!…
C’è un liquido, un liquido speciale dentro ogni essere umano. Un liquido puro come tutti i momenti, gli attimi in cui è impossibile mentire. Alcune volte ci sono dei bravi attori, ma se si ascolta la propria sensibilità si sa leggere il sapore e il vero suono di ogni goccia di questo liquido. Sarebbe bello poter piangere ogni volta, lasciare andare le lacrime libere, limpide e salate. Essere ciò di cui abbiamo bisogno. Quante lacrime ci teniamo dentro, io penso che ognuna di queste lacrime si unisca alle altre in uno spazio del nostro animo, in attesa, in attesa che noi ci ricordiamo d’esse. Ma spesso ci accade una cosa che ci meraviglia, capita di dimenticare queste lacrime, tanto da non saperne più l’esistenza, come se non ci appartenessero più. Poi all’improvviso succede qualcosa è come se qualcuno toccasse un punto del nostro animo; da quel punto si genera una reazione così forte, istantanea e prima che il nostro pensiero comprenda quello che sta accadendo quelle lacrime si riappropriano di noi. Sentiamo una strana sensazione al petto, gli occhi si inumidiscono e piangiamo. Purtroppo spesso capita che la situazione in cui ci troviamo non ci lasci tutta la libertà di cui abbiamo bisogno. Come quando si stanno intervistando tre vedove di guerra in un programma televisivo: “L’intervistatrice” si accorge che i suoi occhi stanno diventando rossi, ma non può fare quella che sarebbe la cosa più naturale, piangere. Allora pensa al copione alle domande che deve fare, cerca di bloccare quell’emozione che sente dentro, ci riesce bene, ha dovuto essere brava. Però non immaginava che respingere la sua sensibilità, gli mandasse in tilt i pensieri, ma è brava e a parte l’aver detto cabina invece di cucina se l’è cavata bene. Non era facile nel contesto di quel programma parlare di quell’argomento e sono sicuro che i telespettatori si sono resi conto di che bell’essere umano SEI.
Vicino alla conduttrice, la prima delle tre donne è “giovane” e sente con la sua fragilità che non può permettersi di avere tutto il peso, la fatica del lutto. Ma ho come l’impressione che in lei c’è qualcosa di più. L’angoscia dilaniante nei suoi respiri nel suo petto, un fardello che sembra schiacciarla sopra le spalle; è lontana dal pianto non riesce più a sentirlo a trovarlo, neanche lo ricorda più, forse, l’ultima volta che ha pianto, le sue lacrime erano così disperate così acute, di un dolore che le sembrava insostenibile, tanto dolore le ha cancellato la memoria delle sue lacrime, ed ora è come dispersa, lontana, in un rifugio pieno di fatica, accovacciata vicino all’ultimo tenue calore di un ricordo che una volta la faceva ridere, sperare, respirare senza sentire la fatica, la fatica dell’aria che il suo corpo continua ad assorbire; una parte di lei non capisce più perché ciò avvenga. Eppure anche in un essere defraudato, mortificato, avvilito c’è un frammento di vita che lotta per tornare a regalare, ciò per cui aveva pensato di esistere: il suo senso, il senso dell’esistenza; è solo smarrito, impaurito, confuso, l’augurio da fare è che sia così. E un giorno quando si accorgerà che i suoi sensi hanno ricominciato a parlare con il mondo, sentirà un bisogno strano, particolare: il bisogno d’incontrare qualcuno che accolga le sue lacrime, il ritorno di esse, questa volta, lacrime che le ricorderanno tutto, ma la faranno riappropriare della sua vita defraudata. Sentirà il bisogno di stringersi ad un altro essere umano e senza dire niente, piangere, sentire le proprie lacrime e donarle. Poi avvertirà quello stato d’animo particolare che si prova dopo aver pianto, il corpo un po’ stanco, ma tranquillo e sentirà il suo respiro aprirsi, abbracciarla.
Chissà forse non avverrà tutto questo ma me lo auguro, i percorsi del dolore sono pericolosi, ma pur sempre veri ed è strano ma certe volte sembra non esserci altra strada, le lacrime diventano l’unica possibilità che abbiamo per capire.
Sono sicuro che te l’avranno detto, ma anche se non sono originale permettimi di dirti Monia che hai due occhi meravigliosamente caldi.
Alcuni giorni fa mi sono incontrato con un libro, mi ci sono incontrato leggendone l’inizio:
“Se volete seguirmi, toglietevi le scarpe. Siete troppo ben addestrati. Sommersi, come diceva Gurdjeev. Sommersi dal vostro io-robot. Certo anche io ho un io-robot che assume, forse non gloriosamente, le grandi fatiche della vita, che parla e agisce per me e, come un mulo conosce le vie da percorrere, si riveste di mansueta sobrietà quotidiana. Ma ho anche imparato a congedarlo quando la sua prolungata presenza mi affatica e quando, affacciata alle cose del mondo, voglio essere… come spiegarvi?… Bisognerà che vi togliate le scarpe e interi lembi di pensieri. Strati di memoria; il peso del robotico pensare, mangiare, agire, scrivere. La vostra cultura, che supponete eterna, è come ogni altra fantasmagoria. Nel migliore dei casi. Nel peggiore, è un teatro d’ombre in perpetua agitazione come le termiti di un termitaio. Ogni civiltà crea la propria caverna, il proprio termitaio. Vi crede fermamente. D’altronde, senza questa fermezza non esisterebbero certezze, né civiltà. Ma la certezza cos’è? Perché alcuni di noi non la possiedono mai? Perché vi si sottraggono come un dormiente stanco si sottrae ai sogni eppure ne rincorre la visione, ne cerca il riposo, ne risente la mancanza?”
A me è piaciuto questo inizio ed anche il resto del libro è interessante, a dimenticavo, se avessi voglia anche tu di leggere il seguito, l’autore è Toni Maraini, il titolo: “Ultimo tè a Marrakesh. Sono racconti. Èh le sicurezze; hai delle bellissime sopracciglia.
Sono le 23.01 e sono appena tornato a casa. Del 14 Dicembre, riprendo a scriverti. “Che faccia sconsolata, è brutto?” Questa sera appena uscito dalla sala cinematografica, una ragazza sconosciuta con l’espressione sorridente, si è rivolta a me con questa domanda e constatazione. “No… è bello è un bel film.” ho risposto. Ma è vero ero un po’ sconsolato e malinconico.
Arrivo di corsa al cinema, in questo periodo non porto l’orologio. Prima di uscire ho visto l’ora erano le 20,45. Quando sono salito in macchina l’orologio era sulle 20,35. Il film inizia alle 21. Entro e incontro alcune persone che conosco, che stanno facendo i biglietti; ci vediamo sempre al cineforum. “Ciao!” “Ciao!” “Oggi è l’ultimo giorno che danno il film, da domani iniziano a proiettare il “Re leone.” (altro film da non perdere) “Ieri sera c’eri a vedere “l’Enfer?”” Uno mi chiede. “Sì certo.” Rispondo, continuiamo a parlare, ci scambiamo i pareri sul film. (L’Inferno di Chabrol, con Emanuelle Béart. La stessa che ha fatto un “Cuore in inverno” di Sautet e la bella scontrosa di cui non ricordo il regista) Ma torniamo al film di questa sera: “La bella vita.” La ragazza uscendo ha visto sul mio volto quello che io mi sentivo dentro, come ho sentito la sua frase mi sono sorpreso un po’, giacché non pensavo che trasparisse così attraverso la mia espressione. Il film è un bel film, gli si possono fare delle critiche da cinefili pignoli, ma non serve. La trama in se può sembrare banale, giacché sembra il solito triangolo, ma il modo in cui è narrata ne fa una bella storia. La mia malinconia; è un film che durante la visione mi ha riempito di stati d’animo. La mia tristezza, non so, ma perché l’amore finisce per essere sempre così caduco. È possibile che la vita finisca sempre per trasformarsi in torto, che due persone non riescano a tenersi ferme nel pensiero, indipendentemente da tutto quello che succede nel mondo intorno a loro. E quando si ha la possibilità di amarsi finire per sciuparla, in strane ebbrezze, che trasformano l’amore nella sua mancanza, a me sembra l’unico tempo veramente sprecato nella vita. Ma questo è un discorso semplice, e pertanto umanamente complessissimo. Uscito dal cinema pioveva; ho passeggiato fino alla macchina, lasciando, senza fretta che le gocce mi bagnassero un po’.
Monia è da qualche sera che ho voglia di andare a mangiare un bel maritozzo con la cioccolata. Mi spiego meglio: in un paesino, qui, appena sulle colline, c’è un forno che a mezzanotte circa, sforna maritozzi caldi, o freschi, come ognuno li vuole intendere. Ma mentre pensavo di andarci, questa sera, mi è presa anche voglia di scrivere; nella scelta ho deciso di tornare a casa e scrivere, ma non pensare che l’appuntamento con il maritozzo sia annullato, è solo rimandato ad un’altra sera.
Mi sento un pochino disorientato, ti sto scrivendo una lettera che ancora non so se mai ti spedirò, eppure te la sto scrivendo. Be’ forse ora è meglio andare a dormire, buona notte ci sentiamo domani. Cosa posso fare continuo a scriverti, nell’ipotetica possibilità di ricevere un tuo messaggio, una risposta; se ciò non avverrà che faccio? Le lettere sono fatte per essere spedite? Sai conosco una ragazza che lavora a rai radio due e sentirla per radio sembra una persona eccezionale, ma non è tutto oro quello che luccica. Ma con te sono sicuro di non essermi sbagliato. A domani.
15 Dicembre, ore 23,26.
Ho sonno, ma prima di andare a dormire ti voglio scrivere un pensiero, su quanto sia bello quello che mi ha stancato oggi: “Nel corso della mia vita ho incontrato non più di una o due persone che comprendessero l’arte del Camminare, ossia di fare passeggiate, che avessero il genio, per così dire, del vagabondare, termine splendidamente tratto da “genti oziose che nel Medioevo percorrevano il paese chiedendo l’elemosina con il pretesto di recarsi a la Sainte Terre”, in Terra Santa, sin quando i bambini cominciarono a gridare: “Ecco là un Sainte Terre”, un Vagabondo, un Terra Santa. Coloro che non giungono mai in Terra Santa, nei loro vagabondaggi, come invece pretendono, sono degli autentici oziosi e dei perdigiorno; ma coloro che vi giungono sono Vagabondi come io intendo, nel senso buono. Henry David Thoreau dal libro Camminare.
Ora che ci penso ti vorrei parlare di un Terra Santa di qui, ma scusami ho proprio sonno. Buona notte.
16 Dicembre.
Che malinconia Monia, bo. Ti parlo di Corrado.
Corrado è il Terra Santa di qui, lo incontri in un posto e poi ti capita di ritrovarlo in un luogo completamente diverso e lontano da quello di prima. Passeggia immerso nei suoi pensieri o meglio con tutti i suoi “amici” fantasmi, passa intere giornate a colloquiare con costoro e forse anche le notti. Quando Corrado t’incontra per lui chiunque tu sia ti chiama Gionni. Una volta voleva vendermi dei rettangolini elettorali con su scritto il nome del candidato e il simbolo del partito. “Ehi Gionni, guarda che c’ho, cento lire, cento lire l’uno e te li do.” “Fa vedere Corrado che sono? Ma Corrado questi non valgono niente.” “Sì!” “No Corrado, dai non farmi venire da ridere.” “Perché?”
Mi ricordo di una volta - Ero seduto in un locale e giocavo a scacchi, non so come è possibile giocare in un locale pubblico, ma quella volta accadde. Ero seduto con l’altro giocatore, non lo conoscevo bene lo avevo incontrato lì, quella sera, insomma stavamo giocando, quando arrivò Corrado. “Ciao Gionni.” “Ciao Corrado.” Rispondemmo, Corrado si sedé li vicino a noi e incominciò a guardarci mentre giocavamo. “Chi vince?” Corrado ci chiese. “Ancora nessuno.” Gli risposi, poi mi incuriosii, gli domandai. “Corrado tu chi vuoi che vinca?” Corrado pensò un attimo, poi. “Be’ se vinci tu perde lui. Però se vince lui perdi tu.” “ Ma tu chi vuoi che vinca?” gli chiese l’altro giocatore. “Non lo so, io voglio bene a lui, però voglio bene pure a te.” Rimanemmo un po’ in silenzio, continuammo a giocare, io feci una mossa con il cavallo. Sentii la voce di Corrado che diceva, prendendo il cavallo: “perché non lo sposti così.” “No Corrado, non é possibile.” Gli dissi. “Perché?” Perché non fa parte delle regole del gioco, il cavallo non può fare quella mossa.” “Ma se tu invece della mossa che hai fatto, fai così,” prese il cavallo e ripeté la mossa; “puoi mangiare e vinci.” Io guardavo la scacchiera e mi veniva un po’ da sorridere, gli dissi che c’erano delle regole, mi rispose un sì poco convinto, allora gli dissi: “Ma se faccio quella mossa, vinco io e perde lui, è per questo che non l’ha faccio.” “È vero!” sorrise ed era convinto. In quei periodi ancora non beveva, Corrado lo conoscevano tutti, era accettato come un personaggio, c’era sempre qualcuno che lo ascoltava, anche durante le sue strane digressioni. “Gionni mi compri una birra…” Vedi io ho visto un mondo cambiare, mi sono trovato con un piede nel passato e uno nel futuro che stava sviluppandosi, mi sembro patetico.
C’erano le porte con la chiave, vi si lasciava la chiave così chiunque della famiglia poteva entrare senza bisogno di suonare; sembra incredibile, eppure io ricordo il lattaio che con la bicicletta consegnava il latte fresco, casa casa, alle donne più anziane che si facevano riempire le bottiglie o le pentole. Ed ora mi viene in mente che io quel latte non l’ho mai provato, perché c’era anche quello che si comprava al negozio. Monia mi è rimasta la curiosità di sapere che sapore avesse quel latte. Non so ma non mi riconosco molto nei bambini di ora. Ricordo che durante le vacanze nel periodo della scuola elementare, ci svegliavamo presto per giocare e giocavamo per le strade, liberi e tranquilli, c’era sempre qualcuno che ci guardava e se poi non c’era non era un problema. Ricordo che prendevamo i quaderni ne strappavamo i fogli, poi li tagliavamo in striscioline, queste striscioline le avvolgevamo sul dito e come per magia ne facevamo un siluro. A me dispiaceva un po’ sciupare i quaderni, non per la scuola che l’avevo già in odio, ma forse per rispetto delle cose, che ora ho scoperto essere qualità Zen. Avevamo delle cerbottane, che ricavavamo dalle canne che gli elettricisti adoperavano per gli impianti elettrici; spesso costruivamo delle cerbottane a più colpi; tagliavamo delle canne tutte della stessa misura, le attaccavamo insieme ad una estremità con del nastro adesivo, nell’altra estremità delle canne per poterle distanziare in modo che potessimo soffiarci senza difficoltà mettevamo delle “mollette” per i panni. I nostri periodi erano scanditi dai giochi che facevamo: c’era il periodo delle cerbottane il periodo delle fionde che costruivamo con dei rami trovati sugli alberi e tagliando della vecchie camere d’aria delle biciclette; il bello era anche che ogni fionda non era mai uguale a quella di un altro, vuoi per l’abilità di ognuno di costruirla, o per il ramo migliore che si era trovato, stava che ognuno se la personalizzava; un giorno scoprimmo le fionde fabbricate in serie, tutte uguali, comprate in negozio a cinquecento lire. Subito ci sembrò fantastica la cosa, ma a pensarci era cosi bello quando ce le costruivamo da soli. Poi c’era il periodo del bastone con l’elastico: Un bastone lungo per quanto poteva estendersi l’elastico, tirandolo al massimo, ad una estremità lo si fermava bloccandolo ad un chiodino, mentre dall’altra parte si fissava al bastone una molletta sempre di quelle per appendere i panni ad asciugare: si apriva si faceva passare l’elastico e si richiudeva, il fucile era pronto a sparare. Man Mano che crescevamo si aggiungevano sempre nuovi giochi. C’era il periodo dei carrettucci, erano dei carretti costruiti assemblando insieme dei legni che tagliavamo su misura, per le ruote andavamo dai meccanici e ci facevamo dare i cuscinetti che avevano sostituito alle macchine; ne mettevamo due di dietro e uno centrale davanti ché con un gioco di bulloni tra una tavola di legno e l’altra era quello su cui si agiva per guidare. C’era il periodo delle carte, in particolare a “bestia”, invece dei soldi ci giocavamo i giornaletti, fumetti. Rialzo a chiapparella, nascondino, campanone e una volta ci immaginammo un nuovo gioco: a ritrovare, una specie di nascondino, giocato con due squadre contrapposte. Qualche volta abbiamo giocato con i bicchierini, i tappi delle bottiglie, li prendevamo li schiacciavamo con il martello e li rendevamo simili a monete, ci ho giocato poco a questo gioco, forse perché la mia generazione lo sostituì con le figurine; però ricordo una volta, che sotto un tappo trovammo una macchina. La coca cola o la fanta, non ricordo bene misero in palio una ferrari, ti giuro noi la trovammo; ci fu un momento di gioia, ci entusiasmammo, andammo dai grandi conviti di aver trovato un tesoro e come capitava spesso i grandi non ci presero per niente sul serio; lo rimettemmo insieme agli altri ci lo giocammo a “costammuro” e dopo poco ce lo dimenticammo. I giochi che facevamo con le figurine dei calciatori, le mitiche panini: a lettere, costammuro, brullare, battere. Non so contare gli innumerevoli episodi di quegli anni e ognuno mi sembra ora incredibile. Tu invece che facevi, la signorina saputella. Una volta trovammo per terra cinquecento lire, eravamo in cinque e ci fu una discussione su cosa ne dovevamo fare, alla fine vinse la mia geniale teoria: dovevamo restituirle, ma non sapendo chi fosse il proprietario, dovevamo restituire i soldi ai carabinieri; giunti dinanzi alla caserma, nessuno di noi ebbe il coraggio di suonare, allora optammo per i vigili urbani. Quando narrammo quello che avevamo trovato e quello che volevamo fare a un vigile, ci successe quello che accadeva spesso, non ci prese sul serio, questo mondo dei grandi non lo capivamo proprio, era così incoerente. Comunque il nostro dovere lo avevamo fatto, che ci restava da fare; decidemmo di comprarci una pizza, comprammo cinque pizze bianche, da cinquanta lire l’una e da bere e ci venne pure il resto. Erano proprio altri tempi. In quei periodi c’erano molte case in costrizione e noi ci eravamo scoperti imprenditori; racimolavamo tutti i materiali di scarto, tipo ferro e rame e lo accumulavamo, fino a quando non ne avevamo una quantità sufficiente per ricavarci un po’ di soldi. Lo facevano non tanto per i soldi, non è che per come ci divertivamo ne avessimo granché bisogno, ma ci divertiva. I LaDRI. E sì siamo stati anche dei ladri, la nostra specialità erano soprattutto gli ortaggi. Organizzavamo spedizioni notturne, quasi sempre nello stesso orto, siamo stati la disperazione del suo proprietario, come erano buoni quei finocchi freschi, così crudi e appena colti, qualcuno di noi i più barbari se li mangiavano senza neanche lavarli. Era un posto vicino ad una strana casa, che con le ombre della notte ci metteva alquanto paura. Eravamo convinti che fosse la casa di Polifemo. Un volta, io e un mio amico decidemmo di andarci di giorno, questa volta per prendere le nespole; era andato tutto “bene” ma proprio mentre ce ne stavamo andando, fummo visti da una vicina; ti giuro ci siamo nascosti e non abbiamo detto una parola. E che ti fa la stronza, va a raccontare tutto al padrone dell’orto, dicendogli che l’abbiamo mandata a quel paese. Il padrone dell’orto, arrabbiatissimo, andò a protestare dai genitori miei e del mio amico, finalmente aveva scoperto chi erano i ladri della notte. Ci fu detto che ci voleva denunciare, ma! Comunque al mio amico gli toccarono un casino di botte, vi era abituato, spesso capitava che il fratello minore combinasse qualcosa e lui le prendeva per tutti e due. A me andò meglio, mi dissero che non dovevo farlo più e se volevo i finocchi li dovevo chiedere; non capivano. Ma il furto che più mi ricordo, fu quando rubai una trave di ferro lunga quattro metri e alta trenta centimetri circa e per di più con gli operai che erano lì vicino a lavorare. In quel periodo conoscevo un ragazzo un po’ particolare, eravamo nel suo “garage” lui era intento a costruirsi una zattera di polistirolo, era convinto che con quella avrebbe potuto prendere il mare, poi mi disse: “Ti andrebbe di fare un’azione con me?” “Di che si tratta?” “Rubare una trave di ferro in una segheria.” “Non so.” “Andiamo vieni con me.” Mi disse. Mi portò sul posto. “Ma ci sono gli operai, come si fa?” Dissi. “È dietro quel mucchio di segatura, se stiamo attenti non ci vedono.” Mi rispose il mio amico per convincermi. Ci provammo e incredibile, ci riuscimmo senza che nessuno ci vedesse, guarda che era davvero difficile, oddio Monia, forse era solo una vecchia trave che non serviva più e anche se ci hanno visto, ci hanno lasciato fare. Venduta la trave allo sfascia-carrozze, che forse ha avuto qualche sospetto sulla sua provenienza, ci siamo spesi il bottino nell’autoscontro. Comunque il furto più divertente è stato quando abbiamo rubato del metallo al rottamaio e poi glielo abbiamo rivenduto, naturalmente senza che lui se ne accorgesse. Insomma tutto questo per dirti che in questa strana isola che ancora esisteva anche un tipo come Corrado poteva starci senza eccessivi Problemi. Oggi ad un certo punto del programma ti è venuta di fare la lingua a Joe e quando ti sei accorta di quel che avevi fatto, sei arrossita, come se avessi rubato la marmellata. Che bella! Ciao
17 Dicembre
Continuo a parlarti di me, non per narcisismo, comprendimi.
Non ricordo Monia il primo film che ho visto al cinema, ma ho il ricordo delle prime volte che ci sono andato, e di certo non dovevo avere più di cinque o sei anni. Era un cinema parrocchiale e il prete, don Marino tagliava le scene dei film che reputava non degne di un cinema di parrocchia. Era incredibile la ressa che c’era allo spettacolo delle due e il tifo che si scatenava nella platea - a quell’ora esclusivamente di ragazzini - per l’eroe del film. Un film di quel periodo mi è rimasto impresso nella memoria, cioè è più esatto dire quello che successe tra noi bambini che eravamo a vedere questo film, in realtà non ricordo proprio che film fosse. Ricordo che era lunghissimo e alla fine del secondo tempo nella sala ci fu un: “Noooo!” generale, a quel punto successe che il film continuò a essere proiettato, ma nella stanchezza che si era generata, noi bambini iniziammo a fare tutt’altro che vedere il film: iniziammo a parlare tra di noi, chi a giocare a figurine, chi a carte, alcuni a rincorrersi dentro la sala, una bolgia. Non so se ho mai più rivisto quel film dopo quella volta, giacché non ne ricordo il titolo e neanche la storia, comunque doveva essere sicuramente un film di ambientazione medioevale, perché mi ricordo di alcuni cavalieri. Un altro periodo di quegli anni mi è rimasto nella memoria: il periodo che ho trascorso all’asilo. Per molto tempo pensando a quel periodo ho immaginato che fosse stato un tempo molto lungo, in realtà non durò più di un mese, ma sai come sono quelle cose pesanti che ti succedono nella vita, appaiono appartenere ad una temporalità del tutto innaturale. Ricordo i grandi pianti con cui venivo trascinato in quel luogo; non ne comprendevo il motivo, perché dovevo andare in un posto per divertirmi con altri bambini, come ci ordinavano altre persone, quando io con tutti gli Amici che avevo fuori da lì potevo fare mille altre cose più divertenti a modo mio. Le mattine trascorrevano monotone, dentro quelle aule, l’unica cosa era aspettare l’ora della ricreazione perché potevamo uscire in cortile a “giocare”. Ma anche questo per me era un tormento, giacché vi era una condizione, se volevamo uscire fuori a giocare prima dovevamo aver fatto i compiti; in quel periodo i compiti erano riuscire a scrivere, copiare le lettere dell’alfabeto sul quaderno, ma purtroppo non era tutto, queste benedette lettere, benedette perché era un asilo delle suore, erano una maledizione per me. Una volta erano usciti quasi tutti in cortile ed eravamo rimasti in pochi a scrivere, finito faccio vedere il mio compito alla suora, fremente per il desiderio di uscire e andare a giocare, la suora mi dice: “Puoi scriverle meglio, riscrivile con una calligrafia migliore. In quel momento non lo capii, ma questo si sarebbe ripetuto altre volte nella mia vita, ogni volta che ho incontrato una persona ottusa. Fatto sta che le riscrissi con tutta la rabbia che avevo dentro e nel modo peggiore di cui ero capace. Ho sempre avuto problemi con la mia calligrafia, o meglio gli ottusi hanno problemi con la mia calligrafia. Una volta in seconda elementare, emulando la mie sorelle maggiori, iniziai a scrivere le m e le n in modo rovesciato, ero già un pioniere a quei tempi, da prima sembrò che la cosa fosse stata accettata, poi un giorno, uno di quelli, in cui la nostra maestra era nervosa per problemi suoi, forse per il figlio un tipo che ricordo, ogni volta che veniva a scuola ci faceva divertire un casino. Insomma non ricordo il motivo, ma quel giorno ricordo che camminava in su e giù nella classe e ci gridava qualcosa, poi ad un certo momento, si avvicinò al mio banco prese il mio quaderno, lo apri, lo mostro a tutta la classe e in modo stentoreo disse: “Ditemi voi se è mai possibile scrivere in questo modo.” Non ci capii più niente per un bel po’ e l’insicurezza che mi generò quell’episodio non so per quanto tempo me la sono portata dietro; ‘sta stronza! Un altro episodio che ha avuto per protagonista la mia calligrafia, avvenne in seconda media, ero interrogato in inglese, dovevo scrivere una frase sulla lavagna: la scrissi, ti giuro la enne l’avevo scritta era solo un po’ piccola; prima di andare avanti devo dirti che quel giorno il professore, si era fatto degli occhiali da lettura nuovi, ne aveva fatto l’elogio a noi studenti ed aveva voluto un nostro parere, a me sinceramente non è che m’interessassero molto, ma mio malgrado, da lì a poco sarei stato determinate ed estremamente caustico nel giudicare i suoi occhiali. Dopo aver scritto la frase sulla lavagna, il professore si avvicinò e con un atteggiamento del tutto nuovo e particolare, dato dalla sua nuova protesi visiva, mi disse: “Qui manca la enne.” “No professore è un po’ piccola, ma c’è.” Risposi “Per me non c’è riscrivi la frase correttamente.” “Ma profe…” “Scrivi!” Mi ordinò con un tasso altissimo di ottusa saccenteria. Io la riscrissi, con una “piccola” modifica, feci una enne alta quaranta centimetri. Il professore si avvicinò nuovamente alla lavagna, rimase un attimo ad osservare, poi disse: “Perché hai scritto la enne così?” “Professore, io prima l’avevo scritta e… Così non corre il pericolo di non vederla anche stavolta, ma non è colpa sua, forse sono i suoi occhiali nuovi.” Andò alla cattedra si sede, apri il registro e disse: “ Quattro! Puoi andare.” Mentre stavo per sedermi al mio banco, mi guardò e mi disse ancora: “Ti ho messo quattro perché sei tu.” In quel periodo come tutti i ragazzi anche io vivevo dei problemi d’identità. Quella frase mi getto ancor di più nell’incertezza, con quell’espressione sibillina cosa voleva dire? ma! Prima di tornare a parlarti dell’asilo voglio raccontarti alcuni episodi di quel periodo scolastico. In italiano scritto oscillavo tra il tre e il quattro, ho avuto solo una professoressa che mi ha capito ma anche lei purtroppo, era soltanto una professoressa? Ce n’è stata una di cui voglio fare il nome, meglio il cognome il nome non me lo ricordo, si chiamava Creatino, be’ questa aveva una abitudine particolarissima, durante le lezioni di latino si masturbava. Che devo dirti, selvaggi come eravamo e con gli ormoni che stavano modificando i nostri corpi, la cosa poteva apparirci alquanto stuzzicante e piacevole, però non penso che fosse un sistema educativo molto corretto. Un periodo mancò e venne una supplente: bellissima, eterea, calma e comprensiva, feci un tema e presi sette e mezzo. Quando tornò la Creatino: “Non può essere che l’hai fatto tu, chi te lo ha fatto.” “Nessuno!” Era una mignotta! Scusa se sono scurrile, non è mia abitudine. Scurrile, questa parola mi ricorda qualcosa. Ricordo che un’insegnante aveva sostituito una sua collega per un ora, era nella nostra classe e stava spiegando qualcosa sulla luna, ad un certo punto della spiegazione, si rivolse alla classe e chiese se conoscevamo i buchi neri, io e il mio compagno di banco, istintivamente ci alzammo e insieme dicemmo di sì, poi lei aggiunse: “Quelli lunari.” Io e il mio amico ci guardammo. “A quelli no!” Successe il putiferio, venne il preside e in base a quello che gli aveva detto la professoressa, senza tenere in nessun conto quello che poteva essere il nostro punto di vista, ci sospese, per aver pronunciato frasi scurrili e volgari. Questi sono gli episodi simpatici di quel periodo, ti risparmio quelli drammatici; era la solita storia di sempre: “È un ragazzo intelligente ma non si applica.” Che io leggessi riviste scientifiche, che fossi esperto di alta fedeltà, che ascoltassi musica sperimentale, che già avessi un senso critico cinematografico, questo non contava nulla. Che ci fosse un morto ammazzato quasi ogni giorno, per quel fenomeno che era il terrorismo, non contava, la storia vera era quella di Napoleone. Ripensando con lucidità a quel periodo, nell’aver scoperto la psicologia, il talento d’essa, basterebbe liquidare tutto dicendo che i professori erano una manica di nevrotici; in realtà, questo è vero, ma la componente peculiare era la mia eccessiva sensibilità. Bernard Shaw diceva una cosa saggia: Chi sa fa chi non sa insegna, a questo io ho aggiunto: Chi non sa d’insegnare è uno studente. Ma chi non fa, non insegna, non è uno studente è un maestro. Il problema è proprio questo, ci sono troppi studenti e professori, mangano i Maestri e gli allievi. Quando un allievo incontra un professore invece di un Maestro, sono problemi seri per l’allievo. Tutta la cultura Italiana è infestata da studenti e professori è per questo che non esiste cultura in Italia; la cultura è prerogativa della dinamica del produrre sapere e non pedissequamente mal trasmetterlo, compito alquanto frustante che spetta al professore frustato perché non pienamente responsabile di questo suo essere. La cultura può essere generata solo dai Maestri e gli Allievi. Basta, Monia torniamo al periodo dell’asilo; alcuni giorni le suore, la mattina ci portavano al mare, non che accadesse granché, il bagno consisteva nell’inumidirsi i piedi sulla riva. Quando andavo al mare con le mie sorelle mi facevo il bagno come mi piaceva, non da matto come con le suore. Comunque questo stato delle cose ci portava a svolgere i nostri giochi sulla spiaggia, ne facevamo diversi, ma uno è stato significativo per me. Si stava giocando al principe azzurro, Biancaneve era una ragazzina molto più grande di me, di circa cinque anni; ne ero “innamorato” mi piaceva tantissimo, una giovane romanina di dieci anni. Chi doveva essere ad interpretare il principe azzurro? Mi battei con tutti i mezzi che avevo e alla fine con trepidazione (rimanemmo io e un altro) chiedemmo a lei chi di noi due dovesse fare il principe, lei indico me; ne fui contentissimo. Tutta la storia era stata narrata dai vari protagonisti e si approssimava la sua conclusione, il fatidico arrivo del principe azzurro – io - che doveva baciare Biancaneve e liberarla dall’incantesimo. Ero emozionato ma dentro di me avevo pochi dubbi, l’avrei baciata sulle labbra. L’abbracciai e premetti forte le mie labbra sulle sue, stavo lì e non sapevo quando dovevo smettere, lei non diceva niente e non apriva gli occhi, si lasciava baciare. Poi mi allontanai e allora lei aprì gli occhi; tutti mi dissero che non si aspettavano che l’avessi baciato sulla bocca: “Perché!” risposi; ero felice. Felice, lo dicevo spesso, in certi momenti ero con mia madre e senza nessun motivo dicevo che mi sentivo felice: “Ma perché, che ti senti?” Mi chiedeva mia madre. “Non lo so sono felice.” È la vita sai, la vita che ci rende felici, troppo spesso non pensiamo che alla vita se non come… causa della nostra infelicità; e quando ci sentiamo felici finiamo per dire che è per questo o qualcosa d’altro e non ci ricordiamo ch’è la vita a renderci felici. Io ricordo quei momenti di quando ero bambino, ero felice senza saperne il motivo, felice forse di vivere, senza nessuna motivazione particolare. La cosa importante è che non ho dimenticato quell’emozione e certe volte la sento dentro senza nessun perché, forse è questo il motivo per lottare nella vita, provare quest’emozione.
Ora ti saluto, Monia ci sentiamo alla prossima lettera.
19 Dicembre
In questo momento mi sento distratto, mi abbandono ai pensieri e dimentico di scriverli. Monia hai mai mangiato i bastoncini di liquirizia. Qui da me, molto tempo fa c’era un posto dove nascevano le piante di liquirizia, un posto ancora vergine, con stagni naturali, si trovavano le tartarughe nel loro habitat e gli uccelli migratori vi si fermavano. In un certo periodo dell’anno andavamo in questo posto a prendere la radice di liquirizia, la tagliavamo in bastoncini, lavavamo e la masticavamo succhiandone il succo.
C’era solo la rai il primo e il secondo canale, la TV dei ragazzi, carosello. Poi nacque la prima televisione privata del posto era via cavo. Chissà se hai preso in considerazione la mia lettera, forse l’avrai letta distrattamente e già dimenticata in mezzo a tante altre. Oggi durante il programma ti ho vista diversa, ti mancava un po’ di carica, sei intelligente che t’importa di quello che pensano gli altri di te. Sto interpretando arbitrariamente, dando consigli senza conoscere. Non so se continuare a guardarti in televisione; certo una persona è sempre se stessa, ma durante un programma televisivo, spesso finisce per essere l’interpretazione di un ruolo e diventa difficile enucleare la persona da quello che è il ruolo che deve svolgere. Voglio continuare a scriverti, senza rischiare di idealizzarti, avrei bisogno da parte tua di una comunicazione tangibile; per ovviare a questo pericolo, continuo con la mia filosofia. Io trovo davvero assurdi i muri che si costruiscono tra gli individui e cerco di abbattere da subito il mio muro per lasciare all’altro la possibilità del tutto propria di avvicinarsi, è il motivo per cui sto scrivendo senza censure questa lettera ancora ipotetica.
Monia ti dicevo: le trasmissioni via cavo erano davvero “spaziali”, infatti l’immagine era completamente immersa nella fantasia del telespettatore; la parte superiore dell’immagine era opposta a quella inferiore, con teste che fuggivano allungandosi verso la parte superiore del teleschermo e sembravano andarsi a nascondere dietro il televisore. Da qualche anno c’era stato l’avvento miracoloso della televisione a colori. Nascevano radio private ogni chilometro quadrato e radio Caroline una delle prime radio libere europee, trasmetteva da una nave che navigava in acque internazionali, sembrava un ricordo, era accaduto che un gruppo di amici che decidevano di mettere su una radio privata con poche lire, riuscivano nel loro intento. Il mondo stava cambiando e cambiando con una tale velocità che inevitabilmente avrebbe fatto le sue vittime. Man mano che crescevo frequentavo persone più grandi di me di tre o quattro anni, accadeva che non mi ritrovavo più con i miei coetanei.
Ti è mai piaciuto il rock? Il primo concerto rock importante che ho visto è stato quello di Patti Smith a Firenze, in questo momento non ricordo che anno era, di certo ero ancora minorenne; adesso che ci penso fu il suo ultimo, al culmine del successo Patti Smith si ritirò dall’attività di musicista, apri un negozio fece un figlio e continuò a scrivere poesie. So che alcuni anni fa ha inciso un nuovo album, non l’ho comprato, adesso amo la musica in generale, con una predilezione per il Jazz e la musica classica, non più da esperto fanatico, ma da appassionato, l’unica selezione che faccio è tra ciò che reputo un prodotto artistico e ciò che non lo è; …non l’ho comprato perché è qualcosa che ormai sento lontano da me. Alcune volte mi capita di incontrare persone che frequentavo in quel periodo e alcune di esse, sembra incredibile ma sono rimaste ferme a quegli anni.
Quel giorno del concerto fummo più di centomila e c’era gente di tutti i tipi e di tutte le razze, i concerti a quell’epoca costavano poco, il biglietto costava tremilacinquecentolire. Per me era una delle prime esperienze di musica dal vivo, ma c’erano molti di generazioni precedenti la mia; il quel periodo la sete di concerti di un certo tipo era tanta; ormai erano molti anni che i grandi gruppi rock disertavano l’Italia, per i problemi che vi erano stati nel periodo del 68 e giù di lì. Io e gli amici che erano con me riuscimmo a prendere posto abbastanza vicino al palco. Eravamo partiti la mattina presto, meta lo stadio di Firenze. Il concerto fu lunghissimo, dei piccoli gruppi contestarono quando Patti Smith cantò la canzone ispirata dalle immagini viste in televisione di papa Luciani. Sai non sempre quelli che parlano di libertà sono tolleranti con la libertà degli altri. Durante il concerto l’odore che si sentiva era quello della marijuana, l’unica volta che forse ho fatto uso di droghe, era proprio difficile non respirare tutto quel fumo passivo. In un altro concerto: Iggy Pop, incontrai un mio amico steso per terra che stava fumando un cannone così, fu una sorpresa perché non pensavo proprio che a quel tizio potesse accadere; che si era dimenticato che significava divertissi? Quello stesso giorno ci fu un altro episodio che ricordo bene, - incominciavano a comparire le siringhe - ci fu un ragazzo che in mezzo alla strada, ebbe un’embolia e diventò cianotico, anche la droga cambiava. Torniamo al concerto di Firenze, finì tardissimo e quando andammo via più per la stanchezza che per il lungo viaggio che ci attendeva per tornare a casa, Patti era al pianoforte e continuava a suonare, con le persone che erano salite sul palco e gli erano intorno. Per la cronaca io avevo i capelli fino a metà schiena, però ci tengo a dirlo erano igienicamente perfetti. La mattina dopo si trovarono veri oggetti intimi sul prato, ma a me non era successo niente, sapevo resistere alle tentazioni e aspettavo ancora il mio amore. Ripeto erano anni di rapida trasformazione tecnologica, sociale; ma io penso che il malessere che sentivamo noi giovani, non poteva essere ridotto a un fattore naturale della nostra crescita, dei nostri ormoni, il nostro sentirci in crisi era più profondo più anonimo, fuggevole senza un’identità per noi identificabile. Attorno a me le persone si ammalavano e le stesse persone che erano state felici con me nell’infanzia, adesso giocavano con spade e polveri. Erano passate le lotte politiche e a noi non avevano chiesto nulla, c’era la guerra, il terrorismo e nessuno ci aveva chiesto che ne pensavamo noi della vita. Era il momento di agire di fare, ma c’era la paura di quel che stava accadendo, i progetti di felicità che avevamo fatto ci erano stati rubati, defraudati di ogni nostro libero arbitrio, non era bene parlare liberamente e non parlavamo, senza sapere perché, tutta la spazzatura degli altri era caduta addosso a noi; vivevamo un senso di colpa che non era nostro, attraverso le conseguenze di un agire non nostro. Una generazione che non riusciva a vivere, e forse, senza il suo tempo. Ieri Monia ho scritto alla redazione del tuo programma, sulla lettera ho fatto dei commenti anche su di te, spero che ti capiti di leggerli. MONIA!
20 Dicembre
Bellissima non so sarà ch’è tardi ma incomincio a disinteressarmi dei flussi di questo passato che mi hanno fatto scrivere le lettere precedenti… ci sono molte cose da dire, da spiegare e forse analizzare per rendere reali e comprensibili quei momenti a chi non li ha vissuti; ho molti altri episodi da narrare che servirebbero a tale scopo, molti anche divertenti, te li racconterò in un’altra occasione. Forse oggi non è una giornata ideale per scrivere, avverto un leggero senso di apatia, che non mi piace, un leggero velo di tristezza; il piacere di queste lettere che sto scrivendo è quello di un’ineffabile leggerezza. Voglio tornare a quel perché che mi aveva rivolto Corrado è da lì che ho iniziato a parlarti con i flussi del passato Monia, da quel perché a cui dovevo rispondere, ma non l’ho fatto. La cittadina in cui vivo ora è cambiata, cambiata, si è estremizzata, forse c’è più benessere economico, ma con esso è cresciuta la volgarizzazione. Si è generata l’ambizione di culture che non hanno avuto il tempo di elaborare il loro passato. In Italia il 30% dei laureati non legge neanche un libro l’anno, altrettanti, forse uno o due, ch’è anche peggio. L’ineffabilità della parola scritta per costoro è pari all’ignoranza atavica che si portano dietro. L’importante non è leggere genericamente, ma saper leggere. Non mi piace fare questo discorso mi sento futile e anche un po’ razzista. Ma ce lo con quel ch’è stato lo spopolamento delle campagne in Italia. Le generazioni che hanno fatto questo primo passo hanno prodotto nelle loro discendenze, trasmesso tutto il bagaglio di frustrazione sociale che la condizione precedente aveva creato nel loro modo d’interpretare la vita. I loro figli sono stati il mezzo, il riscatto sociale a cui hanno delegato l’emancipazione, come una costituzione di razza. Il divario culturale era troppo grande ed una generazione è del tutto insufficiente per un riequilibrio. Per paradosso la tirannia dei titoli nobiliari, da cui era necessario emanciparsi è rimasta nei loro sogni; sogni che hanno pensato di realizzare appena l’apparato sociale ne ha mostrato l’ipotetica strada. Ciò è avvenuto in una realtà simbolica, che ha rigenerato quella illusoria dell’epoca dei titoli nobiliari. La ricerca di un simbolo che sempre più spesso identifica una categoria sociale indipendentemente dalle reali capacità che l’individuo in possesso del simbolo ha. Lo scadimento morale culturale, dell’intera struttura sociale è da imputare al cresciuto numero di persone che si sono impossessate della realtà simbolica senza integrare ad essa la reale capacità, il significato del simbolo. Per paradosso assistiamo a persone che per esempio hanno il simbolo per essere medici, ma non hanno nessuna capacità per essere medici. Com’è possibile che si sia creato uno scollamento così profondo tra quello ch’è necessario essere per essere e quello che ci fa raggiungere questa dimensione. Il motivo immediato va riscontrato nell’eccessiva “burocratizzazione”, per paradosso non è più necessario saper fare per dimostrare le capacità, ma mostrare il simbolo indipendentemente da come suddetto simbolo si sia ottenuto, attraverso un meccanismo così subdolo di istruzione che non ha più la capacità di generare al contempo l’autentica capacità culturale di quel che si fa. È così che diventa plausibile assistere a persone istruite ma con la spiccata tendenza a produrre ignoranza in quantità e livelli ormai insopportabili per le necessità strutturali, che sempre più hanno bisogno di una dimensione composita ed elastica, che può solo svilupparsi attraverso l’accrescimento, ampliamento della capacità culturale. È incredibili come le persone di talento siano impedite nella loro realizzazione da un sistema che non vuole evolversi malgrado rischi di perire sotto la spinta della sua stessa sclerotizzazione. C’è tutto un apparato di potere d’istruzione che va smantellato e raso al suolo, con tutte le cariatidi che vi sono al loro interno. Le trasformazioni significative e positive della storia sono venute dalla liberalizzazione della realtà di saper essere per fare. Cara Monia non so se tutto questo t’interessa, sinceramente non trovo più molto interessanti questi discorsi, scusami. Per ora ti lascio ci sentiamo nel proseguo, alla prossima lettera. Di te ancora nessuna notizia, sei un personaggio pubblico, mannaggia.
23 Dicembre
Sono tre giorni che piove, il Natale è prossimo; ieri ho scritto un’altra lettera alla redazione del tuo programma, ho provato ad utilizzare il telefono, ma con la segreteria telefonica non riesco a parlare, ho provato a dire qualcosa ma non so proprio cosa sia uscito fuori; ho cercato di rimediare al messaggio telefonico, poco chiaro scrivendovi, rileggendo la lettera, mi sono accorto che l’ho scritta e spedita con qualche errore, pazienza. Non so se mai leggerai quella lettera vi parlo dell’utilizzo che fanno di te. Pensandoci non so neanche se mai tu leggerai questa di lettera. Eppure ho voglia di continuare a scrivere, lo faccio pensando a te, ma man mano che procedo mi sono accorto che ne sta venendo fuori un lavoro interessante, potrebbe diventare il racconto di una lettera che non è stata mai spedita, (spero di no) la storia di una persona che cerca di comunicare con un’altra, ma finisce per comunicare con se stesso, forse questa è la prima stesura di un lavoro che può diventare letterario, comunque spero che non perda la sua dimensione epistolare, che tu mi permetta di spedirtela.
Mi manca il mare, se pure lo posso osservare mi manca il suo contatto fisico. Vorrei prendere la bicicletta e correre felice in spiaggia, stendere il telo da mare sulla sabbia, sentirla sotto di me, spogliarmi e ascoltare il profumo dei raggi del sole ancora tenui e delicati, la mattina presto, quando la spiaggia è ancora deserta. Vorrei entrare in acqua e sentire la sua temperatura sulla pelle, tuffarmi e sentirne tutta l’intimità; poi nuotare, nuotare, allontanarmi dalla terra, dall’indifferenza, dalla tiepidezza dei rapporti umani, sentire il sapore, il respiro e finalmente l’acuta intensità, profonda insaziabile, tanta, il rapporto con un mondo diverso, vero, un mondo che non ammette paura, se non quella vera; così lontani dalla costa non si può fingere. O riesci a guardarti, essere tutt’uno con il mare, altrimenti rischi di non riuscire più a tornare indietro. Essere se stessi senza più ricordarsi chi si era. Ciao!
25 Dicembre Natale
22,58 Cara Monia ho la febbre, e dato che la mia Dentatura è bella, non pensavo mi accadesse, un premolare ha fatto tilt e ho una guancia come un melone. Tanti auguri al mio amico Gesù e naturalmente a te.
1 Gennaio 1995
Monia Venerdì, finito il programma ti ho vista felice, sono sicuro che avresti voluto abbracciare qualcuno, che peccato che io non abbaia potuto prendere quell’abbraccio. Nei prossimi giorni cercherò di scriverti, anche se avrò poco tempo a disposizione.
2 Gennaio
Monia oggi ho visto la trasmissione, da domani Ciarli e Joe non ci saranno più; che Ciarli ne ha combinata qualcuna delle sue o si tratta di tagli al programma o… Ho scoperto che Joe si chiama Sergio.
4 Gennaio
Ho una gran voglia di scrivere e di leggere, ma mi trovo in un periodo in cui non riesco a trovare la concentrazione giusta. Ho bisogno di rendere più intensi certi miei stati d’animo, devo chiudere alcune cose che ho scritto ed altre portarle avanti. Voglio ritrovare anche il flusso della memoria, per continuare a scriverti queste lettere. Spero che tu non ti sia annoiata nel leggere tutto ciò che ho scritto fin qui, era tanto che non ripensavo a certi momenti della mia vita passata, ed ora che li vedo con un certo distacco mi è apparso piacevole rivisitarli, dare ad essi uno sguardo, forse un po’ disattento, ma che importa. Forse leggendo le storie sulle lettere che precedono ti sarà parso che appartenessero ad un periodo molto lontano nel tempo e forse avrai pensato chissà quanti anni ha questo? Sono nato il 30 Ottobre 1963, debbo essere sincero, non presto molta attenzione alla mia età. Dovrei spiegarti questa affermazione, ma scusami lo faccio un’altra volta.
Stasera vado ad un concerto Jazz in una sala da tè. In questo momento mi vengono un sacco di pensieri, che mi sembrano belli ma ora mi manca lo spirito per scriverli. Monia, adesso ti faccio ridere, ma non troppo, fossi la musa che cercavo.
UN BACIONE FORTE E GRANDE
N.B.
Non penserai mica che la tua vita non mi interessa, cavolo! Dimmi tutto.
Tuo Bret
ATIA — Sembravano giorni tutti uguali, eppure stava accadendo qualcosa dentro quella generazione che l’avrebbe segnata per sempre, una frattura con la propria realtà; giorni di pioggia senza nessuna protezione, grandi gocce sulla pelle senza nessuna consapevolezza; afferrare qualcosa che non sai dov’è, cos’è. Quanti discorsi, c’era stata una lotta, una lotta per delle illusioni, noi ci siamo rimasti in mezzo senza che la nostra voce avesse un suono, solo un tormento sentivamo dentro, un’angoscia che per noi non aveva motivo. Ogni giorno guardando il telegiornale c’era l’annuncio di un attentato: un morto ammazzato un gambizzato: Il terrorismo. Prima nero poi rosso. Ricordo che guardavo la televisione, c’era una strada, un corpo in terra dicevano che era morto un giudice; è un’immagine che mi è rimasta ferma nella mente, ma io ero solo un adolescente. Tra i nostri discorsi c’era sempre qualcuno che diceva che quello che volevano i terroristi era giusto, erano solo i mezzi sbagliati. Discussioni tra un concerto e l’altro. Ma in che dovevamo credere, noi. Io osservavo ma non capivo non era quello il mio mondo, non mi trovavo e intorno a me c’era chi aveva trovato una siringa, che non ho mai preso.
… Dove c’è competizione non può esserci arte, non ricordo chi lo ha detto, ma trovo questa affermazione vera. Dove vi è la competizione c’è l’omologazione, l’affermazione di un primo. Chi è artista sa bene che il suo compito non è quello di diventare primo e in ciò omologarsi, ma di trovare la propria unicità, il proprio rapporto con l’assoluto oggettivo, e scoprire la sua peculiare unicità nell’instante in cui la sua soggettività raggiunge il suo limite e inizia ad integrarsi in una reale dinamicità con l’oggettività. Il ‘vero’ artista è unico, già prima della sua arte.
Ma qual è la differenza tra la creatività artistica e ogni altra creatività?
La creatività dell’artista si differenzia, dalle altre forme del saper fare, perché l’artista nel creare non sa fare, ma scopre un cammino originale del fare, scopre il fare; ma non è tutto perché insito in tale scoperta, o meglio ciò che porta a tale scoperta è la spinta ad essere, a sentirsi e sentire. Nelle altre forme del fare non artistico c’è la capacità di saper reinterpretare mnemonicamente la scoperta del fare artistico, come già fatto, prodotto e quindi riproducibile. Ma chi riproduce non è né un artista né fa arte. L’arte si compie nella sua irriproducibilità e nell’atto peculiare di ogni artista del sentirsi al suo limite soggettivo e nella scoperta oggettiva.
L’artista non ha bisogno di competizione, gara con il prossimo, ma di conoscenza e confronto con tutto ciò che è altro da se stesso. L’artista è in confronto continuo con l’assoluto attraverso la sua capacità di essere nudo di fronte ad esso; l’artista giunge a rischiare le sue capacità esistenziali, per scoprire attraverso la simbolicità dell’arte quello che nessun simbolo può esprimere, questo continuo confronto con l’indicibile è il cammino della sua ricerca, la genesi dell’arte
…è importante moralizzare l’arte, l’unica modo per fare ciò è quello di ricostruire il senso dell’artista; l’artista può essere tale solo attraverso la sua capacità etica, solo nella sua autenticità. L’artista crea l’arte prima che l’arte sia scoperta. L’arte può essere intesa in molti modi ma è arte solo quando è legata all’eticità dell’artista; l’arte siffatta è una possibilità per ognuno di capire e capirsi. Peccato che nella maggior parte di quelli che entrano in contatto con l’opera d’arte, manchi questa elementare capacità. Ma ciò è spesso imputabile a quel marasma di persone cosi dette competenti, che nonostante la loro cosi detta competenza, (in realtà non è niente altro che conoscenza mnemonica) non hanno nessuna capacità di capire realmente. Questa capacità va appresa dall’artista, infatti l’artista che vive in rapporto e in costante ricerca del conoscere, anche quando entra nel confronto con uno specifico a lui ‘sconosciuto’ riesce a capire e sentire l’atto che lo ha generato, o altrimenti utilizza i mezzi della sua incomprensione trasformandoli in atti per poter comprendere…
Negli anni ottanta l’arte è diventata una forma d’investimento, ciò è accaduto in prevalenza a quell’espressione artistica più legata all’immagine; questo ha generato lo svilupparsi del fenomeno dell’omologazione: l’arte ha smesso di essere arte e gli artisti con essa, la gara al primo posto ha generato moltissimi concorrenti che si spacciano per artisti. Ciò ha sviluppato un incredibile quantità di surrogati d’arte, fino al suo collasso, lasciando un sistema che non conosce più l’identità dell’arte, che ha perso, o meglio dimenticato gli artisti per sostituirli con qualcosa di più redditizio sotto il profilo economico; è stata creata quell’assurda cosa che si chiama il sistema dell’arte. In un clima tecnoculturale che genera maggiore incertezza questo è stato un modo, illusorio, per vincere le proprie paure, rinnegando l’arte stessa che è la lampante capacità di affrontare la paura, l’incertezza dell’uomo per capire. In mezzo a tutta questa cialtroneria gli artisti si sono ritirati in un altrove proseguendo la loro ricerca e attendono che chi e ormai intossicato da tutte queste buffonAte abbia la capacità di fare una cura disintossicante. Tutti questi individui che non si sono accorti che gli artisti sono ormai oltre loro, vivono nel più totale caos, avendo perso ogni riferimento e nell’incapacità di costruire un riferimento con l’oggettività, mostrano tutta la loro confusione. Guardano al passato non con coerenza, ma con una sorta di nostalgia per una loro ipotetica capacità di capire, ormai avuta e che vorrebbero tornasse. È evidente per chiunque ha un minimo di freschezza ed integrità mentale in che pantano siano finiti costoro…
Lolì rivolta a Bar. “Ehi bar, guarda lì quel tizio, sta leggendo!” Bar alza lo sguardo e guarda in direzione dello sconosciuto, vede che ora ha due pacchi di fogli sul tavolo e il suo viso è rivolto su uno di essi. “Sembra che attorno a lui non ci sia niente, scommetto che non sente nemmeno il gruppo che sta suonando, è così immerso in quei fogli che ci ha dimenticati tutti, che ne pensi Bar?” “Non so, può essere chiunque.” Lolì continuava ad osservarlo, lo avrebbe osservato fintanto che lui non se ne fosse accorto, sapeva che era la sua curiosità, ma aveva deciso che quella sera lo avrebbe spiato fino a quando non se ne fosse andato.
…le divisioni manichee tra l’arte moderna e quella del passato, sono ridicole e assurde. E ancora più assurde sono quelle persone che hanno confuso la loro paura con la comprensione dell’arte in tutte le sue espressioni, edificando assurde divisioni. È impossibile comprendere la classicità se non si comprende il valore che ha avuto la contemporaneità in quell’opera classica; ma lo stesso la contemporaneità è incomprensibile senza il capire tutto il tempo e…
L’uomo seduto che sta leggendo, avverte dentro di se un leggero disagio, vorrebbe non reagire subito al suo stato d’animo, ma istintivamente alza il viso dai fogli e posa il suo sguardo verso chi lo sta guardando.
Lolì non si aspettava quel suo gesto repentino, che l’avesse guardata a quel modo. Lolì sentì il suo viso che si voltava, da solo si allontanava da quello sguardo, un riflesso condizionato che lei non desiderava, ma il suo corpo era stato sorpreso ed aveva reagito automaticamente, inconsapevole; tornò a voltarsi verso di lui, ma lui non la guardava più. L’uomo aveva avvertito lo sguardo di quella donna, ma non sapeva spiegarsene il perché, dentro di sé era confuso, stava leggendo e ciò lo aveva distratto.
Ha preso la bottiglia di porto che ha sul tavolo, sa che ora lei lo sta guardando, fa per versarsi da bere, ma ci ripensa; posa la bottiglia, lentamente alza lo sguardo e guarda il viso di quella donna. Lolì ‘sta volta non si volta, lo guarda e incrocia i suoi occhi, ma non sa cosa fare, se sorridergli o cosa, quello sguardo la messa in uno strano stato d’animo, non fa nulla e continua a guardarlo. L’uomo non sa cosa pensare di quella donna, abbassa lo sguardo sui fogli che ha sul tavolo, prende il pacco che ha alla sua sinistra e lo deposita sull’altro, adesso è tornato quello di prima un unico pacco, l’uomo ha ripreso il suo sguardo assorto e sembra non guardare nessuno.
“Barman, mi dà la linea?”
“Cabina numero due.”
“Grazie.”
Era entrato di corsa nel locale. Deve telefonare a Luisa; entra nella cabina, compone i numeri:
5… 6… rispondi.
— Pronto?
— Ciao sono io.
— Ma hai visto che ore sono?
— Sì, scusami lo so, ma… Luisa è che non riesco a dormire.
— Che c’è, ch’è successo?!
Matilde — Cinquantamila.
— Come…? sì sali, sali.
— Non so come dirtelo. Sai che ti amo, sai che ti… Oh cavolo, mi è successa una cosa stasera, ma non so come dirtelo.
— Dimmelo e basta.
— Come ti chiami?
Matilde — Matilde.
— Sembri il personaggio di un libro.
Matilde — Come?!
— Sei così bella, sembri uscita da un libro.
— Stasera sono tornato a casa ch’era tardi, sai che a quell’ora per strada si incontrano delle prostitute. Ero infastidito dalle macchine che disturbavano il traffico, una mi aveva bloccato, stavo per suonare il clacson; poi non so, mi sono voltato e lì affianco alla macchina c’era lei. Assomigliava a una fanciulla del Botticelli. L’ho guardata un attimo, la strada si è liberata, ho premuto l’acceleratore… Dopo un po’ mi sono fermato ho fatto inversione e sono tornato indietro…
Luisa ascolta, non riesce a dire nulla, gli sembra di non capire, ma in realtà ha compreso tutto. Si sente debole, la fronte sudata e ha avvertito quel grido muto, quello spasimo che le contrae lo stomaco.
“Non è possibile, no non può accadere.”
Pensa
Non può credere che sia accaduto a loro, che la corruttibilità che si impadronisce della vita, li abbia raggiunti, lì dove pensava di essere al sicuro, nel suo amore così pieno di tempo; invece è accaduto e lei ne avverte forte il rumore, assordante, che non gli fa più sentire la voce al telefono.
— Dove vado?
Matilde — Gira qui.
— Che c’è, sei triste?
Matilde — Sì.
— Perché non ce ne andiamo da qui; andiamocene dove possiamo passare la serata come due persone…
Matilde — No! non posso.
… era ancora lì, sola; ho fermato la macchina, dall’altra parte della strada. In quel momento non passava nessuno, c’era uno strano silenzio; ho aperto il finestrino e ho fatto un gesto per dirle di venire. Lei ha attraversato la strada, mi ha raggiunto, m’ha guardato un attimo con timidezza e poi… mi ha detto il suo prezzo. Quando è salita in macchina ho potuto vederle meglio i lineamenti, l’espressione dei suoi occhi: particolari ma… quanta tristezza…
— Di dove sei?
Matilde — Albanià. Ferma qui!
— Matilde, scusa se insisto, se ti disturba non rispondermi, ma perché tutta questa tristezza?
Matilde — Il lavoro, non voleva fare questo, lavoro normale no questo.
— Ma perché sei venuta in Italia, stavi male in Albania?
Matilde — Sì.
— Ma eri felice?
Matilde — Sì!
— Bisogna stare, dove si è felici è lì che vale la pena lottare, è lì che la sofferenza si riesce ad accettarla.
…che potevo fare, mi sentivo impotente, un essere umano così bello che la vita stava spegnendo ed io chi ero? Mi ha indicato dove andare, dove fermarmi, ma non pensavo a cosa avrei fatto, quale era la cosa da fare non lo sapevo…
— Matilde, sembri così giovane, quanti anni hai?
Matilde — Diciotto.
— Senti Matilde, io ti desidero, ti trovo bellissima, ma così non posso; troppa tristezza, tu non vuoi, lo fai solo perché sei costretta, non posso cerca di capirmi. Ti porto a casa.
Matilde — A casa?
— Cioè… Lì…
Matilde non sa come comportarsi, chi l’ha sfrutta le ha spiegato come ottenere il denaro dai clienti nel più breve tempo possibile. Non capisce cosa vuole da lei questa persona. È gentile, ma Matilde vive tutta la fatica di aver creduto alla subdola gentilezza di chi l’ha portata in Italia, ed ora perché dovrebbe fidarsi di un estraneo. Si sente osservata nota lo sguardo di lui posarsi sulla cicatrice che ha sulla guancia, si vergogna, si vergogna di ricordare perché le hanno fatto quello sfregio, si vergogna di essere lì, si vergogna di quello che sta per fare, “si vergogna.” Ha aperto l’involucro del preservativo e pensa a quel sapore di lattice, lubrificante, che tra un po’ sentirà in bocca; non gli piace ma deve vincere lo schifo, ha paura di quello che potrebbero fargli se… Con un gesto indica al cliente di togliersi i pantaloni. Lui gli dice che non può, perché lei è triste. Sente la parola casa, lo guarda stupita.
— Se fosse veramente gentile; può darsi che lui possa aiutarmi. Quanto vorrei tornare a casa in questo momento.
Matilde guarda l’orologio, si accorge che è passato troppo tempo, sente l’ansia, la paura, un cliente e non ha guadagnato nulla, ogni preservativo cinquantamila. Ne ha aperto uno che non ha utilizzato, lo conserverà farà vedere che lo ha ancora. Prova rabbia, pensa che ha perso tempo e soldi, solo questo deve considerare, pensare.
Matilde — I soldi!?
— Se vuoi te li do, ma…
Matilde — Torna là, presto, presto!
— Matilde, penso che mi ricorderò di te.
Matilde — Non me ne frega NIENTE!
Luisa. Quando ho fermato la macchina lei ha preso la borsa, ne ha tirato fuori un preservativo e mi ha fatto capire che dovevo togliermi i pantaloni. Le ho risposto che non potevo. Poi ho detto una cosa strana, volevo dirle che la riportavo sulla strada e invece ho detto: Ti porto a casa. Il suo viso… per un attimo sembrava felice. Se avessi potuto, avuto il coraggio l’avrei fatto; portarla via, via da quel posto. Ma l’ho delusa subito, ho avuto solo la debolezza. L’ho accompagnata sulla strada.
Luisa, io… l’ho desiderata, ed ora mi è rimasto il peso delle sue parole, la tristezza del suo viso. Luisa io non volevo, non voglio “tradirti”, che cosa è successo? Dove quando è avvenuto che ho superato quel limite? …Perdonami.
Luisa dimmi qualcosa.
— Ora… No!
— Matilde a volte incontriamo qualcuno lungo il cammino della nostra vita, ma non comprendiamo, subito, “quando” questo incontro sia importante, col tempo finiamo quasi per dimenticarlo. Poi un giorno, all’improvviso ce ne viene svelato il vero significato è la vita stessa a farcene comprendere tutta l’importanza. Scusami.
Matilde — Ciao!
È nell’auto e gira per le strade, è notte e non riesce a tornare a casa. Pensa a Matilde, alle sue frasi alle sue parole, l’espressione del suo volto. Ma quello che lo tormenta di più, che lo fa stare veramente male è il pensiero di Luisa di quello che le ha fatto. Se servisse vorrebbe tornare indietro per cancellare tutto quello ch’è avvenuto. Perché non ha preso un’altra strada, perché proprio in quel momento ha attraversato quel tratto di strada. Capisce che deve dire tutto a Luisa, non ha altra scelta. Vede un locale aperto, ferma la macchina, entra nel locale, c’è musica; vede le cabine telefoniche, chiede la linea telefonica all’uomo ch’è dietro al bancone. Mentre compone il numero, pensa a Luisa, la donna con cui parlerà tra un po’ al telefono. Prima di comporre il numero dice queste parole:
— Ce la faremo, io e Luisa ce la facciamo a salvarci. 7… 5…
Esce dalla cabina, si fa strada tra la gente raggiunge il bancone fa cenno a Bar, posa dei soldi sul banco; si avvia verso l’uscita. Bar raccoglie i soldi si accorge che sono di più: “Ehi il resto?!” Ma l’uomo è già uscito.
Uscito correndo da “quel locale, forse triste? Nello svolgere questo atto urtò, mentre usciva, chissà forse solo inavvertitamente, il tavolo di due donne… ma prima di addentrarci nel loro dialogo avvertiamo la necessità di conoscere il punto di vista e in esso la sorte di Matilde.
Era sempre lui un anno dopo, l’aveva vista altre volte ma senza esserne pienamente sicuro, lì lungo la strada che osservava il tragitto di uomini troppo sazi in un mondo di cui non conoscevano il loro dirsi perché. Ero lì mi sono fermato e ho visto lei, ma l’ho solo intuita, Matilde, nascosta tra i desideri delle altre, che come lei “mi attendevano” era seduta ed ascoltava solo il desiderio di un ricordo ch’era stato ormai sopito e solo risvegliato da altri momenti da altri incontri, dall’espressione di echi che lui aveva soltanto lasciato al tempo di quella strada: Era salita in macchina: Come ti chiami? Laura. stop
Ferma Qui!
Lasciati guardare, dentro me avevo intuito chi era; anche lei mi conosceva (voleva solo sapere se la ricordavo)
Guardami, sei Matilde (…sei albanese)
Mi piace scrivere, questo è un romanzo, ma i miei pensieri sono per un unica donna, Noa pensò un uomo seduto nel locale.
Che strani occhi Matilde, ti danno un momento unico di tristezza…
Abbandoniamo questi suoni, queste parole e perdiamoci nei molti suoni del locale, passiamo da un tavolo all’altro, sperando di trovare altre parole, persone che ci dicano alcuni dei loro pensieri. C’è un tavolo nel lato opposto a dove è seduto quell’uomo con quel pacco di fogli, in questo altro lato del locale, c’è un gruppo di persone che sembrano impegnate in una discussione, al dialogo, uomini e donne di cui non conosciamo il nome; ma avviciniamoci, inavvertiti e quasi invisibili, ascoltiamo quello che si dicono. Anche se io invento queste parole, ne so quanto voi, non so quello che ascolteremo, per ora il dialogo che si cela dentro i loro pensieri è avvolto in quel mistero che solo il suono di una voce, la prima che ascolteremo, ci svelerà:
“Buonasera!
“Salve!
“C’è un posto dove posso sedermi.
“Guardi quel tavolo là in fondo, è occupato da una sola persona, è abbastanza ampio e può starci senza essere disturbata.
“Grazie.
La persona che abbiamo sentito conversare con Sciappi è appena entrata nel locale, ci ha distratto dalle persone che stavamo per ascoltare, lasciamole e seguiamo questa donna, sento ch’è la pista giusta per questa storia.
Si siede guardandosi intorno, si distrae e guarda verso la band che sta suonando, concentrata sulla musica. Si sente osservata, si volta e incontra lo sguardo di un’altra donna… L’aveva vista entrare sola, parlare con il ragazzo che serviva ai tavoli e poi sedersi lì dove c’era quello sconosciuto, Lolì aveva osservato quella donna: bionda con una leggera permanente, dal viso ovale, quando le era passata vicino aveva incrociato i suoi occhi, occhi di uno strano colore azzurro verdi, una donna bella come tante, come tante. Ora loro si stavano guardando e tra un momento si sarebbero dimenticate.
…Poi prende un quaderno dalla sua borsa, lo apre e inizia a scrivere.
Noa 7. Settembre.
Amore mio!
Quando tu leggerai questa lettera io già sarò lontana da te. Ma non dimenticare mai che profondamente ti sarò sempre vicina.
Pensa a quello che mi hai promesso e non essere triste. Sono sicura che tra poco ci vedremo. Anche per me è bene tornare un po’ nel mio ambiente, nella mia nazione, così posso sistemare il grande casino che c’è dentro me.
Amore cerca di essere e di rimanere te stesso. Non so dove ci porterà la vita, se staremo insieme o no, ma pensa che il tempo che abbiamo trascorso uniti è stato bellissimo e nessuno ce lo potrà rubare.
Con un po’ di buona volontà e l’aiuto di Dio troviamo una soluzione; così tu dipingi e io ho la macchina grossa; no, non sto scherzando, ma forse ci aiuta anche il tempo.
Voglio che tu sappia che succeda quello che succeda, ti ho amato con tutto il mio cuore.
La vita si può guidare fino ad un certo punto, ma io penso come Sinuhe dell’Egitto, che la nostra strada è già scritta nelle stelle dal giorno che siamo nati. Per questo non mi preoccupo troppo, perché se c’è scritto che passiamo la vita insieme, vedrai la passeremo insieme.
Amore mio,
quando hai bisogno di sfogarti, di parlare con qualcuno che ti capisce scrivimi, cercherò di comprenderti.
E adesso dipingi, leggi, scrivi, fa un giro in bicicletta e sii felice, che la vita è troppo corta per passare dei momenti tristi.
Un gran bacio e tutto il mio amore
Noa
Giunsi nella città dove viveva Emili che era sera, la voce della donna che annunciava l’arrivo del prossimo treno riecheggiava dentro l’immensa galleria della stazione e un via vai di profumi e di suoni inseguiva la gente che vi era e che agiva. Lunghi corridoi affollati dagli emarginati di un’altra umanità, la stessa che non ha più memoria del perché. Camminavo dentro questi luoghi osservando la gente i loro visi, cercavo di scoprire qualche loro motivo, qualche volta un barbone mi chiedeva un po’ di spiccioli restava a parlare con me della sua vita, dei suoi ricordi, della fatica di ricordarsi di tutti i giorni. Chi ero io per avere l’offerta delle sua storia della sua memoria: uno sconosciuto in una città sconosciuta che mi accoglieva dentro quel mondo di esclusi, di suoni dilatati.
La lunga fila di taxi si muoveva rapita come la fila delle persone; un taxi dopo l’altro partiva veloce, verso un luogo, uno spazio di questa città: uomini con ventiquattrore in pelle e pellicce su corpi di donne ricche. Ricordo la velocità che avvolgeva tutto ciò, una velocità che mi appariva senza anticipi. Nel suono, nel suono notai la peculiarità del tempo di questa città, un suono che non aveva silenzio tra un rumore e l’altro, ma solo maggiore o minore intensità di decibel. Il mio taxi percorreva strade bagnate che nella luce della sere mi avrebbero portato dove lei mi aspettava.
Emili, 28/Settembre/ h 23.20 (ora legale)
Caro,
ci siamo appena sentiti e non vedevo l’ora di correre a casa e mettermi tranquilla nel mio letto per scriverti questa lettera, per dirti tutto ciò che non sono riuscita a spiegarti per telefono.
Sono triste, mi dispiace tanto aver terminato la telefonata in quel modo. Hai ragione non era un argomento da trattare così… alla fine e senza avere la possibilità di terminarlo. Ti chiedo scusa per questo, ma non solo… devi scusare anche i miei dubbi, le mie incertezze. Sai io non è che non ho fiducia in te, ma ho paura, tanta paura di soffrire. Non so come mai, ma sento nei tuoi confronti “un’attrazione” particolare, non solo fisica, mi attrai come “personalità”, modo di essere, di fare, di pensare; mi piace parlare con te, stare con te (sapessi quanto mi manchi!!) Non ho mai provato un sentimento così forte, ed è per questo che ho paura.
Io ti amo, ne sono sicura, non lo dico tanto per dire (e poi ti ho già detto che non ti mentirò mai). Stasera ho sbagliato a parlarti così, non so perché l’ho fatto, forse per difesa, per cercare di “nascondere” quello che provo realmente nei tuoi confronti prima di essere certa dei tuoi pensieri, del tuo amore. Non è giusto, lo so, ed è per questo che ti dico, anzi grido: “Ora basta!” Hai ragione sto pensando troppo e mi fa male, da oggi in poi sono quello che sono, ti dirò e dimostrerò tutto quello che provo per te, avrò pazienza di “aspettarti” e nel frattempo apprezzerò ogni cosa (dalle più piccole) che riuscirai a darmi, aspettando il momento in cui tu ti aprirai completamente donandomi tutto il tuo amore. Sono certa che insieme riusciremo ad instaurare un rapporto meraviglioso, unico. Non ti deluderò e credo di riuscire ad aiutarti a ritrovare il coraggio di amare.
La tua lettera è… non trovo un aggettivo giusto per spiegarti quello che ha suscitato in me; probabilmente non esiste. Come ti ho già detto oggi mi sono commossa leggendola e insieme alle lacrime sul mio viso c’era anche un sorriso di gioia e di speranza. Anche adesso sto piangendo, ma questa volta perché ho paura di perderti, di aver rovinato qualcosa con i miei stupidi pensieri (a volte penso che tu abbia ragione quando scherzando mi dici che sono poco intelligente!?!
Sono pienamente d’accordo con tutto ciò che mi hai scritto e ti assicuro che da parte mia c’è la volontà (e tanta) di venirti incontro e giustamente, questo si può fare solo con a base la fiducia reciproca. Avrò fiducia in te e spero che non venga mai delusa; mi aprirò completamente a te e ti accoglierò con tutto il mio amore. Sai, ora, ho capito quanto sei importante per me, sei la mia vita in quanto riempi tutte le mie giornate, sei dentro di me in ogni istante e in ogni luogo.
Credimi, ho messo da parte tutte le mie paure ed incertezze per dirti questo e giuro che è solo il primo passo! Voglio con tutta me stessa iniziare bene questo rapporto (e non terminarlo, come pensi tu) perché ho fiducia in “lui”.
Ti voglio bene, lo sai, ed è per questo che cercherò (e, senza presunzione, sono sicura che ci riuscirò!!) di renderti felice con la mia fiducia, sincerità, fedeltà e amore.
Ora ti saluto perché i miei mi hanno gridato di spegnere la luce perché è tardi, domani mattina devo anche svegliarmi presto
tanti Bacioni Emili
(a presto!)
La mia gattina ti manda una leccata sul naso. Dovresti vedere com’è bella anzi stupenda.
N.B: Sono felice della tua voglia di creatività, ma soprattutto che hai ritrovato il tuo modo di essere grazie a me. Solo riacquistando fiducia in te stesso potrai ritrovarti e ricredere ancora nell’amore, io ti sarò sempre vicino per darti tutto quello che posso.
CIAO Buonanotte.
Era appena salita sul treno portandosi dietro tutti i suoi bagagli; prima che salisse l’avevo baciata, sarebbe stata l’ultima volta.
Era ancora notte quando l’avevo accompagnata alla stazione, ed ora che stavo tornando a casa non riuscivo bene a capire cosa sarebbe accaduto appena avesse fatto giorno.
Noa stava partendo la strinsi e la baciai per l’ultima volta. Le chiesi di salutarci così. Mi mossi e me ne andai dalla stazione, appena il treno iniziò a rullare sulle rotaie. Avevo nella mano una sua lettera, le promisi che l’avrei aperta il giorno dopo. Dopo che lei fosse partita. Tornava nella sua nazione, una nazione che io non conoscevo.
Attesi il giorno dopo per aprire la lettera.
Noa 7. Settembre.
Amore mio!
Quando tu leggerai questa lettera io già sarò lontana da te. Ma non dimenticare mai che profondamente ti sarò sempre vicina.
Pensa a quello che mi hai promesso e non essere triste. Sono sicura che tra poco ci vedremo. Anche per me è bene tornare un po’ nel mio ambiente, nella mia nazione, così posso sistemare il grande casino che c’è dentro me.
Amore cerca di essere e di rimanere te stesso. Non so dove ci porterà la vita, se staremo insieme o no, ma pensa che il tempo che abbiamo trascorso uniti è stato bellissimo e nessuno ce lo potrà rubare.
Con un po’ di buona volontà e l’aiuto di Dio troviamo una soluzione; così tu dipingi e io ho la macchina grossa; no, non sto scherzando, ma forse ci aiuta anche il tempo.
Voglio che tu sappia che succeda quello che succeda, ti ho amato con tutto il mio cuore.
La vita si può guidare fino ad un certo punto, ma io penso come Sinuhe dell’Egitto, che la nostra strada è già scritta nelle stelle dal giorno che siamo nati. Per questo non mi preoccupo troppo, perché se c’è scritto che passiamo la vita insieme, vedrai la passeremo insieme.
Amore mio,
quando hai bisogno di sfogarti, di parlare con qualcuno che ti capisce scrivimi, cercherò di comprenderti.
E adesso dipingi, leggi, scrivi, fa un giro in bicicletta e sii felice, che la vita è troppo corta per passare dei momenti tristi.
Un gran bacio e tutto il mio amore
Noa
Ero seduto in casa ed aspettavo la telefonata di Noa che mi avrebbe avvisato che era arrivata. Avevo letto la lettera e non sapevo se essere felice o no.
Noa aveva compreso molte cose e nello spirito della lettera c’era parte del mio mondo che viveva, ma con la provvisorietà che Noa le aveva dato.
Giunse la sua telefonata, mi chiamò amore, mi disse se avevo letto la lettera, di non preoccuparmi che ci saremmo visti presto.
Appena c’incontrammo ci baciammo, era bello baciarti Emili, sentire la tua lingua che s’incontrava con la mia, quanta passione c’era nei nostri baci; chissà se ti ricordi di quella volta sul lago, davanti a quell’albergo. Stavi camminando un passo davanti a me, come spesso mi accadeva mi prese voglia di baciarti, ti sfiorai la spalla il braccio, ti voltasti e ci abbracciammo, baciammo senza pensare al mondo che ci stava intorno, ci sorprese all’improvviso, sentimmo applausi e complimenti dalle finestre dell’albergo e dall’altra parte della strada; ci sorprese tutto ciò e quasi fuggimmo. Quando raccontammo quello che era avvenuto alla tua amica e al suo ragazzo ci accolse la loro invidia.
Scesi dal taxi, eri lì ad aspettarmi all’ingresso del negozio, avevi aperto una rivendita di bigodini con l’ex amante di tua madre, che confusione c’era in quella città tesoro.
Noa ci siamo conosciuti, incontrati senza neanche accorgerci di quello che ci stava accadendo, almeno per me è stato così. Il giorno prima ti avevo notato, mentre parlavi con un ragazzo tunisino io ero con una turista amica — bella e con dei bellissimi seni al sole. La sera di quel giorno seppi poi che tu e tua cugina eravate uscite con ”quei due ragazzi. Io ero stato con la mia amica ed è mancato un niente perché la baciassi, sentissi il suo sapore, ma mi ero fermato, lei era fidanzata e voleva solo giocare o forse no, io non avevo voglia di scoprirlo.
Il giorno dopo ti guardai in spiaggia mentre tornavo dalla doccia e tu fissasti il mio sguardo con intensità, senza allontanartene, ci incontrammo in acqua quello stesso giorno, tu eri con tua cugina sopra un materassino, io tornavo dalla mia solita nuotata, ti trovai subito bella. Quella sera uscimmo insieme e alla fine della serata tu mi portasti sulla spiaggia dove ci eravamo conosciuti e ci demmo il primo bacio.
Passammo una settimana tra baci e gioie e i fastidi di tua cugina di sedici anni che si lamentava perché c’erano poche discoteche e per questo non si divertiva. Aveva uno strano ascendente su di te, tu ti appoggiavi a lei, e non ti accorgevi che se io gli ne avessi dato la possibilità mi avrebbe rubato a te.
Avevi ventuno anni, ma eri ancora più giovane e confusa, io appena quattro più di te.
Emili, 12/Settembre/ h21.26
Ciao,
Non ti chiedo notizie (e non te ne do!) in quanto ci siamo appena sentiti x telefono, quindi passo subito al “dunque” cioè al motivo principale di questa mia lettera.
Desidero, infatti, farti conoscere (FINALMENTE) i miei pensieri per evitare di creare spiacevoli situazioni in futuro e riuscire ad instaurare un bel rapporto capace di soddisfare entrambi.
Vedi io provo x te un sentimento sincero, sì lo so è troppo presto x dirlo, ma sento che c’è di più di una semplice “cotta estiva”. Appena tornata continuavo a ripetermi: Prima o poi tutto svanisce, tutto passa in questa vita, a volte spietata e purtroppo con la distanza anche il ricordo del suo viso intenso, delle sue mani, dei suoi baci diventerà sbiadito come una vecchia foto. Ma c’è qualcosa d’indefinibile, di speciale e al tempo stesso così tangibile, così fondamentalmente reale che si è annidato in fondo al mio cuore.
Sei sempre nei miei pensieri e spesso mi ritrovo a sorridere da sola ricordando particolari momenti vissuti insieme.
Ho pensato molto in questi giorni cercando di essere obbiettiva, e sono arrivata alla conclusione che tu provi x me soltanto una semplice amicizia; ti reputo un ragazzo estremamente intelligente, sensibile e sincero (questo è il mio 1o giudizio), quindi se solo sentivi qualcosa x me lo avresti detto. Capisco però, che questo è un brutto periodo x te e ho avuto la sfortuna di conoscerti adesso e di stare con te per troppo poco tempo… Avevo detto che avrei aspettato i risultati del tuo periodo (indeterminato!) di riposo durante il quale avresti riflettuto e preso decisioni, ma non voglio illudermi (E NON LO FARE MAI NEANCHE TU); bisogna essere reali. Quando si ama una persona, nel cuore c’è posto solo x lei… O.K.!! Le cose sono andate così, ma non tutto il male viene x nuocere. Io infatti, sono felicissima di averti conosciuto, mi hai dato il coraggio di dare una svolta alla mia vita. Era tanto tempo che cercavo di farlo ma non ci riuscivo e avevo paura di tante cose e il terrore di restare sola. Allora continuavo a non pensare, a vivere cercando di raccontarmi e convincermi che tutto andava benissimo.
Non so come hai fatto ma ti ringrazio. Ho apprezzato molto i tuoi discorsi, le nostre chiacchierate, le risate e anche i momenti di silenzio (spero di essere entrata, anche x un solo istante, nei tuoi pensieri). Mi sono sentita libera, spensierata, serena e felice d’appartenerti; anche adesso, nonostante tutto, sto bene. Ho scritto troppo (e non ho ancora concluso!!!), probabilmente ti sarai annoiato, comprendo ho quasi FINITO. “TE L’AVEVO DETTO CHE QUANDO INIZIO A PARLARE NON FINISCO PIù”.
Io ti chiedo solo una cosa: non prendermi mai in giro e sii sempre sincero, ci tengo molto alla tua amicizia e spero che sia lo stesso x te.
Ho voluto essere sincera e ti giuro che tutto quello che ti dirò e ti scriverò (tu però devi rispondermi altrimenti non scrivo!) sarà sempre e solo la pura verità!
Ora ti saluto, spero che tu riesca ad usare il sistema del telefono, ma soprattutto che tu venga a trovarmi presto. E ti ripeto che tutto sarà diviso a metà! (come le 10000 lire te le ricordi?)
Tanti bacioni e…
…sculaccioni
(Non sul sedere!!!)
Emili
Emili eri seduta su quella panchina davanti allo stabilimento balneare, quella sera. Ci siamo conosciuti lì, abbiamo iniziato a parlare. A parlare; mi hai detto che avevi ventuno anni, i miei stessi anni. Eri fidanzata e appena possibile ti saresti sposata, forse appena tornata a casa, nella città in cui vivevi.
Ti chiesi perché.
Mi hai risposto che volevi cambiare vita e quella era l’unica possibilità che vedevi per riuscirci.
Quella sera forse eri tesa o forse ci stavamo cercando.
Iniziammo a vederci in spiaggia, di mattina e la sera uscivamo insieme. Parlavamo molto, di tante cose, di noi. Gli episodi della tua vita alcune volte potevano essere un tantino sconvolgenti, ma io c’ero non per giudicarti ma per capire e se potevo, aiutarti a capire.
Una sera non resistemmo più al desiderio che avevamo l’uno per l’altra; mi baciasti con una voglia tale che ti chiesi se avevi voglia di fare all’amore, mi hai risposto con una domanda: «E tu?» Ci abbracciammo, baciammo nudi. Fu bella la sensazione che provai quando entrai dentro di te. Scoprimmo insieme i tuoi orgasmi, ed io per la prima volta provai quella strana sensazione di appartenere a qualcuno nel sentire come tu mi tenevi tra le labbra fin dopo aver goduto. Facevamo all’amore dove e quando ne avevamo voglia, ti piaceva sentirti colpita fino in fondo, perché mi dicevi ti faceva sobbalzare il cuore.
Ti avevo promesso che non ti avrei mai ingannata, di non ingannarmi, ma anche che dovevamo riflettere su quello che ci stava accadendo. Io non ero sicuro che tu fossi consapevole di me; tu avevi bisogno di stabilizzare e cambiare parte della tua vita. Io potevo darti quello che di certo sapevo e volevo da me, farti partecipe di ciò in ogni suo aspetto, non tradendo mai me stesso e così l’affetto che provavo per te. Mi chiedevi di darti quella stabilità di cui avevi bisogno, ma per fare questo io non potevo sconvolgere il senso che davo alla mia vita, se avevi trovato qualcosa in me era per questo. Solo così potevo aiutarti, ma avevo bisogno anche di te, essere certo che anche tu mi avresti aiutato, che non mi avresti lasciato da solo, che quel che io ti davo era quello che tu volevi.
Dopo qualche giorno che eri partita per tornare nella città in cui vivevi, hai iniziato a telefonarmi, quasi tutti i giorni, avevi scoperto un modo per mandare in tilt il telefono delle cabine e con un gettone riuscivi a fare interurbane senza limite di tempo. Era bello l’affetto che mi dimostravi.
Emili, 25/Settembre h21.20
Caro,
non so proprio come iniziare questa mia lettera, avrei tantissime cose da dirti, mille domande da farti, ma non riesco a riordinarle nella mente per esportele.
Sono proprio troppo “incasinata”, dubbi e timori mi frullano nel cervello, sono felice e al tempo stesso disperata. Non riesco a vedere chiaramente…
Comunque una cosa è certa: MI HAI FATTO UN REGALO MERAVIGLIOSO VENENDO A TROVARMI, è stata una gioia immensa rivederti, anche se adesso che non ci sei più mi sembra di essere caduta in un profondo burrone di solitudine. Ho passato tre giorni ipergalattici, sono stata veramente bene, anche se a volte sei stato poco… gentile. Mi hai fatto passare dei momenti in cui raggiungevo il culmine della gioia e altri, invece, dove mi sentivo “gettata” violentemente a terra. Domenica sera, per esempio, ero al settimo cielo, perché abbiamo avuto la possibilità di parlare “un po’” (Sinceramente avrei desiderato parlare un po’ di più e in modo più profondo). Poi sono arrivate le tue lacrime…
… lacrime che potevano avere tanti significati (“c’est tellement mystérieux le pays des larnes”!!), alle quali sono susseguiti solo momenti di silenzio.
La sera della tua partenza, per sentirti ancora più vicino, ho iniziato a leggere il libro che mi hai regalato (ricordati che mi devi fare una dedica!!! Se diventerai famoso non avrai più tempo); è veramente interessante. Mi sarebbe, però, piaciuto leggerlo insieme a te x scambiare idee e discutere su alcuni punti “particolari”. Spero comunque di avere la possibilità di farlo ugualmente anche se x telefono o in lettera. Se ben ricordo, tu mi hai detto che, in linea generale, sei d’accordo su quello che From scrive. Vero? Quando avrò terminato la lettera se t’interessa, ti spedirò quello che sto scrivendo mentre leggo, i miei appunti (magari cretinate!?!).
Ora ti saluto, spero di essere presente, ogni tanto, nella tua vita, anche se sei “troppo preso” dai tuoi libri e dal tuo debutto nella pittura mi (farai vedere qualcosa?). Spero anche che riuscirai a trovare qualche momento x me, è sufficiente un semplice pensiero (lo percepisco, sai?). Non voglio assolutamente portarti via altro tempo (e capelli!!), basta poco, anzi meno, ma intensamente. Puoi?
Ciao Baci
Emili
N.B. : Sai ti anticipo una cosa. Mi è piaciuta molto la parte del libro che parla dell’amore inteso come un sentimento attivo, dove spiega, cioè, cosa significa dare (pag. 32–35).
È proprio vero: “DARE DA PIù GIOIA CHE RICEVERE”, e non significa sacrificio.
Non si dà per ricevere. “Dare significa fare anche dell’altra persona un essere che dà, ed entrambi dividono la gioia di sentirsi vivi.” È splendida questa affermazione ed è per questo che quando ti ho regalato il maglione e tu ti sei sentito in dovere di contraccambiare io ci sono rimasta male. Hai visto l’esempio che fa sul rapporto sessuale? In un certo senso è quello che ti dicevo domenica sera, ricordi? La gioia non è solo nel piacere raggiunto al momento dell’orgasmo, (del proprio orgasmo) ma è nel dare piacere all’altro, godere della gioia raggiunta da chi si ama. Non so se la pensi come me, comunque è anche x questo che sabato sera ero triste e delusa, perché tu non “vivevi” con me in quel momento, il tuo pensiero era altrove, eri anche troppo “preoccupato e teso” e pensavi solo a raggiungere il tuo piacere x porre fine alla tua preoccupazione. Questo è x me un rapporto squallido, privo di quell’intesa che parte da un’unione completa e rafforza l’amore tra 2 persone. E sai perché ho pianto? Perché credo che questo é successo in quanto io x te non conto niente, non sono così importante come vorrei
O.K. ?!
Ora ti saluto veramente, a presto (spero!)
Emili, 26/Settembre
Oggi mi sento proprio felice, ma soprattutto serena. Ho capito che non devo sentire malinconia per la nostra lontananza, anzi devo gioirne, perché mi darà modo di provare la “sincerità” di questa nostra amicizia.
Se tutto andrà come penso il nostro rapporto sarà veramente unico, sarà la massima espressione dell’amore vero. Altrimenti non valeva niente, era solo una semplice infatuazione destinata a spegnersi e perdersi nella nebbia… (… e nello iodio!!)
La lontananza è penosa solo se intesa letteralmente e se vissuta male.
Io ho sempre pensato che è un mezzo per “avvicinare” due persone (intelligenti!!) x unirle profondamente aiutandole a conoscersi (sembra un controsenso vero?)
La lontananza non può dividere niente e nessuno; se succede significa che era qualcosa destinato a perire per qualsiasi insignificante motivo.
Questa non è una lettera, è un pensiero scritto dal lago, un desiderio di donarti qualcosa da qui
Bacioni
Emili
“ogni tanto però sarebbe meraviglioso essere insieme”.
Emili, 26/Settembre
Ti sento particolarmente vicino in questo giorno. Ho vissuto ogni istante della giornata trascorsa con te, qui sul lago.
E se tu fossi qui con me, ADESSO…
…non ti lascerei più andare via.
Emili, 28/Settembre/ h 23.20 (ora legale)
Caro,
ci siamo appena sentiti e non vedevo l’ora di correre a casa e mettermi tranquilla nel mio letto per scriverti questa lettera, per dirti tutto ciò che non sono riuscita a spiegarti per telefono.
Sono triste, mi dispiace tanto aver terminato la telefonata in quel modo. Hai ragione non era un argomento da trattare così… alla fine e senza avere la possibilità di terminarlo. Ti chiedo scusa per questo, ma non solo… devi scusare anche i miei dubbi, le mie incertezze. Sai io non è che non ho fiducia in te, ma ho paura, tanta paura di soffrire. Non so come mai, ma sento nei tuoi confronti “un’attrazione” particolare, non solo fisica, mi attrai come “personalità”, modo di essere, di fare, di pensare; mi piace parlare con te, stare con te (sapessi quanto mi manchi!!) Non ho mai provato un sentimento così forte, ed è per questo che ho paura.
Io ti amo, ne sono sicura, non lo dico tanto per dire (e poi ti ho già detto che non ti mentirò mai). Stasera ho sbagliato a parlarti così, non so perché l’ho fatto, forse per difesa, per cercare di “nascondere” quello che provo realmente nei tuoi confronti prima di essere certa dei tuoi pensieri, del tuo amore. Non è giusto, lo so, ed è per questo che ti dico, anzi grido: “Ora basta!” Hai ragione sto pensando troppo e mi fa male, da oggi in poi sono quello che sono, ti dirò e dimostrerò tutto quello che provo per te, avrò pazienza di “aspettarti” e nel frattempo apprezzerò ogni cosa (dalle più piccole) che riuscirai a darmi, aspettando il momento in cui tu ti aprirai completamente donandomi tutto il tuo amore. Sono certa che insieme riusciremo ad instaurare un rapporto meraviglioso, unico. Non ti deluderò e credo di riuscire ad aiutarti a ritrovare il coraggio di amare.
La tua lettera è… non trovo un aggettivo giusto per spiegarti quello che ha suscitato in me; probabilmente non esiste. Come ti ho già detto oggi mi sono commossa leggendola e insieme alle lacrime sul mio viso c’era anche un sorriso di gioia e di speranza. Anche adesso sto piangendo, ma questa volta perché ho paura di perderti, di aver rovinato qualcosa con i miei stupidi pensieri (a volte penso che tu abbia ragione quando scherzando mi dici che sono poco intelligente!?!
Sono pienamente d’accordo con tutto ciò che mi hai scritto e ti assicuro che da parte mia c’è la volontà (e tanta) di venirti incontro e giustamente questo si può fare solo con a base la fiducia reciproca. Avrò fiducia in te e spero che non venga mai delusa; mi aprirò completamente a te e ti accoglierò con tutto il mio amore. Sai, ora, ho capito quanto sei importante per me, sei la mia vita in quanto riempi tutte le mie giornate, sei dentro di me in ogni istante e in ogni luogo.
Credimi, ho messo da parte tutte le mie paure ed incertezze per dirti questo e giuro che è solo il primo passo! Voglio con tutta me stessa iniziare bene questo rapporto (e non terminarlo, come pensi tu) perché ho fiducia in “lui”.
Ti voglio bene, lo sai, ed è per questo che cercherò (e, senza presunzione, sono sicura che ci riuscirò!!) di renderti felice con la mia fiducia, sincerità, fedeltà e amore.
Ora ti saluto perché i miei mi hanno gridato di spegnere la luce perché è tardi, domani mattina devo anche svegliarmi presto
tanti Bacioni Emili
( a presto!)
La mia gattina ti manda una leccata sul naso. Dovresti vedere com’è bella anzi stupenda.
N.B: Sono felice della tua voglia di creatività, ma soprattutto che hai ritrovato il tuo modo di essere grazie a me. Solo riacquistando fiducia in te stesso potrai ritrovarti e ricredere ancora nell’amore, io ti sarò sempre vicino per darti tutto quello che posso.
CIAO Buonanotte.
Appena c’incontrammo ci baciammo, era bello baciarti Emili, sentire la tua lingua che s’incontrava con la mia, quanta passione c’era nei nostri baci; chissà se ti ricordi di quella volta sul lago, davanti a quell’albergo. Stavi camminando un passo davanti a me, come spesso mi accadeva mi prese voglia di baciarti, ti sfiorai la spalla il braccio, ti voltasti e ci abbracciammo, baciammo senza pensare al mondo che ci stava intorno, ci sorprese all’improvviso, sentimmo applausi e complimenti dalle finestre dell’albergo e dall’altra parte della strada; ci sorprese tutto ciò e quasi fuggimmo. Quando raccontammo quello che ci era accaduto alla tua amica e al suo ragazzo ci sorprese la loro invidia.
Quando scesi dal taxi, eri lì, mi aspettavi all’ingresso del negozio, avevi aperto una rivendita di calzature con l’ex amante di tua madre, che confusione c’era in quella città tesoro.
C’erano volute circa otto ore di treno, ma finalmente ero arrivato. Ero in una città dove non ero mai stato prima, che non conoscevo.
…Poi andammo a cena insieme e a trovare un albergo dove io potessi dormire.
Il cielo era uggioso e ben presto mi sarei accorto che quel tono di grigio che avevo sopra la testa era una costante di questa città. Ci sarebbero stati dei giorni in cui avrei avuto nostalgia del mare e di vedere la forma delle nuvole.
Era bello stare con te ce la mettevamo tutta per superare le mille difficoltà che gli altri ci creavano.
Sin dal primo momento ho avvertito quel senso di superficialità, gelosia, invidia, per quello che di bello ci stava accadendo.
Il tuo socio in affari, aveva quell’ambiguo comportamento di entrare nella tua vita privata, con il tratto inconfondibile della cafoneria che ben lo definiva in ogni sua manifestazione. Aveva fatto i soldi in uno modo che sinceramente per me rimaneva un mistero. Con quel denaro era entrato nella tua famiglia, comprato l’affetto di tua madre, il tuo di tuo fratello, fino a rendere tuo padre in balia di una situazione che aveva affrontato nel modo peggiore; accettando tutto con remissività. A quel che mi raccontavi ormai non c’era più niente tra tua madre e quest’uomo, eppure costui continuava a far parte della tua famiglia.
Dal primo momento che incontrai questa persona, gli manifestai tacitamente che per me lui era solo il tuo datore di lavoro e che non gli avrei mai permesso di entrare nei fatti che riguardavano me e te. In realtà non so se tu avevi compreso che io non avrei mai accettato certi compromessi. La sua inutile gelosia si manifestò con il dire a mezza voce a certi suoi amici che ero un napoletano, modo per esprimere disprezzo, in quella città così confusa e ormai impoverita dal denaro. Era la prima volta in vita mia che ero oggetto dell’ottusità di un razzista.
Siamo stati insieme abbiamo parlato, abbiamo fatto all’amore, ma in certi momenti era come se tu mi vedessi attraverso altre esperienze, come se ciò che avveniva tra noi tu lo leggessi con un occhio che forse mi fraintendeva, ché non era nel mio essere.
Quando ripartii eri così ansiosa di rivedermi, che non potevo far altro che cercare di tranquillizzare quelle incertezze con cui mi guardavi, ti promisi che ci saremmo rivisti appena possibile, di stare tranquilla. C’era in te quella fretta, gelosia. Quella paura che avevi di te stessa, la paura di non riuscirci e che ti faceva dubitare di me. Non ero io quel che vedevi in quei momenti, ma il tuo timore. Sin da subito abbiamo avuto in quella città in cui vivevi, l’ostilità della gente che frequentavi; nonostante tutto mostravamo gioia e un’intesa tutta nostra, una voglia di noi che ci rendeva felici.
Emili, 5/Dicembre
Caro,
…Ti scrivo perché in questo momento (come sempre del resto!!) ho tantissima voglia di te, di abbracciarti forte forte e non lasciarti più. Mi piacerebbe averti più vicino, parlare con te, sentirmi dire un po’ di cose carine e poi, in silenzio accarezzarti e… baciarti x farti “SENTIRE” quanto ti voglio bene. Ho sempre davanti agli occhi la tua immagine e un mondo da scoprire: il tuo dove voglio con tutta me stessa, ENTRARE e farne parte in futuro.
Oggi sono stata felicissima dopo la telefonata e questa gioia mi ha permesso di “superare” il mio ritorno a casa; si perché sono esattamente quattro giorni che mia madre rompe in modo particolare e mi fa delle scenate assurde. Pazienza! Sapessi quanto è difficile sopportarla. Devo però confidarti che grazie a te mi riesce più facile, infatti nei momenti più difficili mi tornano in mente le tue parole, ti sento vicino (sbaglio!!!) e questo mi dà forza. Sai, amore, quante cose sono riuscita a “sistemare” della mia vita, grazie alla tua presenza in me? Oggi tu mi hai detto che devo essere forte e ti giuro che lo sono da quando ti conosco, ma soprattutto da quando ho capito che un po’ di bene me lo vuoi. Sì, sono e sarò sempre forte per non deluderti mai, perché ho fiducia in te e desidero amarti in maniera esclusiva.
Non si può prevedere il futuro, ma se, x qualsiasi motivo, la nostra storia è destinata a finire, io ti ricorderò x sempre, prima di tutto perché ti amo profondamente e poi appunto x’ sono riuscita ad acquistare questa forza interiore che mi ha dato la possibilità di affrontare la paura della solitudine e iniziare ad amare. Ora riesco a parlare “un po’” con me stessa obbiettivamente e, piano piano imparerò, senz’altro, a conoscermi un po’ di più. E questo è molto importante. Sono soddisfatta e straordinariamente serena (mia madre s’incazza, ancora di più vedendo che non le do tanta importanza e riesco ad essere calma non cadendo alle sue istigazioni!!)
Ora ti saluto, spero tanto di essere vicino a te, nella tua mente e nei tuoi pensieri, così come tu lo sei per me, adesso e per sempre.
BACIONI Emili
Emili, 8/Gennaio
Ciao Amore,
Sapessi quanto sento la tua mancanza, ho passato dei giorni favolosi perché tu eri qui con me. Le ore trascorse insieme sono indimenticabili; ho provato emozioni intensissime in tutti i vari momenti vissuti con te: quando abbiamo fatto l’amore, ogni volta sempre più bello (è la prima volta che lo dico sinceramente!!) Quei momenti magici passati in macchina (in particolar modo quella sera sul lago è impressa nella mia mente e nel cuore risento ancora i brividi al solo pensiero, ricordo con allegra malinconia anche l’ultima sera – prima dell’epifania – quando siamo usciti, e io, sempre in macchina ho pianto, poi ti ho guardato e anche tu avevi le lacrime agli occhi!! La notte che abbiamo “dormito” insieme e… sono troppi per elencarli tutti, ma spero che anche tu li conservi in te. Sai, ho amato ogni instante, dal più bello al più “critico”, dalla gioia del giorno che sei arrivato, alla disperazione di quello in cui sei partito. Quanto ti amo non puoi immaginartelo. Questa tua visita ha segnato secondo me una tappa importantissima per il nostro rapporto che ha fatto un bel passo avanti, si è rafforzato ulteriormente. Cosa ne pensi? Sto bene con te adesso, e mi auguro che tutto vada avanti nel migliore dei modi e che la “cattiveria” della gente che ci circonda non intacchi il nostro amore. Spero di riuscire a soddisfarti sempre e in tutti i sensi, di darti tutto ciò di cui hai bisogno nel momento giusto, di capirti, amarti sempre e addolcire tutta la tua vita futura (insieme a me!!), aiutarti, standoti vicina, nei tuoi momenti di sconforto e debolezza x gioire con te nei giorni più belli… perché ti ADORO e desidero che tu sia felice e sereno sempre, con me, affinché tu possa continuare bene a fare ciò in cui credi.
Ho apprezzato molto la storia della tua vita passata e soprattutto il fatto che me ne hai parlato, l’aspettavo da tanto, ma non osavo chiederti niente, eri tu che dovevi aprirti quando te la sentivi e sono felice che l’hai fatto, significa che inizi ad avere un po’ più di fiducia in me. Ho racchiuso nel mio cuore tutto ciò che mi hai detto a tal punto che mi sembra di averlo vissuto con te, ora il presente e il futuro appartengono a noi. Sai, devo confessarti una cosa e spero di riuscire a spiegartela bene (credo comunque che tu l’abbia già capita!). Io con te mi trovo stupendamente, però non ho ancora acquisito una grande sicurezza in me, ho molti problemi interiori relativi alla mia persona (comunque grazie a te, un po’ ne ho già risolti). È x questo che ho molte difficoltà, in certi casi, a parlarti o risponderti, mi sento male, ho paura di dire cose sbagliate, insomma mi vergogno. Quante volte vorrei parlarti apertamente guardandoti negli occhi. Quel giorno, a esempio, che tu eri triste a causa dei problemi che ci sono intorno a noi, quante cose avrei voluto dire, x non parlare di quando quella sera mi hai letto le tue poesie (tra l’altro molto belle e profonde – non lo dico per farti piacere lo sai), sì tesoro tu forse non mi crederai, ma volevo parlarti di quello che avevo provato mentre leggevi (soprattutto sulla poesia della città in cui vivo). Non ci sono riuscita, scioccamente mi sono vergognata e quasi per difendermi, x “salvarmi” dal parlare ho detto quella fesseria. Non è vero, sai, che non aveva senso per me quella poesia, tutt’altro, volevo chiederti qualcosa, poi, tu hai detto che probabilmente non l’avevo capita e io felice di poter non parlare, ho risposto così. Sono una stupida, lo so, ma a volte è più forte di me riuscire a parlarti (ti ricordi anche quella volta al cinema, dopo il film. Anche lì il timore e la vergogna hanno avuto la meglio!). Dovrai avere pazienza tesoro, ti giuro che riuscirò a superare anche questa e allora non succederà più che ti risponderò stando zitta o piangendo. Riuscirò ad acquisire più fiducia in me e parlarti senza più vergogna né senso d’inferiorità!
Ora ti saluto, ricordati che ti amo completamente e ho tanta fiducia in te.
A presto
Ciao Emili
Noa ci siamo conosciuti, incontrati senza neanche accorgerci di quello che ci stava accadendo, almeno per me è stato così. Il giorno prima ti avevo notato, mentre parlavi con un ragazzo tunisino io ero con una turista amica — bella e con dei bellissimi seni al sole. La sera di quel giorno seppi poi che tu e tua cugina eravate uscite con ”quei due ragazzi. Io ero stato con la mia amica ed è mancato un niente perché la baciassi, sentissi il suo sapore, ma mi ero fermato, lei era fidanzata e voleva solo giocare o forse no, io non avevo voglia di scoprirlo.
Il giorno dopo ti guardai in spiaggia mentre tornavo dalla doccia e tu fissasti il mio sguardo con intensità, senza allontanartene, ci incontrammo in acqua quello stesso giorno, tu eri con tua cugina sopra un materassino, io tornavo dalla mia solita nuotata, ti trovai subito bella. Quella sera uscimmo insieme e alla fine della serata tu mi portasti sulla spiaggia dove ci eravamo conosciuti e ci demmo il primo bacio.
Passammo una settimana tra baci e gioie e i fastidi di tua cugina di sedici anni che si lamentava perché c’erano poche discoteche e per questo non si divertiva. Aveva uno strano ascendente su di te, tu ti appoggiavi a lei, e non ti accorgevi che se io glene avessi dato la possibilità mi avrebbe rubato a te.
Avevi ventuno anni, ma eri ancora più giovane e confusa, io appena quattro più di te.
Noa 10 Luglio
Ciao tesoro!
come promesso ti scrivo stasera. Scusa ma non sono molto brava a scrivere in italiano. Ma spero che mi capisci lo stesso.
Qui è molto tranquillo, non c’è nessuno che ti disturba. Oggi mio padre mi ha fatto lavorare. Abbiamo restaurato tutti i mobili. Il pomeriggio siamo andati a fare la spesa, poi ho fatto il sugo di pomodoro.
Mi dispiace tantissimo che non ti posso scrivere nella mia lingua, perché non riesco a trovare le parole che vorrei. Mi manchi tanto ma quando chiudo gli occhi mi stai sempre vicino. Penso tanto al tempo che abbiamo passato insieme. Con il tuo modo d’essere mi hai dato tantissimo. Sei un uomo molto speciale e adorabile. Già che non ti posso dare il mio amore personalmente te lo mando in questa lettera. Ti voglio molto bene forse troppo. Hai lasciato una gran confusione dentro me.
Anche qui, in questo piccolo paese mi sento felice, perché so che ti sto vicino. Poi la vita qui mi piace tanto. Ma sono triste pensando che devo tornare e dopo per un anno scrivere soltanto con il ricordo, la vita da noi è così diversa che per forza ti fa dimenticare questa qui, e arriva il momento che tutto mi sembra un sogno. E quel momento mi fa paura. Spero che trovo la volontà e la forza di non dimenticare nemmeno un secondo. Ma con il tuo aiuto sono sicura che ce la faccio.
Tesoro mio, per oggi ti lascio, ma mi farò sentire presto.
Ti amo tanto Noa
P.S.
Spero che i soldi che ti rimando non si perdano. E tantissime grazie ancora per il tuo aiuto!!!
Prima che tu ripartissi avevamo trascorso insieme un periodo senza ritorno, un momento di circa un mese in cui io ti avevo amato intensamente, anche tu mi dicevi, ma eri così evanescente, ondivaga nei tuoi umori, comportamenti, Noa.
La prima volta che abbiamo fatto l’amore è stato sotto il cielo, abbiamo raggiunto il piacere insieme, mi piaceva, riuscivo ad aspettarti fin quando ti sentivo gemere di piacere, sarebbe stato quasi sempre così. Quella sera ad un certo punto tirasti fuori dei strani preservativi, non ce la facevi più e avevi trovato il modo peggiore per chiedermi di fare all’amore. Usavi la pillola e decidemmo di non usarli. Ti piaceva molto sentirti stimolata con la lingua, fino a godere.
Passavamo le giornate insieme, da mattina a sera. Tua cugina rompeva, più per gelosia che altro. Tu non capivi.
Ma anche tu eri preda di quel mito dell’apparenza, della seduzione facile, del divertimento senza senso, dei soldi senza perché. Eppure io mi ero innamorato, io che cercavo i valori nella lealtà, nell’onesta di vivere, nell’esprimermi attraverso l’arte. Tu mi parlavi solo di auto grandi da mostrare, che volevi la domestica, senza mostrarmi mai chi realmente fossi e in che cosa credevi. Io non capii che mi stavo mettendo in una situazione dove la tua debolezza avrebbe potuto destrutturare il mondo non ancora formato che mi stavo costruendo. Però ti amavo.
Certe volte, forse, giocavi a farmi ingelosire, eri così disponibile con chiunque ti faceva un po’ di corte, forse erano solo i tuoi giochi infantili. Io ti dissi che nel momento in cui avrei capito che era un gioco sleale ti avrei lasciato. Quando eravamo nella tua auto, davi molta importanza alla sua tappezzeria. Ma questo successe dopo…
Un giorno venisti in spiaggia, con un aria triste, mi dicesti che era morta tua nonna e che dovevi tornare a casa subito, la sera che avremmo passato insieme sarebbe stata l’ultima.
Quella sera tornammo nel posto sotto le stelle dove eravamo stati la prima volta. Facemmo all’amore per tutto il tempo. Poi quando tornammo in macchina giunse il momento di salutarci. Ti dissi che ti avrei salutato quella sera, che non ci saremmo visti il giorno dopo. Tu mi dicesti che ci saremmo visti presto, che tanto dovevi tornare con tuo padre. Non so cosa fu ma in quel momento il leggero sospetto che nutrivo in me, uscì con tutta la forza, ti imposi la domanda chiedendoti: “Tua nonna non è morta!”, mi guardasti sorpresa, allora ti ripetei la domanda; non riuscisti più a mentirmi, mi dicesti che era stata tua cugina che ti aveva convito perché voleva andare in un posto dove vi erano più divertimenti, discoteche. Ti dissi che eri una stupida senza personalità, che tutto quello che mi avevi detto e promesso erano tutte menzogne, che non capivi che significava amare se permettevi tutto questo all’inganno. Pensai che eri stata solo una che aveva trovato qualcuno con cui mostrarsi e recitare un ruolo, uno che le aveva pagato le consumazioni la sera e con cui ti era piaciuto fare all’amore. Uscisti di corsa dalla macchina e ti mettesti a correre nel buio verso la spiaggia. In quel momento quel gesto non sorti nessuno effetto in me, sembrava così plateale. Restai seduto in macchina, pensai anche ti tornare a casa a piedi e lasciarti lì. Dopo un po’ decisi di venirti a cercare, ti trovai sdraiata a pancia in sotto, sulla spiaggia, ti aiutai ad alzarti, mi dicesti che eri caduta e che ti eri rotta un unghia, le tue unghie.
Quando ci lasciammo ti dissi che potevi scegliere, ma se l’indomani partivi per me la nostra storia sarebbe finita lì.
Il giorno dopo tornai in spiaggia, dicendo a me stesso che era finita, che sarebbe stato un altro giorno
Ti ritrovai, eri in acqua con un costume che ti eri fatta prestare, ti abbracciai e ci baciammo, avevi già fatto le valigie. Chi ci guardava ci pensava innamorati, io lo ero.
Parlammo e ti chiesi perché eri restata, mi hai risposto che non potevi partire così… ti domandai cosa avevi detto a tua cugina, mi hai risposto che non mi potevi fare una cosa del genere. Continuammo a parlare e in riferimento alla sera prima te ne uscisti con il dirmi che il tuo ex ragazzo aveva un pene molto più lungo del mio, lunghissimo. Eri così sciocca che non riuscivo ad arrabbiarmi per i tuoi mille giochi infantili, ma io ero così stupido da non capire che tu non avresti mai capito. Ti risposi che più che le dimensioni era importante il modo di usarlo, poi un altro giorno, scoprii che quando facevi all’amore con lui, lui ti penetrava solo in parte, non poteva di più; era vero, lo scoprii quando una volta facemmo all’amore più volte senza aspettarci, e mentre tu eri sdraiata con gli occhi chiusi ed io ancora dentro di te, mi dicesti che anche se avevi goduto, potevo continuare, mi spinsi dentro di te con passione e quando giunsi in di te fino in fondo, vidi il tuo viso sorpreso e mi dicesti che il tuo ex ragazzo non ti faceva male, ti guardai, poi ti dissi che se non avevi voglia non l’avevo neanche io. Ci desideravamo l’uno l’altra, molto, ma tu recitavi un ruolo che era tra il compiacermi, ma assurdamente competere con me attraverso le tue insicurezze, in tutto, forse anche quando facevamo all’amore.
Il giorno dopo mi hai chiesto in quale banca potevi cambiare il denaro, quale era quella dove mi servivo io. Ti ci accompagnai, io rimasi ad aspettarti in macchina; quando tornasti l’auto non si accendeva; ogni tanto avevi dei modi strani, eri arrivata a pensare che io avessi fatto qualcosa alla macchina, chiamai l’elettrauto ed era solo un filo che si era rotto. A causa di questo incidente venisti a casa, abitavo vicino alla banca. In quell’occasione ti regalai un porta pasticche in argento, intarsiato a mano. Lo lasciasti in macchina per il resto della vacanza, avvolto nella sua confezione, a rischio che te lo rubassero.
Quando tornammo da tua cugina ti vidi e sentii discutere nella tua lingua, eri arrabbiata con lei.
In cambio del mio regalo mi regalasti un piccolo crocifisso in oro che era appartenuto a tua madre, ti dissi che era molto bello il dono che mi facevi, ma di rifletterci prima di darmi una cosa a cui eri così legata. Volesti che prendessi il tuo regalo.
Mi raccontasti che tua madre era morta all’improvviso e che avevi dovuto cambiare vita. Lei era stata sempre molto presente nella tua esistenza, ma mi dicevi che ti aveva sempre tenuto sotto la sua volontà, coccolandoti e viziandoti. Poi tu avevi cercato di trovare la tua libertà, eri andata in un’altra nazione per imparare una nuova lingua; lì ti era giunta la notizia che tua madre stava male: sarebbe morta poco dopo. Ti eri separata da tua madre con il dubbio che lei non ti volesse bene, non approvava le tue scelte, aveva fatto mille progetti su di te e pensavi che fosse morta non volendoti bene. Mi raccontasti questa storia piangendo; io ti abbracciai e ti feci sentire il mio amore per farti capire che tua madre ti amava. Quando dopo c’incontrammo con tua cugina lei voleva sapere cosa avevamo fatto, le dicemmo che avevamo parlato, in quel momento sentii che mi stringevi forte la mano, come una complice.
Dopo la morte di tua madre tuo padre aveva deciso di vendere tutto quel che aveva e trasferirsi qui, nella mia nazione. Aveva comprato una piccola casa vicino ad un piccolissimo paese, in campagna. Tu restavi dove eri nata, stavi per iniziare un lavoro come hostess di volo e avevi vicino tua zia che ti imbottiva solo di ambizione venale. Ogni tanto te ne uscivi con il fatto che tuo padre era pieno di soldi. Non mi interessavano più di tanto questi discorsi se non nell’ordine delle cose che si stabilivano attraverso il valore del nostro amore, c’era solo quello che mi faceva continuare a credere in qualcosa per noi, sperare di non ritrovarmi nel caos, nel tuo caos in cui stavo cadendo.
Le tue stranezze.
C’erano fatti che ti accadevano e che mi lasciavano perplesso, una volta sei andata su tutte le furie perché non trovavi più la chiave dell’albergo, te la sei presa con tutti, sei arrivata a dirmi che era colpa mia; tua cugina disse che era normale ogni tanto ti prendevano quei momenti. Ti dissi di calmarti, che forse le avevi lasciate nella camera dell’albergo. Lasciammo gli altri nella discoteca dove li avevamo accompagnati e tornammo in albergo; trovammo le chiavi nella tua stanza. Mi raccontasti che ogni tanto ti succedeva di sentirti strana, che se dormivi poi ti passava.
Mentre dormivi io ti accarezzai la guancia con il dito. Quando apristi gli occhi mi raccontasti che tua nonna quando eri bambina ti accarezzava sempre a quel modo, lo dicesti con quel tuo modo fatalista in cui vedevi certi semplici accadimenti della vita. Una volta eravamo seduti ad una gelateria, mi dicesti — “guarda”, vidi il tuo viso sorpreso, ti chiesi dove e mi indicasti delle persone, dicendomi che c’era un ragazzo seduto a un tavolo che sembrava il tuo ex e che quella donna che si stava per sedere sembrava tanto tua madre. Ti dissi che erano solo delle somiglianze, come poteva essere, eri strana. Chissà se volevi farmi fare delle cose che ti passavano per la testa, se ti stavi inventando uno strano gioco nella tua mente, che cosa avevi? Certo in quei giorni avevo avuto la sensazione in un paio di occasioni che qualcuno era vicino a noi non per caso. Chissà se qualcuno non ti stava o mi stava facendo un brutto scherzo. Una volta a cena mi dicesti che ti piaceva mangiare con me, ti chiesi a cosa ti riferivi in particolare: mi hai risposto al mio modo, poi mi hai detto se iniziavamo a mangiare nello stesso momento. Forse erano giochi da innamorata, non so. Per non parlare dell’ossessione che eri quando guidavo l’auto, una rottura assurda, eri di un’ansia fuori dalla norma, e non che io guidassi male, tutt’altro. Con momenti alterni stava crescendo un storia tra noi. Poi giunse il giorno della tua partenza, mi hai detto che non eri sicura ti bastassero i soldi per la benzina del viaggio di ritorno, mi dicesti che avevi comprato dell’abbigliamento, perché qui costava meno, e nel conto dell’albergo c’erano molte consumazioni extra che non avevi considerato. Che non ti andava di chiedere i soldi a tua cugina, non ho capito bene perché eri tu a pagare o perché avevi speso più di quanto potevi permetterti anche dividendo le spese. Spero che non fosse una stupida prova, che volevi, del mio amore, sarebbe stata così meschina in confronto all’affetto che già ti avevo dimostrato. Secondo me proprio non avevi ben presente il valore del denaro. Comunque decisi di prestarti dei soldi, quello che ritenevo ti fosse sufficiente, ti dissi che in quel momento non potevo darti di più. Mi abbracciasti, eri così contenta che mi dicesti di non cambiare mai. Ti risposi che io non volevo cambiare, che volevo continuare a credere nei valori della vita e che in questi valori quello dell’arte per me era molto importante, era parte di me, della mia identità. La tua macchina consumava un casino, pensavi al tuo lavoro di hostess di volo come a qualcosa che ti facesse apparire agli occhi degli altri importante, era questo che non riuscivo a capire la tua smania di superficiale apparenza, ma ti amavo tanto.
Senza accorgermene stavo superando quel limite dove la fiducia incondizionata nella vita non può essere delusa, per non mettere a rischio la vita stessa, il senso che le avevo dato e che mi faceva respirare.
Mi dicesti che ci saremmo visti presto che saresti tornata con tuo padre. Ti dissi che avrei aspettato. In precedenza ti avevo detto se potevo venire a trovarti nella tua nazione, eri restia non volevi, dicevi che non mi sarebbe piaciuto, eppure ad una turista conosciuta per caso, lì in spiaggia, una ragazza che si era autoinvitata non eri stata in grado di dire di no. Chi eri se non quello che nel tuo modo caotico mi mostravi, eri entrata nella mia vita, nella mia città, nella mia nazione, io non ero un turista che passa e va, io ero quello che ti avevo mostrato, e tu?
Noa 12 Agosto
Ciao pazzo!!!
Lo so, lo so, io sono più pazza di te perché ti voglio bene.
Non è che ho molto da raccontarti perché qui non succede niente, ma stavo pensando a te e… ecco la lettera. Oggi sono stata al mare, ma non mi è sembrato così bello come lì da te. Forse è perché non ci sei tu. Sto ascoltando una canzone che mi ricorda tante belle cose.
Mi sento un po’ sola qui anche se c’è mio padre. Mi manca la tua tenerezza, il tuo amore. Non c’è nessuno che mi rompe le scatole (hi! hi! hi!) sto scherzando.
Ma il bello è che ti vedo anche qui, con gli occhi aperti e (porca come si scrive?) ciusi.
Spero che tua mamma sta bene. Tu quando lavori aiutala volontariamente. Pensa a tutto il bene che ti ha fatto da quando sei nato. E anche se tu non gli chiedi niente loro ti danno tanto. Allora dovresti fare quel po’ di lavoro con piacere. E pensa una mamma è sempre una mamma e nessuno te la può rimpiazzare. Io sarei felice se ci fosse qui ancora la mia. (Fine lezione del maestro!)
Spero che anche tu pensi un po’ a me, ma credo di sì perché lo sento.
Ti mando tutto il mio amore e un grande bacio.
Noa
P.S. Un saluto dal mio padre!
Noa eri tornata da qualche giorno in questa nazione dove ci eravamo conosciuti e dove io vivevo, nella casa che tuo padre aveva comprato per viverci, vicino a un piccolo paese immerso nella campagna. Quando mi telefonasti mi dicesti che non eravamo tanto lontani e stavamo sullo stesso parallelo che in quel punto attraversava la terra.
Dopo qualche giorno ed alcune telefonate, mi invitasti a venire da te. Volevo correre, venire immediatamente da te, ma non potevo subito, per lavoro, ma dopo alcuni giorni partii. Era la prima volta che venivo in quella parte della mia nazione; dopo alcune ore di viaggio, mi trovai in un paese vicino a quello dove eri tu, chiesi informazioni ad una persona che con movimenti bizzarri e una strana allegria mi indico la strada. Giunsi nell’unico bar ristoro di quel piccolo paese, entrai e chiesi la linea per poter telefonare e dirti che ero arrivato e cosa dovevo fare per raggiungerti; mentre stavo per comporre il numero mi toccasti la spalla, eri già lì ad aspettarmi, ti abbracciai ci baciammo, eri diversa erano passate alcune settimane da quando ci eravamo lasciati e ti ritrovai con un aspetto più spontaneo, non avevi un filo di trucco, come piaceva a me; mi tolsi il piccolo crocifisso che mi avevi regalato perché mi dicesti che forse a tuo padre sarebbe dispiaciuto; bo!
Tuo padre parlava pochissimo in italiano, ma tutto sommato c’era sintonia tra noi, non mi dispiaceva, mi aveva accolto. Quella sera andammo a cena con i suoi vicini e la notte mi cedette il suo letto che tu avvicinasti al tuo; ci baciammo e ci addormentammo mano nella mano. Dopo qualche giorno tuo padre partì, doveva sistemare alcune cose nella nazione dove aveva vissuto fin ora e che a breve avrebbe lasciato.
Rimanemmo io e te soli in una piccola casa che ci accoglieva, fu un periodo bello.
…Mi sorprendevo quando uscivo dalla doccia e tu eri lì ad aspettarmi per darmi un bacio sul sesso. Non ero d’accordo sul fatto di asciugare i patti senza sciacquarli dopo averli insaponati; questa strana teoria l’avevi appresa da tua madre; in realtà non era che tu avessi molta voglia di lavare quel paio di piatti che si sporcavano quando mangiavamo in casa, eri per la teoria di farne accumulare un po’ per poi lavarli tutti in una volta. Io preferivo diversamente e lì lavavo subito, ma il fatto strano era che questo quasi ti rompeva; era colpa mia se io avevo un ordine mentale semplice che cercava in modo ovvio di risolvere quelle piccole cose della vita come fare i piatti nel modo più rapido; non capivi che ero come ero, non perché volessi essere più bravo ti te, ma perché ero me stesso, perché eri così mostruosamente sicura delle tue insicurezze e non mi lasciavi libero di vivere le mie sicurezze come volevo? Perché volevi cambiarmi, distruggendo quello che era il mio mondo interiore, i miei modi, con quella strana vena critica pretestuosa, che preannuncia così bene il rinnegamento di ogni promessa senza assumersi le colpe del fallimento, dei propri limiti, per scaricarle sull’altra persona. In fin dei conti io ti avevo accettato anche con i tuoi misteri, chi eri? Se ti chiedevo qualcosa come di essere meno succube dell’apparenza era per poter vivere di più nel valore della verità. Trovai strano quando una sera dopocena andammo a trovare la ragazza che aveva il negozio di frutta del paese e suo marito che lavorava in miniera ed io mi presentai con i miei pregi e i miei difetti, essendo me stesso, e quando ce ne andammo tu mi dicesti che potevo fare a meno di dirgli che avevo mollato gli studi scolastici perché volevo continuare a studiare da solo, a modo mio. Come potevi essere così piccola e meschina e come potevo io continuare ad amarti, non capii che anche tu eri come quelle persone che ti sindacalizzano la vita occupandosi anche di fatti che non li riguardano, soltanto perché persi nell’invidia di non riconoscere che anche nelle difficoltà immense che comporta ogni scelta, qualcuno a cercato di determinare la propria vita tenendo conto del proprio mondo interiore, per far vivere quei valori che la vita gli ha dato gratuitamente; per uno strano mistero queste persone ce l’hanno con te solo perché nella loro testa non riescono ad accettare le loro scelte, in cui non c’entri assolutamente niente.
Alle persone del paese a cui sentivo che non dispiacevo, alla simpatia delle sue donne, la gentilezza dei loro uomini, alla punta di gelosia di alcuni… Che cosa avevi raccontato di me a questa gente? Ti amavo perché speravo che capissi quanto era grande l’amore che provavo per te. Ero giovane e anche io commisi degli errori, quelli di maggior nocumento li ho commessi contro di me; ti ho permesso di non assumerti le tue responsabilità nei confronti della nostra storia e riguardo a quello che ero io.
Passarono quei giorno tra momenti diversi; incominciavi a fare progetti, su come avremmo chiamato i nostri figli; stavi cercando d’insinuarti nella mia vita per plasmarla in base alle tue sole necessità; mi chiedevi di cambiare la mia vita, mi proponevi delle cose non definite; facevi progetti senza assumerti in realtà nessuno impegno che mi facesse credere che parlavi sul serio. La tua omologazione esistenziale sfociava nell’assurda pretesa di chiedermi di rinunciare alle scelte della mia vita, in particolare alla mia dimensione creativa, alla possibilità che mi dava di sentirmi vivo attraverso la capacità dell’arte. Ero caduto nel tuo gioco irresponsabile, nella superficialità della tua fretta, con cui mi chiedevi più una struttura sociale che la realtà dei suoi contenuti, in realtà forse ti serviva un matrimonio senza capirne il senso ed io ero un tentativo che facevi per realizzare questo tuo proposito - forse - io o un altro purché sposarsi. Non capivi e posso ora dire che neanche t’importava, che io non potevo rinunciare a quella parte della vita e al senso che rappresentava per me. Mi chiedevi di rinunciare a respirare, a pensare, ad emozionarmi e emozionarti, ad amarti come ti amavo chiedendomi di rinunciare al mio mondo creativo. Perché ti esprimevi in modo così perverso, perché mi chiedevi di scegliere tra la mia vita e i sentimenti che provavo per te, perché il tuo egoismo si è spinto così oltre, tanto da chiedermi di scegliere o te o l’arte. Perché hai lacerato il mio mondo interiore chiedendomi l’impossibile, di scegliere tra l’amore e la vita. Caddi in questa tua follia senza accorgermene. Era poi amore il tuo, o solo odio camuffato, e cos’era il mio amore se ho permesso che patisse così.
Dopo quel periodo in quella piccola casa, che mi era sembrato bello, tornammo nella mia città.
Una sera in una bancarella comprammo due anelli, volevi far finta che fossero fedi. Una volta ci sedemmo su una panchina, ed io ti dissi la lacerazione che stavo provando dentro di me, fino alle lacrime; tu mi rispondesti che erano questi i momenti che di facevano capire che stavamo vivendo qualcosa di vero, eri pazza e non avevo capito che stavi facendo impazzire anche me. Giocavi, una volta sei andata in giro per la città con un mio paio di boxer, che mi chiedesti in regalo, con sopra degli uccellini che si amavano, erano cose, mi dicevi, che nella tua nazione non saresti mai stata capace di fare, sarebbe stato bello se fosse stata vera questa tua libertà. Portavi i miei slip, i tuoi erano tutti da lavare.
Avevamo fatto spesso all’amore, ma quell’ultima sera prima che tu partissi non successe, io non volli. Quella notte non dormii in attesa di alzarmi per accompagnarti alla stazione Noa.
Era appena salita sul treno portandosi dietro tutti i suoi bagagli; prima che salisse l’avevo baciata, sarebbe stata l’ultima volta.
Era ancora notte quando l’avevo accompagnata alla stazione, ed ora che stavo tornando a casa non riuscivo bene a capire cosa sarebbe accaduto appena avesse fatto giorno.
Noa stava partendo la strinsi e la baciai per l’ultima volta. Le chiesi di salutarci così. Mi mossi e me ne andai dalla stazione, appena il treno iniziò a rullare sulle rotaie. Avevo nella mano una sua lettera, le promisi che l’avrei aperta il giorno dopo. Dopo che lei fosse partita. Tornava nella sua nazione, una nazione che io non conoscevo.
Attesi il giorno dopo per aprire la lettera:
Noa 7. Settembre.
Amore mio!
Quando tu leggerai questa lettera io già sarò lontana da te. Ma non dimenticare mai che profondamente ti sarò sempre vicina.
Pensa a quello che mi hai promesso e non essere triste. Sono sicura che tra poco ci vedremo. Anche per me è bene tornare un po’ nel mio ambiente, nella mia nazione, così posso sistemare il grande casino che c’è dentro me.
Amore cerca di essere e di rimanere te stesso. Non so dove ci porterà la vita, se staremo insieme o no, ma pensa che il tempo che abbiamo trascorso uniti è stato bellissimo e nessuno ce lo potrà rubare.
Con un po’ di buona volontà e l’aiuto di Dio troviamo una soluzione; così tu dipingi e io ho la macchina grossa; no, non sto scherzando, ma forse ci aiuta anche il tempo.
Voglio che tu sappia che succeda quello che succeda, ti ho amato con tutto il mio cuore.
La vita si può guidare fino ad un certo punto, ma io penso come Sinuhe dell’Egitto, che la nostra strada è già scritta nelle stelle dal giorno che siamo nati. Per questo non mi preoccupo troppo, perché se c’è scritto che passiamo la vita insieme, vedrai la passeremo insieme.
Amore mio,
quando hai bisogno di sfogarti, di parlare con qualcuno che ti capisce scrivimi, cercherò di comprenderti.
E adesso dipingi, leggi, scrivi, fa un giro in bicicletta e sii felice, che la vita è troppo corta per passare dei momenti tristi.
Un gran bacio e tutto il mio amore
Noa
Emili, 7 Marzo
Ciao,
So già a cosa stai pensando, sicuramente dirai: si è decisa a farsi sentire!!! Hai ragione, ma non so se riesci a capire che è molto difficile per me telefonarti o scriverti. Mi fa troppo male…
Comunque dopo aver ricevuto il tuo ultimo espresso mi sono detta che dovevo risponderti. Voglio esserti vicina e sono felice che mi consideri un’amica, del resto sarebbe un peccato dimenticare tutto. Come penso anche sarebbe tristissimo stare qui a darsi colpe su quello che è stato e doveva essere. È successo così, io desidero solo, con tutto il cuore, che tu riesca a passare nel migliore dei modi questo particolare momento e ti auguro sinceramente di essere più fortunato in futuro, di trovare la persona giusta capace di darti tutto quello che desideri. Sai, io penso che questa ragazza sarà la più fortunata del mondo…
La mia vita, purtroppo, è quella che è, non potrà mai cambiare, non ho la forza, comunque ho vissuto con te dei momenti splendidi che rimarranno per sempre in me e sicuramente saranno gli unici momenti veri di questa mia inutile e idiota vita.
Ti ringrazio x questo, mi rammarico del fatto che non sono riuscita a fare quello che desideravo (sono troppo debole e cretina), ma quello che mi fa soffrire dannatamente è che tu stai male x causa mia. Darei qualsiasi cosa pur di sapere che tu sei sereno e felice.
Ora ti saluto, scusa la penna rossa, ma è stata l’unica che ho trovato.
Vorrei anche salutare i tuoi genitori e ringraziarli ancora per tutto l’affetto e l’accoglienza vera e sincera che mi hanno riservato. Se non mi odiano tanto, dai loro un bacione da parte mia.
Aspetto tue notizie.
Ciao Emili
…Ti avevo telefonato tutta la sera ma il tuo telefono non dava segni di vita. Ti richiamai la sera successiva, mi dicesti, Emili, che era rimasta staccata la spina dell’apparecchio telefonico. Ti chiesi – “Cosa avevi fatto ieri sera?” Mi hai risposto che eri uscita. Ti chiesi Con chi, mi avevi detto che c’era uno che ti girava intorno da qualche giorno. Mi hai risposto che eri uscita con lui. Ti domandai cosa era successo. Mi hai detto che eravate andati a cena insieme e che poi in macchina ti aveva baciata. Ti dissi che tu glielo avevi permesso, perché? Perché avevi fatto accadere questo.
Ricordo che scoppiai a piangere, chiedendoti perché lo avevi fatto. Non potei perdonarti, ma l’intimità che avevo con te, non era svanita, e con te sfogai tutto quello che a causa tua stavo provando. Non ricordo come fu, ma poi non ti cercai più. L’anno dopo ci vedemmo al mare io ero con una mia amica, tu eri con uno, non so se era quello della sera in cui “ci avevi tradito”. Io ancora ero arrabbiato, ma tu soffrivi, lo capivo che soffrivi.
Qualche giorno dopo la tua partenza, Noa, una sera mi telefonasti, iniziasti a parlarmi di quanto era bella la tua nazione, che quando eri tornata eri stata felice di vedere il verde, le montagne. Ti risposi che immaginavo che tutto fosse come mi dicevi tu, che mi sarebbe piaciuto vedere quei posti… Poi dicesti quella frase: “Sai io non mi adatterò mai a vivere nella tua nazione e a te non piacerebbe vivere qui.” Ti dissi che potevamo vivere un po’ lì da te un po’ qui, ma c’era tempo per questo. Tu continuasti ad insistere nel tuo ragionamento. Allora ti chiesi — “È finita?!” Mi rispondesti di no, che intendevi un’altra cosa…
Ora ripensando a quel momento credo che fosse iniziato il tuo ultimo atto di puro egoismo. Era troppo per te assumerti la tua parte di responsabilità per la fine della nostra storia, ammettere che le tue promesse erano state solo un gioco inconsapevole. No, non ti bastava che finisse, volevi anche che fossi io a prendere la decisione di chiudere la nostra storia, che mi assumessi io tutta la responsabilità della tua incoerenza.
Eri lontana e non riuscivo più a comprenderti e tu ti impegnavi per fare in modo di non comprendere quello che ti dicevo. Ti scrissi, telefonai per dirti che ti amavo e capire se tu mi amavi. Il nostro rapporto non si sapeva più cosa fosse, né dove andasse. Decisi che non potevo continuare cosi. Ti telefonai quell’ultima volta, ti domandai che cosa tu volessi da me, che non avevo più tempo, che quella sera mi avresti dovuto dare una risposta… forse cadde la linea, ti richiamai e ti rifeci la domanda. Mi dicesti che volevi che rimanessimo amici. Non potevo, ti dissi che io non potevo pensarti come un’amica, non potevo vederti diversa da quello che provavo per te, ti amavo e ti volevo e che perciò era meglio finirla così. Che quando volavi di notte e vedevi i passeggeri che dormivano mentre tu non potevi trovassi qualche altro a cui dirlo, per farti consolare. Credo che ti scrissi un’ultima lettera di amore e rabbia e poi ne ricevetti una tua
Noa 21 Settembre
Mi sono arrivate le tue lettere e sinceramente non so cosa risponderti! In una mi accusi costantemente, nell’altra mi dici che mi ami! Che strano. Io non ho mai detto che lealtà, fiducia e amore sono sogni. Anche a me piacciono questi valori. Soltanto che non tutti hanno la possibilità tua di concentrarsi soltanto su queste cose. Scrivi che fai la vita che tu vuoi, intellettualmente, culturalmente, etc. Ma tutto questo lo puoi fare perché i tuoi ti aiutano. Facile!! Non ognuno ha questa possibilità e io sinceramente non la vorrei, mi vergognerei. E se trovi che sono tanto falsa e ipocrita non darmi il tuo amore, perché non lo voglio. Io nella mia vita non ho scelto sempre la strada più facile, al contrario, cerco di fare una vita nel quale anche l’amore un sorriso, gentilezza contano qualcosa, e questo modo d’essere incomincia già nel mio lavoro. Tanto che dici che conosci la mia vita. Penso che non sai nulla della mia vita. Non penso che un giorno mi trovo sola perché anche io ho la capacità d’amare + altri valori. Ma forse tu ti sentirai solo perché penso che sempre troverai qualcuna per amore; ma nessuna resta. (Ma chissà, forse trovi un giorno una donna vegetariana a cui piace mangiare le alghe! Battuta!!!) Guarda abbiamo passato momenti stupendi, momenti che non si dimenticano, almeno io no, ma ho dovuto e voluto tornare in questo mondo e mi sento bene qui, amo il mio lavoro, i miei amici e colleghi. Siamo diversi e lo devi accettare come io ho dovuto accettarlo. Quando sono arrivata qui avevo una confusione immensa dentro me, ma con l’aiuto del mio padre, lavorando come una matta ho cercato di ammazzare certe sensazioni perché so che soltanto mi faranno del male. Non è facile ma devo trovare il modo di farlo perché non vedo un’altra uscita. Un’uscita che fa felice tutti e due. Scusami! L’amore che ti ho dato è sempre stato sincero e spero che il mio ricordo per te non sia quello di un’ipocrita. Se vuoi la mia amicizia la puoi avere sempre, ma non farmi soffrire, perché in questi due anni passati ho sofferto abbastanza. Ho incominciato un diario dove mi sfogo la sera quando torno a casa e mi fa del bene scrivere i miei pensieri. Ti lascio perché è già molto tardi e domani devo volare in rotazione (spiego un’altra volta) a Rio è una delle destinazioni più dure per lavorare.
A presto e un bacio forte
Noa
Passarono due anni, una domenica pomeriggio Noa, feci il tuo numero di telefono, sentii nel ricevitore la tua voce vezzeggiativa, nello strano dialetto della tua lingua, mi avevi scambiato per tuo padre? Ti chiesi come stavi. Mi rispondesti che avevi lasciato il lavoro di hostess, non capii se da sei mesi o dopo sei mesi che lo avevi iniziato. Avevi incontrato la persona con cui stavi e mi raccontasti che siccome non potevate vedervi mai avevi smesso quel lavoro; mi dicesti che stavi per sposarti. Ti chiesi che lavoro faceva lui, mi hai detto che era uno studente, ti chiesi che cosa facevi tu, a quel che mi dicesti stavi facendo un corso per oreficeria, almeno questo fu quello che mi sembrò di capire. Accennammo un attimo alla nostra storia e quando ti dissi che tanto uno come me non lo avresti più trovato, di sentii dire che ero stato io a lasciarti, non eri cambiata, ti risposi che non aveva più importanza di chi fosse stata la colpa. Poi mi dicesti che dovevi riattaccare perché lui era lì ed era geloso, non capiva quello che stavi dicendo, mi dicesti di scriverti. Ci scambiammo un paio di lettere, forse stupide, tu mi scrivevi per dirmi che stavi preparando il tuo matrimonio ed io ti scrissi per farti gli auguri.
Emili l’incontrai dopo due anni al mare; parlammo — si era sposata e separata dopo breve tempo, aveva trovato un uomo violento, che mi disse aveva menato a tutti compreso lei; non so perché ma mi disse che avevo ragione io. M’invito a telefonarle, io gli chiesi se voleva uscire quella sera stessa, si presentò all’appuntamento, ma mi disse che la mattina dopo doveva alzarsi presto perché doveva partire, era quello il suo ultimo giorno di vacanza.
Ero stato seduto tutto il tempo con questa sconosciuta che aveva aperto il suo quaderno nello stesso tavolo dove ero io, e avevo immaginato il ricordo delle storie di Noa e Emili. Ora questa donna ha chiuso il suo quaderno, lo ha riposto nella sua borsa ed io non so chi sia — Si alza e si avvia verso l’uscita del locale, lo attraversa schivando le persone e raggiunge l’uscita — si chiude la porta alle spalle.
Io rimango ad osservare gli sguardi dei clienti, che immagino essere soliti di questo locale; fanno commenti tra loro, sulla donna ch’è uscita. Non so poi se i loro discorsi siano oziosi o motivati da un sereno interesse. Da quando mi sono seduto a questo tavolo, alcune volte ho scoperto il loro sguardo osservarmi e forse interrogarsi, chiedersi chi io fossi, ma nessuno fino al punto d’incontrarmi, sedersi qui, al mio tavolo, insieme con me. Ho guardato il barman, quella ragazza che parlava con il cameriere, ho osservato il gruppo jazz istallate la strumentazione, alcuni ragazzi parlare, e mentre ho osservato la varia umanità che ha attraversato fin ora la notte, fino a queste ore profonde della notte una parte del suo tempo in questo locale, anch’io ho pensato e immaginato chi fossero costoro.
Sono seduto qui, in questo locale aperto la notte ed ho appoggiato sul tavolo un pacco di fogli che ho trovato per caso su una panchina di un giardino qualsiasi di questa città, vi ho messo sopra una matita con la gomma per cancellare ad una estremità. Mi accingo a versarmi nel bicchiere il porto dalla bottiglia che mi è stata portata — è ancora piena. Noto che qualcuno sta osservando i miei gesti, forse si saranno chiesti cosa aspettassi a bere. Sorseggio appena dal bicchiere un po’ del vino che contiene, bagnandomi le labbra. — Poso il bicchiere sul tavolo. Poi prendo dalla mia borsa, appoggiata ai piedi della mia sedia il mio computer portatile, lo poso sul tavolo, sollevo lo schermo; lo accendo, alzo l’antenna del telefono satellitare del computer; avvio il programma e mi collego ad Internet, vado alla posta e vi trovo un messaggio.
Da: Mixmaster <mixmaster@remail.obscura.com>
A: bernardo@joyce.it
Oggetto:
Data venerdì 5 giugno 2002 20.52
Ciao,
sono Sasia… ho letto i tuoi biglietti. Sono bella e intelligente, proprio come mi vuoi tu. Perché non mi scrivi e parli di te?
mailto: Peraverde@usa.net
Da: bernardo@joyce.it
A: Peraverde@usa.net
Oggetto: noi
Data: domenica 7 giugno 2002 19.48
Cara Sasia è domenica pomeriggio ed ho appena letto il tuo messaggio con vero piacere.
…Mentre guardavo la televisione mi è venuta in mente che esiste una tessera che permette di entrare in tutti i cinema italiani gratuitamente. Le mie ricerche in internet non mi hanno dato informazioni utili sul modo di procurarsela.
Un ciclista italiano ha vinto il giro d’Italia. Tra qualche giorno iniziano i mondiali di calcio, spero tanto mi diano delle belle emozioni. (La televisione è accesa, ma ogni tanto il segnale dal satellite salta, spero che non sia una scocciatura tecnologica; la tecnologia occupa una parte rilevante ma non condizionante nella mia vita. Mentre ti sto scrivendo alzo lo sguardo sopra il monitor — c’è una gara di atletica e l’occhio mi va sul corpo delle atlete, alcune sono proprio belle. Devo dirti che mi manca la bellezza di amare la profondità dei pensieri di una donna adorandone il corpo, mi manca la bellezza della lealtà di fare all’amore.)
…Le parole della notte di Seamus Deane, è il libro che ho ordinato questa mattina. I libri sono miei amici, anche se in questo ultimo anno non sono stato un lettore “forte”.
— Quando vedo gli editori e gli scrittori li trovo così vecchi e stereotipati, superati — forse è per questo che credo che la letteratura ha qualcosa di nuovo da dire, di stimolante.
Credo che per paradosso in un’epoca in cui tutte le forme d’arte devono esprimere la libera e fluida espressione creativa… tutte le “categorie” dell’arte sono ferme nel loro vanesio apparire per un’esistenza che ha dimenticato se stessa, i suoi valori, i valori — l’oggettiva bellezza della libertà.
“Il successo delle cose che cambiano non ha alcuna essenza per il mondo monocorde della nostra vita solitaria?
In fondo le persone che spesso si incontrano non rappresentano il nostro mondo ma solo il richiamo del tempo che attraversa la nostra esperienza?”
Ieri sera ho ascoltato delle favole, favole della tradizione, ma che vivevano di nuovo nella lettura dell’attore Paolo Poli… Ho avuto l’impressione, ascoltandolo, vedendolo, che Paolo Poli sia una bella persona. (goliardia, smetto un attimo di scrivere, vado in bagno a fare pipi)
Ora che sono tornato mi rendo conto che potrei dirti tante cose, ma per adesso ti saluto. Domani mattina spedirò un mio libro ad una casa editrice — il titolo è “Il Tempo”; forse è il modo migliore per non farsi pubblicare, ma con la burocrazia delle raccomandazioni io non ci capisco niente, so che ogni mia espressione creativa è di qualità. Fammi gli auguri, ma non dirmi in bocca al lupo perché sono vegetariano.
Cara Sasia sinceramente non so quali sono i bigliettini che hai letto, ma che importa. Io comunque mi chiamo Bernardo Joyce abito in via Svolta, 19 — 63037 Porto D’Ascoli Italia.
…Allora stasera forse uscirò in bicicletta e farò una passeggiata sul lungomare e ascolterò il suono del mare, sentiamo un po’.
CIAO!
bernardo@joyce.it
Da: nobody@nsm.htp.org
A: bernardo@joyce.it
Oggetto: a presto
Data: lunedì 8 giugno 2002 15.45
Ti risponderò presto… ciao!
Sasia mailto:Peraverde@usa.net
Da: nobody@nsm.htp.org
A: bernardo@joyce.it
Oggetto: Ciao da Sasia!
Data: martedì 9 giugno 2002 15.24
Caro Bernardo,
non puoi immaginare quanto mi abbia fatto piacere ricevere la tua lettera, non credevo che potevi interessarti minimamente a me non conoscendomi personalmente.
È molto difficile trovare un uomo come te al giorno d’oggi, dove tutti gli uomini alla fine cercano soltanto la seduzione in una donna……
Ti regalerei una tessere su misura per te, con tutti i films che tu vorresti vedere e li comprerei per il piacere di starti a guardare mentre sei tu li come spettatore.
La tecnologia è forse si una gran scocciatura, ma in questo caso mi ha almeno dato il modo di prendere il coraggio di scriverti, sì il coraggio, perché sono sposata da circa due anni, ma “fisicamente” non va molto bene con mio marito. Non è ancora il momento di parlarti e farti capire chi sono, prima devo capire se posso fidarmi di te.
Mentre immagino i tuoi occhi puntati sulla televisione, incantato dai corpi delle atlete, mi viene da ridere: se vedessi il mio corpo non avresti più bisogno della tua televisione, se seguissi la linea della mia schiena, smetteresti di respirare.
Io potrei rappresentare il tuo mondo, mi piace pensare che sono già dentro di te anche se tu non te ne sei reso conto, ma lo realizzerai molto presto se solo il tuo desiderio crescerà e allora scoprirai che il mondo non è monocorde e le nostre vite non sono poi così solitarie e le persone che s’incontrano non rappresentano più un richiamo freddo del tempo… io ti conosco e mi sei sempre piaciuto.
Continuando a leggerti, ho notato che hai mischiato Paolo Poli con la tua urina, hai parlato di lui e poi sembra che lo abbia associato al tuo bisogno fisico: ti ho odiato per questo!!!
Ma aspetterò con impazienza quante altre cose hai da dirmi e spero lo farai molto presto.
Sasia mailto:Peraverde@usa.net
Da: bernardo@joyce.it
A: Peraverde@usa.net
Oggetto: guarda un po’
Data: martedì 9 giugno 2002 17.48
Cara Sasia,
La sorpresa che può accogliere una novità è quella di qualcosa di semplice che accade, di così immediato da poter essere vero.
In realtà penso che non ci sia niente di più bello che passeggiare con se stessi, come se vicino ci fosse sempre qualcuno; come se i nostri luoghi che ci vivono dentro non aspettino altro che di essere abitati da qualcuno che semplicemente li guarda con gli occhi di qualcosa da scoprire, di qualcosa che cerca di esprimersi.
Il piacere di esprimersi è troppo bello perché chiunque che non sia uno sciocco lo impedisca, quando qualcuno vuole dirci qualcosa non dobbiamo far altro che dare — avviene così quell’alchimia che ci permette di vivere e camminare insieme.
C’è sempre tra un suono e un altro quello strano silenzio che ci fa capire che stiamo aspettando, ma quando percepiamo questo silenzio ci rendiamo conto che l’attesa non è più, perché il tempo è tutto lì; non c’è più paura, ma soltanto la consapevolezza che il mondo è più grande di quanto possiamo immaginare, che le cose che incontriamo non ci dicono altro che di respirare i nostri passi perché il mondo esiste; a noi non spetta altro che esistere con lui afferrando quella responsabilità che ci chiede di elaborare la nostra storia, di trovare la nostra esperienza.
Già ora che ci penso è proprio per questo che ogni tanto mi manca l’aria, perché non mi accorgo che quel silenzio così bello, ogni tanto c’è chi se lo scorda. Adesso mi viene in mente John Cage un compositore di musica contemporanea che aveva coniugato la sua musica con l’unisono di un suono legato al sentire ZEN. Una volta ho sentito, non ricordo dove, che negli ultimi tempi avesse anche smesso di parlare, chissà in quale estasi si trovava: forse gli è mancato il respiro… se avesse incontrato una persona simpatica che gli avesse parlato di una linea mozzafiato…
…Sto rileggendo la tua lettera e mi sto accorgendo che ci sono scritte delle cose bellissime, mi piace, è un po’ come respirare a pieni polmoni, o sorridere guardando una persona negli occhi e sentirne l’odore. Scusa se ora smetto, devo far passeggiare un po’ le sensazioni.
…Per l’attore è stata un’ipotesi associativa non voluta, ma quando scrivo alcune volte mi piace interrompere lo spazio con il tempo.
La tua lettera è bella. CIAO!!!!!!!
bernardo@joyce.it
Da: Anonymous <nobody@REPLAY.COM>
A: bernardo@joyce.it
Oggetto: ciao…
Data: mercoledì 10 giugno 2002 23.24
Caro Bernardo,
Se solo avessi avuto l’opportunità e la fortuna di conoscerti prima……ora la mia vita sarebbe stata diversa! Passeggio spesso, da sola e in compagnia forse sempre con me stessa…e quando mi fermo in quei luoghi, i nostri luoghi che come dici tu ci vivono dentro, vorrei abitarli con te.
Forse ti sembrerà incredibilmente assurdo tutto ciò che sto scrivendo, ma ti sento come non ho mai sentito nessuno da molto tempo a questa parte.
Il mondo non è poi tanto grande perché in questo mondo ho avuto l’opportunità di un incontro virtuale con te……ed ho allora deciso di esistere con lui per trovare la mia esperienza.
Forse ti sto un po’ spaventando, ma sento che con te posso veramente lasciarmi andare senza paure!
Mi fa piacere, molto piacere che la mia lettera ti sia piaciuta. Dopo averla riletta, prima di spedirtela credevo e temevo di essermi spinta troppo oltre, ma poi ho deciso di essere spontanea ed è proprio questa spontaneità che è solo mia che a volte mi fa essere addirittura selvaggia.
Cosa è per l’odore?
Ora scusa, ma devo andare.
A presto
Sasia
mailto:Peraverde@usa.net
Da: bernardo@joyce.it
A: Peraverde@usa.net
Oggetto: ciao!
Data: giovedì 11 giugno 2002 20.49
Cara Sasia,
non mi stai spaventando, ma ho l’impressione che in alcuni momenti non riesca più a vedermi mentre cammino. Le tue lettere sono entrate nella mia vita trovando in me qualcuno che stava aspettando una donna che gli parlasse così, ora non ti racconto perché; ciò però, devo essere sincero mi fa girare un po’ la testa. Quando accendo il computer e vedo la posta e trovo un tuo messaggio, sono contento ma allo stesso tempo un po’ disorientato, perché non mi sembra vero — Ho un po’ paura che tutto ciò che sta diventando sempre più reale, possa ad un certo punto non esserlo più. Tutto questo mi procura delle emozioni, accende in me dei desideri, si formano in me delle speranze che ancora non riesco a capire, vedere. Dove ti trovi? e dove sono io quando mi scrivi. Certe emozioni che mi susciti stanno dibattendo con dei miei termini e tutto questo si confronta con un’immaginazione che non sa verso chi orientarsi. Mi hai detto che tu mi conosci, io ti conosco? Ti ho mai visto? Ti saluto quando ti incontro? Non voglio forzarti… ma sono alcune domande che mi passano nella testa. In certi giorni di pioggia è bello sentirsi una goccia ti rida gioia e serenità e vorrei sentirmi così quando penso a te, e sorridere quando torna il sole.
Ti penso bella e vorrei darti un bacio, ma non capisco se è giusto. Sii te stessa e sentiti libera, sei bella così, ma aiutami un po’.
…L’odore è quello che si sente di sincero.
Ciao! Bernardo
bernardo@joyce.it
Da: bernardo@joyce.it
A: Peraverde@usa.net
Oggetto: buonanotte
Data: sabato 13 giugno 2002 23.38
Cara Sasia,
ho pensato di vederti come una stupenda farfalla, che sa volare come una principessa. Sono sicuro che le cose che senti riescono sempre ad emozionare chi le sente con te, ed è una fortuna poterti vivere. Sai quel libro che dovevo spedire è ancora qui con me, mi piacerebbe fartelo leggere, con il tuo modo piacevolmente regolare con cui scrivi e la tua perspicacia, penso saresti una piacevole consigliera. Naturalmente è un mio desiderio che considero esaudito; ma se un giorno tu volessi ne sarei contento.
Pensando a come voli bene tu, io al contrario oggi ho sperimentato lo stile radente, particolarmente indicato per quel sentire profondo che si definisce con il farsi male. Sperimentando il volo d’angelo per evitare una pozza d’acqua, sono scivolato sul gradino davanti all’ufficio postale… subito ho avvertito che lo stile non era proprio d’angelo, giacché il mio viso ha visto molto vicino il suolo; pronto nei riflessi sono andato a guardare cosa era accaduto al mio orologio che avevo sentito colpire il terreno, nel farlo invece di rialzarmi mi sono seduto sopra una pozza d’acqua uguale a quella che volevo evitare all’inizio del tutto, in quel momento quando ho sentito l’acqua bagnarmi, ho ripensato a tutte le volte che ero caduto da bambino, ho pensato che in fondo la cosa non era molto diversa e allora ho capito che potevo riprovare il volo d’angelo e mi sono rialzato.
buonanotte Sasia.
Bernardo.
bernardo@joyce.it
Da: bernardo@joyce.it
A: Peraverde@usa.net
Oggetto: come stai Sasia?
Data: lunedì 15 giugno 2002 0.34
Cara Sasia,
è bello nuotare, ancora di più perdersi a largo, peccato che non mi riesca più tanto, oramai ci sono sempre dei motoscafi e con il fatto che io sono un poco miope sono sempre sul chi va la… Anche se applico il sistema sonar, tenendo le orecchie sotto l’acqua si avverte un motore quando è lontano — pazienza. Però la miopia può essere un vantaggio, stimola la riflessione deduttiva; non mettendo a fuoco si finisce col ricorrere ai mezzi intellettuali per dedurre da quel che si vede, cosa può essere appunto quel che si vede. In realtà non riesco a vedere neanche gli sguardi delle donne che in spiaggia si interessano a me; sinceramente non me ne importa poi molto, non riesco a condividere quelle puntatrici abbagliate dal sole, parlate Dio mio. Penso avrai capito che al mare porto poco gli occhiali. Oggi ti ho vista! eri una farfallina che volteggiava nell’aria tutta contenta, mi sei passata davanti ti sei posata sulla spiaggia e poi hai continuato a volare, chissà cosa stavi pensando.
certi giorni ci immaginiamo come soltanto siamo, sono momenti ricchi, pieni di ogni nostra silenziosa emozione; ti viene voglia di sorridere, di piangere, di raccontare le cose che hai capito di te stesso a chi non ti costringe a difenderti, Dio che bello sarebbe fare questo. Non ci sarebbe più un sogno da seguire, ma la bellezza della realtà che ti accoglie. Penso spesso a cose semplici, a quei momenti che si trasformano in qualcosa di speciale perché li si fa come se si prendesse consapevolezza del proprio respiro. Mi mancano queste cose, questi momenti cosi veri da essere unici, così intensi da restare in te per sempre, però mi piacerebbe in cuor mio che tu non sia solo un momento da ricordare, ma qualcuno con cui è possibile creare questi momenti.
Mi sorprendo a sperare di camminare, mi dico soltanto che le cose che ho dentro presto torneranno, che il mondo che ho scoperto potrò forse donarlo.
Afferro gli sguardi della gente e ti dico che camminano, anche quando non vogliono darti strada, basterebbe solo che sorridessero e si aprirebbe la loro strada.
Cara Sasia ho capito tante cose con gli occhi e dentro ho sentito tante cose senza che nessuno se ne accorgesse, soltanto perché lo sguardo è più profondo di ciò che vede, è più reale della sua immaginazione. Ho raccolto un deserto di sabbia e ho visto tutti i desideri del mondo, dai più belli ai più brutti, pensando solo al bisogno d’amore. Ora cerco sempre di afferrare i sentieri, li disvelo dove mi sento tranquillo.
Un passo, un altro passo e certo di camminare mi butto addosso il mantello della vita.
Forse uno di questi giorni prenderò la macchina fotografica e lascerò che la gente passi dove io ho deciso di fermarmi; e lì in quel punto loro sosteranno nell’attimo in cui io penserò a loro. Saranno lì per sempre e pure altrove. Forse è così che un ricordo ci sorprende della sua eternità.
Vorrei continuare tutta la notte
cara Sasia.
Buonanotte a te.
Bernardo.
bernardo@joyce.it
Da: Anonymous <nobody@REPLAY.COM>
A: bernardo@joyce.it
Oggetto: ciao!
Data: lunedì 15 giugno 2002 15.17
Caro Bernardo,
Ora sei tu a spaventare me……
Questo turbine vorticoso di sensazioni mi sconvolge tutta, dalla testa ai piedi. Cosa ti hanno fatto le donne? Raccontami un po’ della tua vita carnale, di qualche tua esperienza, sei mai stato innamorato per esempio? Ho bisogno di sapere, perché solo conoscendo l’intimità della tua carnalità posso darti di più di me stessa.
Non devi sentirti disorientato, o forse è meglio dire che devi sentirti disorientato solamente perché sono io a disorientarti, sono vera Bernardo e se sarai paziente lo scoprirai. Ma ho bisogno di tempo, ho bisogno di credere che anche tu esisti e sei davvero ciò che mi scrivi……anche se a volte non riesco a capire il tuo modo assurdamente astratto di descrivere emozioni e sensazioni…
Quali sono i desideri che si accendono in te? Quali speranze celi nel tuo intimo essere? Ho bisogno di sapere.
Non posso ancora dirti dove mi trovo, ma non sono lontana da te. Dove ti trovi quando ti scrivo? Non lo so esattamente, ma potrei immaginarlo: forse seduto su una barca capovolta ad ascoltare il rumore delle onde che solleticano la spiaggia e si ritirano in silenzio, un silenzio che è rumore e parole ed emozioni solamente per chi le sa ascoltare e comprendere, forse ti trovi invece nella cucina della tua casa e ti stai friggendo una favolosa frittata con le cipolle…adoro le cipolle e tutto ciò che le ricorda, o forse dormi, o forse ami, o forse sei in bagno a fare la doccia o i tuoi bisogni fisiologici, o forse sei rigido e immobile davanti allo schermo del tuo computer e aspetti un mio segnale. Non lo so! Dimmelo tu…dove ti trovi mentre ti scrivo? Dove sei quando penso a te???? Ti domandi se mi hai mai vista. Sicuramente mi hai vista, ma non mi hai guardata e allora non puoi aver compreso chi sia in realtà, ma esisto!!! Non mi saluti quando m’incontri, mentre nessuno ci ha introdotto l’uno all’altra……
Puoi chiedermi tutte le domande che ti passano per la testa……ad alcune potrò rispondere, ad altre lascerò a te l’immaginazione della risposta. È ancora troppo presto e non posso lasciarmi andare completamente, non so ancora come se o chi sei o cosa c’è davvero dietro quello che scrivi. Non so se sei tu a scrivere o se è frutto di altre fonti……devo comprendere e quando raggiungerò il sapere anche tu ti unirai a me!
Mi pensi bella? Lo sono purtroppo e a volte proprio per questo vengo rinchiusa in una torre di perbenismo e ipocrisia dalla quale è spesso difficile liberarsi.
Vorresti darmi un bacio……………………
Non posso aiutarti, sei abbastanza adulto (spero) da non chiedere aiuto ad una donna.
Ciao,
Sasia. mailto:Peraverde@usa.net
Da: bernardo@joyce.it
A: Peraverde@usa.net
Oggetto: ma che dici?
Data: lunedì 15 giugno 2002 21.10
Carissima Sasia,
per ora una risposta nella rapidità. Tu sei pazza, ma come ti viene in mente di dire che quello che scrivo non è frutto di me, ma con chi immagini di impaurirti; se tu sapessi cosa è per me la creatività impazziresti di gelosia perché nessuna donna potrà mai sostituirsi al mio mondo creativo, per il senso che mi dà, anche quando una donna ti fa sentire la solitudine. Non sono arrabbiato, ma un pochino deluso sì. Con un sorriso ti dico che io sono pronto a baciarti, soltanto se tu potessi farti una passeggiata, senza la paura di dirmi chi sei, sono sicuro che meriti molto, e vorrei darti di più; ma non dimenticare che un giorno come tutti, lascerai tutto e tutti, ed è così che devi sentirti sempre, pronta a questo; è con questa tranquilla certezza che io mi confronto quando creo. Potrei dirti che sono capace di presentare dieci mostre in un giorno, scrivendo il tutto in mezza giornata con ottima qualità, di farne altrettante di ottima qualità, utilizzando la multimedialità; ed è proprio per questo che qui non riesco a fare niente di tutto questo, è proprio per questo che penso che anche dove ci sono i vertici c’è un vuoto pauroso; vorrei spiegarti tante cose e spero di poterlo fare con il tempo, ma sappi che potrò farlo soltanto se tu sarai capace di aiutarmi, …perché è così fidati, lascia a me la mia esperienza, se vuoi che riesca a farti partecipe di essa. Non mi sento debole se ti chiedo di darmi te stessa, tutt’altro mi costa coraggio perché vuol dire che voglio fidarmi. Per scriverti non sono andato a comprarmi la pizza che io adoro; non vuol dire che mi devi cucinare; sorridi è quello che pensano le donne stupide che mi tocca frequentare.
Ti mando in aggiunta a questa qualcosa da leggere — un breve saggio che ho scritto un po’ di tempo fa, è un po’ datato e forse dovrei ampliarlo, un giorno forse lo farò. Leggilo e poi se ti va apri una discussione con me. Se hai qualche problema per aprire il documento fammi sapere, ma sono sicuro che ti saprai disimpegnare.
Ti risponderò in un’altra lettera sulla mia carnalità meravigliosa.
Ti ringrazio per la bella lettera, birbona.
Io sono forte come una montagna, ma quando mi fido divento fragile come il più prezioso dei cristalli…
un bacione forte, tò!
Bernardo
bernardo@joyce.it
MANIFESTO
DEL MOVIMENTO MINOLLICO
(16 Luglio 1996)
Si scatenò un flusso incessante di fantasie, e feci del mio meglio per non perdere la testa e per ritrovare il modo di capirci qualcosa. Ero inerme di fronte a un mondo estraneo dove tutto appariva difficile e incomprensibile. Vivevo in uno stato di continua tensione, e spesso mi sentivo come se mi cadessero addosso enormi macigni. Le tempeste si susseguivano, e che potessi sopportarle, era solo questione di forza bruta. Per altri hanno rappresentato la rovina: Nietzsche, Hölderlin, e molti altri. Ma in me c’era una forza demoniaca, e mi convinsi fin da principio di dover cercare a ogni costo il significato di ciò che sperimentavo in queste fantasie. Nel reggere a questi assalti dell’inconscio ero sostenuto dal saldo convincimento di obbedire a una volontà superiore, e questo sentimento mi diede forza finché non dominai il mio compito. (C. G. Jung)
Lo schizofrenico è il paradigma ideale del MOVIMENTO MINOLLICO; la sua energia: la destrutturazione, di ogni sclerotizzazione accademica sociale; l’unica epistemologia sapienzale; è l’azione della ricerca che si incarna nell’essere umano. L’atto estremo per la libertà, contro la subordinazione, contro il non essere.
Minollico è colui che non “lecca”; Minollico è colui che non si fa “leccare”; colui che converge divergendo: il diseredato, ma anche l’erede; l’altro e il non altro, ma sempre il “singolo nudo”.
Il MOVIMENTO MINOLLICO non esiste, è libero da ogni identità “temporale”, appartiene all’agire di ogni essere, alla sua nuda identità che si proclama; non ha obblighi, ma scelte moralmente confrontabili.
Il manifesto del MOVIMENTO MINOLLICO è a disposizione di chiunque, persegua il superamento del pregiudizio ed è contro l’intolleranza. Ogni essere se sceglie di rispettarne la sua integrità, può appropriarsene e deve diffonderlo, accettando le analisi che da tale atto possono scaturire sul suo agire. Ogni essere che decide di aderire al manifesto è l’unico responsabile delle sue azioni individuali.
I principi del manifesto sono custoditi da chiunque ne prenda coscienza, costoro riflettono, sull’uso che di esso ne viene fatto.
Il manifesto del MOVIMENTO MINOLLICO non è proprietà esclusiva di nessuno.
L’origine ch’è in ognuno di noi è l’energia che ci spinge a ricordare, forse proprio per tornare a quell’origine, chissà!? Ed è proprio da un sentire profondo che nasce tutto, è quest’energia che ci dà la possibilità di ricordare, anche attraverso fenomeni psichici che ci sembrano inconciliabili, che ci sembrano irraggiungibili. Se noi comprendiamo che la nostra vita ha un senso, anche se ci appare misterioso, troveremo per essa il coraggio di accettare questo mistero e daremo ai fenomeni della nostra psiche l’utilità che essi meritano per la comprensione di tutti noi.
Un folle che comprende la sua follia è la rappresentazione dell’intera umanità che cerca di comprendere se stessa.
Il minollo fondatore Patrizio Marozzi.
Televisore: l’apparecchio che riceve le immagini trasmesse con la televisione. «Ovvero quattro chiacchiere nella notte di un intellettuale minollico.»
di Bernardo Joyce
Sono le tre di una notte qualsiasi, di una notte ingannata da un sonno che tarda a coprire il giorno. Sono nel mio studio, nella mia stanza aperta e da un po’ di tempo lo schermo del mio televisore è un agitarsi di puntini silenziosi, il loro suono è “occultato” dalla stessa tecnologia che li genera, da qualche dispositivo all’interno dell’apparecchio. Una volta quando l’immagine si perdeva, quando le comunicazioni con l’esterno si “spegnevano”, subitaneo e forte il suono del fruscio, del movimento dei punti sullo schermo, invadeva l’attenzione generando un senso di labile disorientamento nelle persone coinvolte; era un atto impulsivo alzarsi e abbassare il volume e chiedersi inconsciamente dove fosse andato ciò che stavamo guardando; la sorpresa era simile a quella che suscitava il formarsi dell’immagine su un televisore a valvole, l’attesa che era necessaria al nascere dell’immagine, creava il tempo necessario per far provare lo stupore al telespettatore.
Ora la cultura è cambiata, è andata verso la rapidità, ha assorbito potenziandole, le possibilità del mezzo televisivo, creando nuove tecnologie che hanno esteso le possibilità della diffusione informativa, in particolare delle immagini, che era peculiarità della televisione. La cultura che è cambiata dal mezzo ha modificato il mezzo stesso, fino alla tecnologia che annulla la tecnologia.
In ogni evoluzione tecnologica, la sua ultima applicazione, tranne in sporadici casi, rende obsoleta la tecnologia precedente e la nuova esperienza con il nuovo mezzo tecnologico quasi annulla l’esperienza “percettiva” con il mezzo precedente, in questa dinamica vi è un rapporto sinergico dell’energia della “Persona” con l’energia della tecnologia con cui interagisce; tale incontro genera un “esempio” costante del reciproco modificarsi. In questo scambio c’è però una dicotomia di fondo, mentre la tecnologia non ha consapevolezza di se stessa e quindi può mantenere “l’invarianza” della sua costante modificazione, l’uomo proietta sulle possibilità che la tecnologia, che ha sviluppato gli dà, la dimensione della propria coscienza. Generando un “arbitrio tecnologico” che può evolversi verso ogni possibile ipotesi, sia “generativa” che “ingenerativa”. In un’ipotesi fanta-tecnologica la tecnologia acquisisce consapevolezza di sé, si riempie di contenuto e così dà un inizio e una fine a se stessa, ipotizzando la direzione della sua trasformazione; infatti ciò che manca alla tecnologia per essere autonoma dall’essere umano è la capacità di “creare” autonomamente il suo contenuto. Nel rapporto sinergico tra l’essere umano e la tecnologia, il “vuoto” di quest’ultima è riempito dal contenuto che l’essere umano vi riversa, contenuto che la tecnologia una volta acquisito sviluppa e trasforma attraverso le “sue” potenzialità, potenzialità di cui l’uomo si appropria utilizzandole nell’ambito della sua dimensione etica.
Il mio televisore ancora non si riappropria della sua funzione e continuo ad osservare quei puntini che si muovono come impazziti; la notte è andata un po’ più in là, ma io non ho ancora sonno. Mi sembra strano non avere figure sul teleschermo, ora che le immagini televisive non si spengono mai e durano per tutte le ventiquattrore; allora mi viene voglia di andare lì vicino al televisore e colpirlo, come si faceva una volta, per rianimarlo, ma so ch’è inutile. Ora capisco “Ned Ludd”, operaio tessile, quando nel 1779 distrusse per protesta un telaio; un po’ comprendo quegli operai inglesi che nel primo ottocento, crearono quel movimento ostile all’introduzione delle macchine moderne nelle fabbriche considerandole la principale causa della disoccupazione; e che in onore a Ned Ludd chiamarono Luddismo. Il principio del luddismo, nella nostra epoca ha raggiunto il suo punto focale, ciò che era solo una paura ipotetica ora è diventata una visione pragmatica e reale del rapporto dell’uomo con la tecnologia; giacché la tecnologia può riempirsi di contenuti sempre più simili alle “parti” di un essere umano. L’evoluzione tecnologica, ora più che mai è proiettata verso lo sviluppo di tecnologia che riesce a produrre potenziati i contenuti dell’essere umano. In questo agire l’uomo è espropriato e superato in certe sue possibilità di azione; in questa dinamica avviene ciò che il luddismo fantasticava; non è più il contenuto a determinare la tecnologia, ma è la tecnologia che esige il suo contenuto. Possedere la tecnologia equivale a determinare l’azione di chi deve sviluppare il contenuto, l’azione dell’essere umano.
Per far si che le possibilità di questa nuova tecnologia, non diventino in questo modo un nuovo sogno d’immortalità, ma anzi riescano a colmare le nostre incertezze di possibili speranze, esige per non perire in una futile illusione il salto evolutivo verso una dimensione di più forte “umanità” per acquisire una nuova consapevolezza che ci permetta di riappropriarci di ciò ch’è nostro, delle nostre possibilità. C’è bisogno di un rinnovamento radicale della nostra percezione culturale, per una sua ristrutturazione globale.
Ogni discorso artistico che abbia un approccio con la tecnologia, non può eludere questa problematica, altrimenti diventa vano gioco all’interno delle possibilità del mezzo tecnologico, diventa anch’esso un’esigenza del mezzo di subordinare l’arte a se stesso e paradossalmente appropriandosi della sua non più creatività, generando la sua non più arte, la sua estinzione in un “vuoto” inutile.
Non si esige dall’arte l’espressione della sua paradossale fine, che l’arte non cada nell’illusione di poter creare “l’arte” della sua fine attraverso la tecnologia in un vaneggiamento di superamento. All’arte si chiede di stabilire con la tecnologia quella sinergia che ricostituisca il primato del contenuto, che l’arte sia se stessa che autogeneri il suo contenuto in rapporto alla tecnologia e la determini esprimendo così la sua “contemporaneità”; acquisendo quell’equilibrio per evolversi e far evolvere la dimensione socio culturale senza cadere in sterili dissociazioni con tale dimensione.
La televisione nel suo principio: di diffondere e divulgare messaggi, (sublimando lo spazio e il tempo) si serve di un apparecchio che “ancora” si chiama televisore; il “senso” funzionale di questo mezzo sta trasformando il mondo che lo circonda, riempiendolo di tecnologia che estende le sue potenzialità; è come se la tecnologia avesse sviluppato dei suoi “sensi” e creasse altra tecnologia per estendere le potenzialità di questi suoi sensi. È quello ch’è avvenuto tra l’uomo e la tecnologia; la tecnologia ha potenziato e esteso le capacità sensoriali dell’uomo; (ricordando McLuhan) ora la tecnologia generata dall’estensione dei sensi dell’uomo, ha sviluppato caratteristiche e peculiarità proprie, che se anche simili a quelle umane nella loro sofisticazione hanno raggiunto “l’identificazione” di matrici, per gli ulteriori sviluppi di se stesse, fino a sostituirsi alle matrici originarie: i sensi umani. In questa acquisita auto-evoluzione assistiamo all’applicazione della tecnologia, sulla tecnologia che genera una realtà virtuale, una realtà che cresce e si sviluppa all’interno della stessa tecnologia, ma una realtà che si nutre ancora, in un rapporto altamente sinergico, delle informazioni umane.
L’uomo ha quasi costruito un secondo IO, un’intelligenza artificiale su cui poggiare un punto d’osservazione verso se stesso; generando urgente l’esigenza della maturazione di quelle capacità di analisi delle proprie possibilità, per sviluppare la coscienza che gli permetta di gestire le “facoltà” che ha generato, apprendere un equilibrio che accresca la globalità delle sue percezioni, nell’accettazione positiva, non egocentrica, della propria umanità.
Torniamo all’estensione del principio della televisione di cui stavo parlando, prima di iniziare a “passeggiare” con le parole, nell’attesa che il mio televisore torni a funzionare. Tutta la tecnologia che ha come senso quello della diffusione dell’informazione, dal computer con tutte le sue incredibili evoluzioni, da Internet fino alla creazione di macchine per la realtà virtuale, dal fax al video telefono, sta sviluppando sempre più la possibilità di far interagire gli uomini fra di loro superando i limiti spazio temporali; da questa evoluzione nasce anche un nuovo modo dell’essere umano di interagire con la tecnologia, la “partecipazione” dell’uomo nei suoi confronti cresce costantemente, questo genera uno sviluppo dinamico della considerazione di: attività o passività, del rapporto dell’essere umano con il mezzo tecnologico. Ricordiamo un attimo ciò che pensava McLuhan nel suo: “Gli strumenti del comunicare”:
C’è un principio base che distingue un medium «caldo» come la radio o il cinema, da un medium «freddo» come il telefono e la TV. È caldo il medium che estende un unico senso fino a un’«alta definizione»: fino allo stato, cioè, in cui si è abbondantemente colmi di dati. Dal punto di vista visivo, una fotografia è un fattore di «alta definizione», mentre un cartoon comporta una «bassa definizione», in quanto contiene una quantità limitata di informazioni visive. Il telefono è un medium freddo, o a bassa definizione, perché attraverso l’orecchio si riceve una scarsa quantità di informazioni, e altrettanto dicasi, ovviamente, di ogni espressione orale rientrante nel discorso in generale perché offre poco ed esige un grosso contributo da parte dell’ascoltatore. Viceversa i media caldi non lasciano molto spazio che il pubblico debba colmare o completare; comportano perciò una limitata partecipazione, mentre i media freddi implicano un alto grado di partecipazione o di completamento da parte del pubblico. È naturale quindi che un medium caldo come la radio abbia sull’utente effetti molto diversi da quelli di un medium freddo come il telefono.
Vi consiglio di leggere questo libro, che è stato scritto nel 1964 e come è ovvio in questo ha i suoi limiti; ma in esso vi sono anche contenute intuizioni tuttora attualissime. Ma torniamo a noi e pensiamo all’evoluzione avuta dalla tecnologia, all’“interrelazione”* (scusate la nota) di cui parlavo sopra, prima del brano di McLuhan. Lo sviluppo di tecnologia con cui è sempre più possibile interagire rende variabili e instabili i limiti di partecipazione e non partecipazione umana, intrinseci alla tecnologia; la variazione dipende dal grado di conoscenza ed equilibrio psicologico dell’essere umano che interagisce con la tecnologia; giacché essa ha assunto nei riguardi dell’essere umano un livello di alta definizione multi-sensoriale, ma la possibilità dell’essere umano di agire verso la macchina si è anch’essa accresciuta grazie alla plasticità della stessa tecnologia, che “rende” la partecipazione umana più o meno attiva a seconda della conoscenza dell’essere umano che vi si applica. La televisione per paradosso è il mezzo tecnologico in cui ancora l’interazione non ha raggiunto un grado di sviluppo molto alto; da poco si sente parlare della possibilità da parte del telespettatore di crearsi un proprio palinsesto televisivo, ma ancora queste applicazioni sono in fase sperimentale. Però tutto lascia pensare che le molte ricerche che si stanno evolvendo attorno alla tecnologia della televisione, porteranno il mezzo televisivo verso un salto tecnologico senza precedenti e daranno ad esso la possibilità di accogliere nella sua tecnologia le applicazioni dello sviluppo di altre tecnologie. Dall’alta definizione all’uso del digitale, al nascere di nuove materie prime, come le fibre ottiche, all’uso del satellite ecc… Forse avremo un unico mezzo con cui videotelefoneremo, creeremo spettacoli, vedremo film, faremo la spesa, scriveremo e tutte le altre cose che già ora è possibile fare, ma attraverso una frammentazione tecnologica; e le molte che si scopriranno in futuro, le faremo tutte attraverso un mezzo che racchiude in sé tutte le possibilità della tecnologia del comunicare e questo mezzo si “chiamava” televisore.
Intanto il mio televisore continua a formicolare silenzioso e non immagina proprio niente, non so neanche a chi telefonare per dirgli di fare qualcosa, per riportarlo alla vita; in questo stato è un mezzo caldo freddo, è l’espressione pura del mezzo stesso: la visione dell’elettricità. Ma se adesso tornasse l’immagine io non sarei qui a parlare con voi, come voi mi sorbirei le immagini e i suoni di questo apparecchio e dovrei sottostare alla “scarsa presenza” che mi suscita; perché questo mezzo così primitivo tecnologicamente cerca in tutti i modi di influenzarmi e di accattivarsi le simpatie del mio pensiero. Vi siete mai accorti che spesso gli spot pubblicitari hanno un volume più alto del programma in corso, e perché pensate che ciò avvenga? Se provaste ad entrare dentro la scatola a partecipare alla creazione dei programmi, vi accorgereste che tutto quello che vedete davanti al televisore è completamente artificiale, che la realtà che viene propugnata è finta, che tutto è fatto per creare un’illusione nel telespettatore.
Il 26 dicembre dell’anno appena trascorso ho assistito al teatro Parioli ad una puntata del Maurizio Costanzo Show. Siamo entrati in teatro assistiti e guidati dal personale, nel tardo pomeriggio, una volta che tutto il pubblico ha preso posto, delle assistenti di sala ci hanno distribuito dei foglietti di carta su cui chi “volesse doveva” scrivere una frase. Premetto che prima di entrare ho visto mutare le persone che facevano parte del mio gruppo: rifacimento del trucco, cambio d’abito, scollature prorompenti; penso le stesse cose fatte dalla maggior parte dell’altro pubblico in sala; tutto nella speranza di essere inquadrati dalla telecamera e essere visti dall’Italia intera. Ora mi dispiace per quelli che sono con me, dopo tutto l’impegno dimostrato per bene apparire, ma siamo capitati nelle ultime file, ed io mi sento un po’ più tranquillo. Una voce dall’alto ci comunica che sta per cominciare la registrazione, ma, sorpresa, aggiunge: La puntata che sta per iniziare andrà in onda il primo Gennaio. Pan Pa PAPA; inizia la musica, compaiono Bracardi e Costanzo, si assiste alla mitica scena del loro incontro; poi Costanzo si rivolge al pubblico in sala e dice: La puntata di questa sera, è la puntata del primo dell’anno […] chissà quanti di voi avranno fatto tardi ieri notte [… ] Sarà una puntata leggera […] La puntata ha inizio si presentano gli ospiti; c’è una vestita di veli che vuol fare “all’amore” con tutti, un’altra che fa la ragazza cubo dice di essere emozionata e ci dimostrerà che fa un lavoro come un altro e che è incompresa, uno dice di sapere tutto, ma non si sa bene cosa: vuole rimettere dritta la torre di Pisa, un altro se la prende con lui. Poi c’è Albertazzi e il comico che interpreta un carabiniere e, naturalmente anche l’immancabile Sirio, l’astrologa. La puntata che si svolge davanti ai miei occhi mi appare noiosa, ma non tutto quello che vedo accadere attorno ad essa, mi annoia. Osservo la gente in ansia nella speranza che la telecamera si “volti” verso loro, nell’attesa che Costanzo chieda qualcosa al pubblico, ed essere tra quei “fortunati” che risponderanno. Osservo tra il pubblico quegli anonimi battitori di mani, che lanciano gli applausi nei momenti giusti, guidando il pubblico senza che esso si accorga di niente. Io mi distraggo e osservo un’assistente di sala: è molto graziosa, e più la osservo, furtivamente, senza che lei se ne accorga, e più desidero conoscerla; passa vicino a dove sono seduto, le guardo la mano: porta la fede! Lo spettacolo ogni tanto si interrompe per alcuni secondi, sono quelli necessari alla regia, per ricordarsi il momento dove introdurre la pubblicità quando eseguiranno il montaggio della trasmissione. Sul televisore quando noi telespettatori vediamo che il programma riprende, dopo la pubblicità, abbiamo l’impressione di sorprendere gli ospiti del Maurizio Costanzo show, in attesa, come se fossero rimasti lì per tutto il tempo della durata degli spot, in realtà hanno smesso di parlare per alcuni secondi. Tutto è guidato con i giusti tempi, ritmi, e con estrema capacità dell’uso del mezzo televisivo da Maurizio Costanzo, che son sicuro se gli chiedessero il perché; risponderebbe semplicemente: “Perché al pubblico piace;” come dargli torto? Sono io lo scemo che si sta a preoccupare se una donna porta la fede. Costanzo chiede alla donna velata, quella che vuol fare “all’amore” con tutti, come ha passato l’ultimo dell’anno; lei candidamente come i suoi veli risponde che è andata a dormire alle prime ore dell’alba. Albertazzi racconta di come nella puntata dell’altra volta si sia tolto le scarpe. La puntata di cui parla è stata registrata un’ora prima di quella a cui sta partecipando ed è quella che andrà in onda questa sera del 26 Dicembre, di cui io sto vivendo il primo Gennaio. È il momento di Sirio, degli oroscopi; Costanzo chiede al pubblico in sala se c’è qualcuno… Risponde una signora, è venuta con il mio stesso gruppo; inventa il segno zodiacale, suo e del marito e la storia che racconta, ha capito come funziona il gioco e così ha l’attenzione che cercava, e la sua storia viene raccolta dal televisore, letta dal telespettatore e diventa vera. Costanzo legge i biglietti di carta che erano stati distribuiti al pubblico in sala e ritirati dalle belle assistenti. Premia frasi sceme, che lui enfatizza e diventano profonde, con degli alberi; si fa ancora un po’ di spettacolo, ma finalmente arriva la fine.
Nel viaggio di ritorno verso casa il nostro pullman incorre in un banco di nebbia e si teme per il peggio, ma che importanza aveva se morivamo, tempo cinque giorni e saremmo stati tutti vivi e vegeti al programma del Maurizio Costanzo show del primo Gennaio; ma ripreso dallo spavento penso che durante la trasmissione non ero stato mai inquadrato dalle telecamere e allora: dubito di esistere.
Quando sono tornato a casa, questo stesso televisore, che ora formicola silenzioso e che sono qui nella notte che trascorre ad osservare nella speranza che riesca a captare qualche immagine, mi ha dato un senso di profonda nausea.
Ma! io penso che in un’epoca come questa, in cui la tecnologia è già molto sviluppata, l’uomo sembra essere impreparato, non si accorge, di conseguire un atteggiamento ancora legato a quello ch’è stato il primo periodo in cui si è alfabetizzato. La televisione ancora così poco sviluppata, attecchisce, ha presa sulle persone, perché da quando ha aiutato l’uomo a comunicare, per esempio uniformando il linguaggio, (come è avvenuto in Italia, diffondendo l’italiano dove si parlava solo il dialetto) il modo di approvvigionamento culturale della società italiana sostanzialmente non è cambiato. Un decennio fa circa c’erano in giro scrittori che venivano chiamati futurologi: dediti alla futurologia, come Alvin Toffler, che scrisse un bel libro “La terza ondata”, o John Naisbitt con “Megatrends”, costoro ci comunicavano che il modo di apprendimento culturale si sarebbe modificato profondamente, da una fonte centrale, come l’istituzione della scuola, alla possibilità di una plurinformazione attraverso l’espandersi della multimedialità; dicevano che la scuola non sarebbe stata più l’unica possibilità valida di apprendimento, ma sarebbe diventa una tra le molte, e forse nemmeno più la migliore. All’epoca era valido fare l’esempio che andare in un’edicola, significava avere a disposizione più possibilità di conoscenza di quelle che poteva offrire la scuola, e per questo si chiedeva alla scuola di dare quelle conoscenze che permettessero di far si che le persone scoprissero i mezzi per usare ed usufruire delle informazioni di cui potevano disporre, fuori dall’istituzione. Le edicole adesso sono cosi progredite che vi si trova dalle enciclopedie in CD Rom a quelle a fascicolo, dalle video cassette ai cd musicali, dalle riviste letterarie a quelle di filosofia a quelle sulla marmellata; tra un po’ esisterà il “Digital Video Disk” che potrà contenere: diversi CD Rom, la registrazione di diversi film ed incisioni audio, tutto nel formato di un cd registrabile da ambo i lati. In un’edicola c’è una possibilità di conoscenza illimitata ed altamente sinergica, ma tuttora cosa ne è di questa potenzialità; la gente va in edicola per comprare il quotidiano o qualcosa di specifico che le interessa, perché ha visto la pubblicità in televisione; acquista e se ne va, non cerca, non osserva, non cambia abitudini, comprando una rivista nuova o diversa. Si comporta davanti ad un’edicola come se stesse davanti alla TV. In questi anni l’atteggiamento delle persone non è cambiato poi molto, rispetto agli inizi degli anni ottanta; forse a causa della lentezza con cui si accettano le modificazioni strutturali legate alle sicurezze economiche socioculturali. In questo stato di cose, trovo del tutto ovvi i risultati di quelle statistiche che dicono che una porzione elevata di soggetti ad alta scolarizzazione, legge uno o nessun libro l’anno, che va al cinema, al teatro segue tutto ciò che può rientrare nell’ambito dell’arte in una forma che diventa, causa la sua unilateralità: impropria: quella dell’evasione. La generalizzazione di tale atteggiamento sta causando un indebolimento e in alcuni casi fa sfiorare l’estinzione a quella produzione artistica che ha bisogno di un approccio meno superficiale; questi figli dell’apprendimento monoculturale, sono i più esposti a quelli che sono i criteri persuasivi dei mass media, trasformandosi, quasi nelle loro estensioni umane. Questa situazione del decadimento qualitativo dell’approccio all’arte, non è niente altro che il segnale di un decadimento più ampio delle percezioni dell’essere umano nei confronti di ciò che globalmente lo circonda. Ma tornando nello specifico dell’arte, c’è da dire che il bombardamento incondizionato dei mezzi di in-formazione ed in particolare della televisione verso una fruizione in realtà “povera” del “contenuto” dell’arte, sta gettando la stessa in una situazione di pericolo per la Sua sopravvivenza. Cerco di spiegarmi meglio, con un esempio: In televisione non si fa altro che ascoltare “uomini del teleschermo,” che ci invitano a leggere, ad andare di più al cinema, al teatro, nelle mostre; questi proclami sono diventati quasi un intercalare televisivo, a questo si accompagna frequentemente, la visione di qualcosa che non ci insegna: né a leggere, né ad andare al cinema, né… E comunque, anche con l’aggiunta della visione di queste cose, il messaggio televisivo rimane povero di “contenuti”; (ricordate McLuhan?) questo sta determinando, che la letteratura di qualità e di ricerca è relegata in un angolo astratto, a favore di una produzione che proviene direttamente dalle ruminazioni televisive; che al cinema reggano l’impatto economico con la sala solo le costose produzioni americane, creando un sistema che impedisce di fatto, la distribuzione di parte della produzione cinematografica, non prodotta negli Stati Uniti. Andare al teatro è diventato un mondano e acritico abbonamento. E le gallerie d’arte contemporanea, sono diventate dei musei, dove l’acquisto è un’operazione quasi sconosciuta. Pensiamo un attimo ad un lettore “qualitativamente” forte, costui ha una media di lettura di sette, otto libri al mese, la percentuale di tali lettori in Italia è molto bassa e di conseguenza parte delle opere che rientrano nel loro interesse, non raggiunge una tiratura così importante da incidere sul mercato. Questi lettori che potenzialmente possono essere recettori di quella letteratura di “qualità” che non trova risonanza nei circuiti di massa, sono emarginati insieme a tale letteratura, giacché nel processo in atto di propaganda indiscriminata del leggere si è ampliata spiccatamente la produzione di quella “letteratura” che si avvicina il più possibile ai non lettori, fino a degenerare nell’omologazione agli altri mass media. Tale produzione non fa dei non lettori dei lettori, ma li trasforma in oggetti di consumo che a loro volta consumano e determinano l’andamento del mercato dell’intera letteratura, giacché incidono sui fatturati. L’aumento di tali lettori sta abbassando il livello qualitativo dell’approccio con l’opera, fino ad escludere dal mercato l’espressione artistica dell’opera stessa, e ciò finirà per creare una saturazione dello stesso stimolo alla lettura, uno sviluppo entropico che ci porterà verso una dissolvenza dell’“interessarsi”. Più si legge con questo sistema e meno si produce letteratura d’arte. E non possiamo esimere dalle responsabilità di tale situazione, anche parte di quella nicchia, di lettori forti e in essi di produttori di letteratura e dintorni, che non hanno avuto il coraggio di aprire nuove strade per far si che la letteratura si rinnovasse in sé; sclerotizzati, anch’essi si sono adeguati alla tecnologia obsoleta del televisore, anzi per paradosso tale sviluppo è stato l’unico modo per poi rimuovere queste cariatidi. Questo esempio è valido per ogni altra situazione contemporanea nel campo dell’arte. Perciò datemi retta, non è vero che dovete leggere per forza, andare al cinema al teatro, alle mostre; leggete di meno vedete meno cinema, teatro, riacquistiamo la nostra perspicacia per conoscere quelle opere che veramente danno dignità alla nostra umanità, liberiamoci dai pregiudizi indottici e avviciniamoci al gusto di scoprire, finiamola di assorbire tutto passivamente. È in questo atteggiamento che c’è l’“espressione” che dobbiamo applicare alla tecnologia, quell’interscambio, “interrelazione” attiva che ci rende più presenti a noi stessi. Solo così si può riequilibrare il mondo composito dell’espressione artistica e ridurre l’invisibilità di quelle operazioni creative che richiedono un’attenzione diversa dall’usuale.
Io non so in questa notte, quanto sia presente a me stesso, sto parlando seguendo i fili di un discorso libero ed anche immaginativo, in compagnia di un mezzo che non ne vuol sapere di parlare, un televisore muto, tecnologia che ci cambierà, perché la crescita tecnologica non si arresterà, ed anzi l’accelerazione che sta avvenendo di tale sviluppo sta generando una nuova formazione di quelli che sono i rapporti economici all’interno delle nazioni e nei rapporti tra nazioni e nazioni. Si sta determinando l'allontanamento tra le classi più agiate economicamente e quelle meno agiate, questa situazione potrebbe evolversi e degenerare nell’impossibilità di un eventuale riavvicinamento, fino a determinare la rottura di ogni ordine sociale, con le relative inauspicabili conseguenze. L’evoluzione tecnologica non può essere governata dalle gerarchie economiche, ma dall’appropriarsi di un nuovo “atteggiamento” dell’essere umano nei confronti della conoscenza. Noi stiamo assistendo al tramonto dell’uomo “istruito” e auguriamoci che ciò sia indolore, per la nuova costituzione di quel che possiamo definire l’uomo “colto”. Caratteristica dell’uomo “istruito” è quella di riprodurre ciò che ha appreso attraverso i canali di istruzione, un esempio: Un uomo scolarizzato, percorre l’intero tragitto informativo nell’ambito della scuola, al termine di tale tragitto entra nel mondo lavorativo e non fa altro che applicare e riprodurre ciò che ha appreso attraverso la scuola, questo senza particolari modificazioni fino al termine della sua esperienza lavorativa. Ciò è quello che è accaduto nella prima era e nell’immediato conseguente sviluppo del periodo dell’alfabetizzazione, attraverso, la peculiarità del canale scolastico. L’uomo “colto” invece è quello che interagisce continuamente con la matrice informativa in tutta la sua espressione multimediale generando una conoscenza dinamica, continuamente attiva e rinnovabile e per conseguenza trasformativa dello stesso mezzo informativo, è l’uomo che può gestire ed adattarsi all’evoluzione tecnologica riuscendo a generare anche un’armonizzazione della struttura sociale. Per paradosso in quest’epoca in cui sta avvenendo tale trasformazione, sovente l’uomo “colto” è inibito dalla forma mentale dell’uomo “istruito” che non riesce a liberarsi dell’apparato su cui ha costituito le proprie sicurezze esistenziali e quindi trasformarsi ed evolversi.
Di fronte agli stravolgimenti che tale stato può produrre trovo patetici quegli appelli che chiedono a chi fa televisione, ai persuasori, di non essere dei cattivi maestri, se non vogliamo più dei cattivi maestri, impariamo ad essere maestri di noi stessi, e per far questo, forse dobbiamo augurarci che il televisore si modifichi rapidamente dall’attuale condizione, ancora primitiva, in una più evoluta; che si trasformi e ci trasformi e chissà, così forse avremo le capacità di non ascoltare più i cattivi maestri. Forse in questa prospettiva vi è troppa fiducia nelle possibilità della tecnologia, in realtà c’è la speranza che le possibilità dell’essere umano mantengano inalterate le facoltà di “adattamento” che gli hanno permesso di giungere fin qui.
Davanti ad un televisore pieno di puntini che non ne vuol sapere di funzionare. Mi alzo e vado a vedere se il cavo dell’antenna è correttamente inserito; è tutto a posto. Vediamo per quanto continuerai così. Il fatto di essere qui ad aspettare, davanti ad un televisore non fa di me certo, il paradigma di un uomo colto, ma comunque ho speranza nelle future generazioni; un ragazzino di dieci anni sa far funzionare un computer, appena cinquant’anni fa un uomo si limitava ad accendere il trasformatore del suo televisore a valvole e cambiare canale; la tecnologia del futuro sarà sempre più facile da usare e un bambino sarà in grado di far funzionare macchine tecnologiche con potenzialità molto maggiori di un computer attuale, ma quello che gli permetterà di sviluppare, le vere capacità per poter sfruttare le possibilità della tecnologia, non potrà essere niente altro che la crescita delle sue capacità di capire le informazioni e così “interrelazionare” pragmaticamente con la tecnologia; forse non sarà un bambino ma certamente ciò sarà possibile ad un uomo adulto; per questo, anche se ancora si sente parlare di scuole che non finiscono mai, l’uomo “colto” riuscirà a conquistarsi il suo posto fino a trasformare anche l’intera struttura della memoria, perché in una realtà che produce e produrrà informazione in una dimensione senza più limiti, non sarà più possibile per il cervello umano contenere la nozione, ma dovrà appropriarsi, (pensando al vissuto di Jung) ed incarnare l’esperienza della nozione stessa, producendola nella comunicazione, esprimendone il senso.
Pensare ora ad un’evoluzione lontana, non è facile, forse per capire le strutture future, è necessario fare un balzo immaginativo in avanti, non una volta, ma due volte. Si sente parlare di globalizzazione planetaria, ma la tecnologia sembra già aver superato il nostro concetto di globalizzazione; anzi in realtà già essa si è verificata, anche se in modo distorto. I popoli sparsi sul pianeta già percepiscono la reciprocità del loro comportamento che influisce sulle trasformazioni, socio culturali e ambientali dell’intero pianeta. Per questo è tornata forte la richiesta, dei vari popoli della terra di riappropriarsi di una nuova identificazione, nella loro dimensione locale; questo per approdare ad un nuovo concetto di globalità, che si realizza attraverso l’attività sinergica dello scambio del costituente informazionale delle varie identità. Immaginare la gestione di tale “stato”, non è semplice; si può ipotizzare che esso sia affidato, allo stesso sviluppo del sistema, che generandosi crei una forma endogena di “autocontrollo” che si forma per mezzo della totale libertà della circolazione delle informazioni e contro ogni occultamento. Solo così, forse, e dico forse, attraverso questa prospettiva che allo stato attuale è utopica, si potranno creare i giusti contrappesi, per evitare le possibili degenerazione che ogni sistema ha in sé, verso condizioni di non adattabilità dell’essere umano, scongiurandone ogni eventualità in un’epoca in cui l’essere umano avrà sviluppato forze senza precedenti nel determinare l’esistenza del pianeta. Se riflettiamo un po’ e immaginiamo, possiamo accorgerci che questa elaborazione è già nel presente sviluppo tecnologico. Il pericolo attuale nella gestione della tecnologia è relativo al processo economico, in particolare allo stato del capitalismo; esso in quest’epoca di trasformazione è troppo vicino ai principi economici e concettuali dell’era industriale, non tiene coerentemente conto dell’evoluzione che c’è stata. L’oggetto stesso del denaro, incomincia ad apparire obsoleto e come preannunziato, a tempo dalla futurologia, è già in parte sostituito dalla moneta elettronica; moneta elettronica che in sé già contiene il principio dello scambio attraverso l’informazione. Forse nella “prossima” epoca di transizione, l’oggetto denaro sarà sostituito dalla pura informazione. In questo modo il mezzo che medierà l’azione umana, sarà più vicina ad essa e così l’uomo si potrà riappropriare della sua espressione di eterogeneità.
C’è una lacrima nel profondo che caratterizza il rapporto dell’uomo con il televisore, un sintomo del “disagio” psichico. La televisione che si rivolge ad ognuno di noi, astrattamente, per costui con tale disagio, perde la valenza astratta e dallo “scardinamento” del suo inconscio i messaggi che provengono dal televisore entrano nel vortice della sua iperpercezione; le parole che provengono dal televisore e le immagini entrano in colloquio con i concetti del suo profondo parlare, dandone un’esistenza percettiva, particolare. I suoi sensi, i suoi pensieri interagiscono osmoticamente con quelli del televisore che non è più qualcosa di astratto, ma una intera folla di persone che parla solo con lui, che risponde ai suoi messaggi ed esegue i suoi ordini. In questo sconvolgimento percettivo, nessuna tecnologia può capire le potenzialità che l’uomo ha messo in atto; nell’uomo si è rotto ogni rapporto spazio temporale, e gli abissi più profondi e gli spazi più limpidi, interagiscono senza più barriere, l’uomo cerca di integrare nella coscienza la sua intera eternità, fino a sconvolgere le stesse leggi fisiche che lo circondano, la follia come artificio delle facoltà evolutive dell’individuo; il superamento di tutto ciò ch’è segno con il puro elemento simbolico; nell’incomunicabilità di un livello percettivo altro da quello della cosiddetta “normalità”. Provo a chiarirvi questo concetto, parlandovi del maestro che ha cercato di comunicare tale dimensione psichica: Jung. Tutto ciò che Jung ha scritto, è stato in parte il tentativo di condividere la sua esperienza con gli altri, ma l’unica possibilità che ha avuto è stata quella di comunicare attraverso i “segni”. Nella sua esperienza è come se lui avesse scoperto e avuto esperienza dell’automobile della nostra era, in un’epoca in cui non esisteva neanche la carrozza. Ora con un po’ di fantasia immaginiamo che l’automobile sia il simbolo e che i segni, le parole usate da Jung per spiegare ai suoi contemporanei, non solo come è fatta un’automobile, (il simbolo), ma soprattutto qual è l’esperienza di guidare un’automobile. Se Jung avesse usato i simboli: automobile o motore a scoppio, essi sarebbero stati incomprensibili, perciò Jung avrebbe detto, con i segni, che esiste una cosa che funziona come un cavallo e fatta di ferro. Ora facendo l’operazione che ho testé descritto, immaginiamo, arbitrariamente, che l’automobile di cui ho parlato non sia altro che un Archetipo: puro simbolo, un’immagine “innata” che nasce dal nostro inconscio collettivo e che pertanto il segno non può spiegare definitivamente; il segno è insufficiente alla spiegazione dell’esperienza psichica dell’Archetipo, ma da tale confronto, il segno può agire verso l’espressione del suo limite. Avvicinarsi al simbolo: tentativo possibile all’arte. (Non “amplifico” ulteriormente questo argomento che ci porterebbe verso spazi non facilmente esplicabili; qui stiamo facendo solo quattro chiacchiere tra amici.) In questa profonda attività generatrice della psiche umana il televisore si è inserito in quel dialogo della mente, esprimendo il sintomo dell’energia dell’inconscio collettivo che cerca un interlocutore, per dialogare con una dimensione dell’inconscio meno profonda o “individuale”, trovando l’espressione di se stesso attraverso un medium, che si trasforma quasi in una percezione “medianica;” una tecnologia così primitiva come il televisore che interagisce insieme alle altre, attraverso l’ipersensorialità dell’individuo. È da chiedersi quale sia il confine e dove collocare questa già avvenuta fusione tra la psiche e la tecnologia, come si svilupperà l’“interrelazione” tra queste due dimensioni, quando la tecnologia avrà sviluppato le possibilità e si sarà evoluta pienamente come estensione delle facoltà della mente, accadrà che si svilupperà a tal punto da essere ancora estensione di se stessa? Siamo prossimi alla fusione fisica con la tecnologia, nella possibilità che parti di esse, sempre più sofisticate, si impianteranno nei nostri corpi.
Cari amici nella mia stanza è entrata “da fuori” l’alba, illuminando la parete con i mattoni di libri; guardo la mia televisione ed è sempre un agitarsi di puntini. Penso allo sciamano della foresta e all’uomo che andrà su Marte, e capisco che l’uno ha bisogno dell’altro. Io ho un gran bisogno di passeggiare e di sentire il sole, di sdraiarmi e di abbracciare qualcuna, che non sia qualcosa. Mi alzo e spengo la televisione, non ho più voglia di aspettare. Ora andrò a dormire: buongiorno! Un’ultima cosa se credete ancora nella comunicazione scritta, allora… 63037 Porto D’Ascoli Via Svolta, 19 - ITALIA.
Ho seguito la notte, ho seguito il giorno; il tempo e lo spazio. Alzato una mano e toccato un gesto. Guardato dove c’era, non trovando qualcosa e ho scoperto quel che già sapevo. Ho aspettato la notte e sono tornato a dormire.
12 Luglio 1996
È perseguibile chiunque faccia un uso improprio del presente testo.
Da: Anonymous <nobody@REPLAY.COM>
A: bernardo@joyce.it
Oggetto: Non mi hai vista!!!
Data: martedì 16 giugno 2002 15.46
Caro Bernardo,
Ora mi stai scrivendo con una voglia di sapere e di esprimere troppo forte e tutto questo rischia di rompere il mio equilibrio mentale e psico-fisico e ciò non posso assolutamente permetterlo.
Vorrei darti di più e soprattutto farti sapere che ci sono, che esisto e potrei essere tua…ma ora la mia vita sta andando in una direzione che vorrei fermare in tempo e non so. A volte la mia angoscia non mi permette di essere farfalla ma si trasforma in sabbia, acqua, vento e si lascia plasmare senza che niente o nessuno possa impedirlo.
Avevo notato che eri miope……mi sei passato molto vicino, ma non mi hai vista! Forse eri troppo preso dai tuoi mille pensieri, dalle tue innumerevoli sensazioni, forse ti soffermavi sulla superficialità degli sguardi delle altre bagnanti e non sei stato capace di oltrepassare la soglia di piacere ed essere osservato per trovare tu il piacere nel cercarmi.
Non importa, in fondo ti ho sempre detto che è ancora troppo presto, ti sento dentro di me, ma non sei ancora pronto per avermi.
Ora devo scappare, scusa, ma non posso più scrivere per il momento……per un po’ non sarò più sola!!!
Sasia.
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mailto:Peraverde@usa.net
Da: bernardo@joyce.it
A: Peraverde@usa.net
Oggetto: prendimi a schiaffi
Data: martedì 16 giugno 2002 19.51
Cara Sasia,
Anche se è presto ho sonno, solo per questo non mi dilungherò troppo. Quando mi vedi se non ti vedo puoi prendermi a schiaffi.
Ma sei bellissima! Mi preoccupo, sono diventato così cieco e distratto.
Un bacione Bernardo
bernardo@joyce.it
Da: Anonymous <nobody@REPLAY.COM>
A: bernardo@joyce.it
Oggetto: Solo noi…
Data: mercoledì 17 giugno 2002 16.19
Caro Bernardo,
Sono qui da sola avvolta dai miei pensieri e dai miei mille sogni…ti penso, ti penso molto intensamente. Dove sei ora? Cosa stai facendo? Stai passeggiando? Stai scrivendo? Stai leggendo o stai pensando a me anche tu?
Non mandarmi documenti lunghi, non ho il tempo e la tranquillità per poterli stampare e leggere, è già tanto avere la concessione di un e-mail con il quale posso scriverti…mi leggerai i tuoi scritti a voce un giorno…non molto lontano spero!
Oggi mi sento molto malinconica ed in un certo senso assente, e mentre ti sto scrivendo immagino di baciarti e accarezzarti, oggi non mi va di sognare o essere metafisica, la mia sensualità sta esplodendo dentro me e mentre ti penso ho voglia di toccarmi …
Sasia mailto:Peraverde@usa.net
Da: bernardo@joyce.it
A: Peraverde@usa.net
Oggetto: solo noi
Data: mercoledì 17 giugno 2002 20.29
Cara Sasia,
io ho una sensualità molto sensibile e mentre ti sto scrivendo, non so bene dove farlo, perché dopo che ho letto quello che mi hai scritto mi sono eccitato rapidamente. Io amo tantissimo fare all’amore, toccare baciare odorare, sentire il sapore più forte e ho tanta voglia di farlo, amo quando una donna ama la mia più forte intimità, perché mi sento veramente suo; Dio la bellezza della carezza e il piacere che ti accoglie…
Sembra strano per la mia natura, ma riesco a controllarmi, solo perché aspetto una Donna, che me lo chieda nel modo più semplice, come hai fatto tu… ora vorrei sentire il tuo sapore; lo cerco solo nelle donne che voglio.
Oggi volevo portare avanti alcuni progetti musicali, ma non l’ho fatto.
Ora vado…
un bacione
Bernardo
bernardo@joyce.it
Da: bernardo@joyce.it
A: Peraverde@usa.net
Oggetto: ti abbraccio
Data: giovedì 18 giugno 2002 20.28
Cara Sasia,
oggi sono andato a registrare il suono del mare, le condizioni del tempo erano adatte e la registrazione è venuta piuttosto bene; per ora questa mezz’ora la inciderò su cd per ascoltarla qui in casa, poi non so se cercherò di elaborarne il suono.
Ti abbraccio forte, ne ho voglia.
Un bacione
bernardo@joyce.it
Da: bernardo@joyce.it
A: Peraverde@usa.net
Oggetto: ti abbraccio
Data: venerdì 19 giugno 2002 20.16
Cara Sasia,
un bacione grande, questa mattina mi sono svegliato con la sensazione di te e se c’eri ti avrei baciata tutta, dalla testa hai piedi.
Ti penso in quel che sento, ma cerco di stare calmo.
Oggi pomeriggio sono andato a fare delle foto. Ora mi vengono in mente delle domande da farti ma non vorrei sbagliare, chiedendoti cose che non ti riguardano. Saprò da te spero presto.
Ti penso e ti mando un bacio grande.
Bernardo
bernardo@joyce.it
Da: bernardo@joyce.it
A: Peraverde@usa.net
Oggetto: ciao!
Data: venerdì 19 giugno 2002 20.21
Cara Sasia,
lo so che hai i piedi e te li bacerei se potessi. scusa per l’acca in più che ho messo nel messaggio che ti ho appena mandato.
un bacione grande.
Bernardo
bernardo@joyce.it
Da: bernardo@joyce.it
A: Peraverde@usa.net
Oggetto: come va?
Data: sabato 20 giugno 2002 19.49
Cara Sasia,
stamattina mi è arrivato il libro di Deane: “le parole della notte”; ti ricordi te ne ho parlato nella mia prima lettera.
In questo momento sono un pochino agitato. Come va e come stai? Pensami. Stasera dopo la terza partita di calcio della giornata andrò al cinema, vedrò Artemisia.
Un bacione grande.
Bernardo
bernardo@joyce.it
Da: bernardo@joyce.it
A: Peraverde@usa.net
Oggetto: se tu esistessi
Data: martedì 7 luglio 2002 12.48
Se tu esistessi ora parleresti con me al telefono; io potrei essere un tuo amico o qualcosa d’altro, forse ti manderei a quel paese o avrei voglia di abbracciarti. potrei chiederti che cosa pensi e tu avresti il coraggio di dirmelo. Forse tu ora sarai persa nelle tue elaborate contraddizioni, o in una semplice confusione che hai dimenticato. Chi sei? Dovresti chiedertelo e onestamente dirlo. Io mi chiedo se tu sia una stupida, un gioco, una persona qualsiasi, qualche pazzo di psicologo scemo e somaro o una meravigliosa donna che preferisce far finta che quel che sente non esiste e così riuscire ad non esistere lei stessa, ed immaginarsi in qualcosa che non ha in coraggio di far vivere. In questi giorni non ti ho pensato più. Ieri poi ho iniziato ad indagare sulla tua casella postale, mi sento legittimato a farlo le regole del comportamento penso siano saltate, giacché tu hai abusato della logica del reale, ma non penso che poi approfondirò se tu hai deciso di non esistere vuol dire che anche tu fai parte di quella numerosissima schiera di donne, che hanno venduto se stesse in cambio di qualche compromesso sociale, culturale, di senso, incapaci di far vivere con regole proprie le proprie realizzazioni inconsce, incapaci anche del più semplice gesto per capire cosa c’è da dare.
Se tu esistessi io ti avrei scoperta perché tu avresti così voglia di vivere da non accettare di far finta. Forse tu credi di essere giunta a delle conclusioni, ma hai dimenticato una cosa quella realtà che va oltre le ipotesi, quella realtà che prima va vissuta e poi analizzata; l’analisi delle ipotesi è sempre l’illusione sulle illusioni, regole che non ci appartengono. Che avrebbe detto Pasolini, ciò forse non c’entra niente, forse.
Se tu esistessi io saprei il tuo nome, tu non te ne vergogneresti, perché a me piacerebbe. Come ti chiami se ti chiami Sasia: Sasia V… Sasia I… Sasia C… Se tu esisti sei sicuramente qualcuna di cui so l’esistenza ma non conosco.
Se tu esistessi io non ti dimenticherei.
Se tu esistessi.
bernardo@joyce.it
Da: Anonymous <nobody@replay.com>
A: bernardo@joyce.it
Oggetto:
Data: venerdì 31 luglio 2002 12.45
Caro Bernardo,
sono tornata da poco, colpita a tradimento da una brutta esperienza, e ho letto il tuo messaggio or ora.
Io esisto, ma non esisto per te. So chi sei e come sei, parli parli parli, scrivi, parolone, frasi intellettuali e da pseudo psicologo, santone, profondo, pensi di sapere tutto, presuntuoso fino al punto da metterti al di sopra della mia esistenza fisica, psichica, psicologica. Ma come ti permetti?
Mi chiamo come gli altri mi voglio chiamare e sono chi sono.
Ho sbagliato a fidarmi di te ed esprimere i miei pensieri. Non vali una parola di quello che scrivi. Fortunatamente questa parentesi della mia vita si sta chiudendo e fortunatamente non mi sono spinta oltre con te.
Addio per sempre,
Sasia V… I… C…
Da: bernardo@joyce.it
A: Peraverde@usa.net
Oggetto: auguri
Data: venerdì 31 luglio 2002 21.23
Cara Sasia,
sinceramente non pensavo più di ricevere tuoi messaggi, anche un genio come me può sbagliare. Comunque voglio dirti che tu te la canti e te la racconti da sola; continui a virtualizzarti e vuoi continuare… che anche io sia virtuale. Di una cosa sono sicuro però che tu non hai capito nulla di me e non mi conosci affatto, per questo forse sei tu la presuntuosa, riflettici bene. Io ho parlato con un pensiero virtuale, il tuo. Chissà se poi sei mai riuscita a capire questa dimensione del nostro rapporto, credo proprio di no. Mi chiedo se tu poi conosci te stessa, me lo chiedo ma non mi do la risposta, sarebbe assurdo in questo contesto per me esprimere una valutazione che vada oltre la conoscenza di una voce che vive attraverso un computer, ed è appunto questa voce che ho valutato e “realizzato”, ma sinceramente vorrei darti un consiglio che “naturalmente” sei libera anche di non seguire: chiedi a te stessa chi e che cosa sei per te e per gli altri. E quando dai dello pseudo a qualcuno abbi il coraggio e la capacità di confrontarti lealmente e con onesta sia morale che intellettuale.
Ti faccio tanti auguri e se ti va divertiti pure alla faccia mia.
Tutti dobbiamo crescere nella vita e se te lo fossi scordata anche tu.
Da: Anonymous <nobody@replay.com>
A: bernardo@joyce.it
Oggetto:
Data: giovedì 6 agosto 2002 22.56
Caro Bernardo,
Io esisto, ma non esisto per te. So chi sei e come sei, parli parli parli, scrivi, parolone, frasi intellettuali e da pseudo psicologo, santone, profondo, pensi di sapere tutto, presuntuoso fino al punto da metterti al di sopra della mia esistenza fisica, psichica, psicologica. Ma come ti permetti?
Mi chiamo come gli altri mi voglio chiamare e sono chi sono.
Ho sbagliato a fidarmi di te ed esprimere i miei pensieri. Non vali una parola di quello che scrivi. Fortunatamente questa parentesi della mia vita si sta chiudendo e fortunatamente non mi sono spinta oltre con te.
Addio per sempre,
Sasia V… I… C…
Da: bernardo@joyce.it
A: Anonymous <nobody@replay.com>
Oggetto: R
Data: venerdì 7 agosto 2002 1952
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> Da: Anonymous <nobody@replay.com>
> A: bernardo@joyce.it
> Oggetto:
> Data: giovedì 6 agosto 22.56
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> Caro Bernardo,
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> Io esisto, ma non esisto per te. So chi sei e come sei, parli parli parli, scrivi, parolone, frasi intellettuali e da pseudo psicologo, santone, profondo, pensi di sapere tutto, presuntuoso fino al punto da metterti al di sopra della mia esistenza fisica, psichica, psicologica. Ma come ti permetti?
> Mi chiamo come gli altri mi voglio chiamare e sono chi sono.
> Ho sbagliato a fidarmi di te ed esprimere i miei pensieri. Non vali una parola di quello che scrivi. Fortunatamente questa parentesi della mia vita si sta chiudendo e fortunatamente non mi sono spinta oltre con te.
>
> Addio per sempre,
>
> Sasia V… I… C…
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Le tue telefonate anonime sono state in fondo piacevoli. Sono sicuro che tu sia quando vuoi una persona simpatica e piacevole, fortunato chi ti conosce!? Io non ho avuto questa fortuna, ma mi sembra che tu ne sia contenta. Quindi lascia che ti saluti con una mia presuntuosa affermazione dicendoti che sì io forse parlo ma tu non hai nessuna voglia di ascoltarmi né di capirmi ed io non posso farci nulla. Se ci tieni tanto che io ti dia ragione te la do; a me non interessa essere né meglio né peggio di nessuno, non è stato mai questo il mio intendo della vita; con la mia bella presunzione ti dico che a me interessa essere unico, semplicemente essendo me stesso. Sono come sono e che ognuno mi veda come vuole vedermi. Io da solo mi sono costruito un modo che alcune volte può essere faticoso da sostenere, spesso mi capita di essere giudicato in modo pressappochista e superficiale, ciò non mi fa piacere tutt’altro, ma ciò è parte di certe scelte che ho fatto nella vita e di certe esperienze che ho maturato in me; ma grazie ad esse ho vissuto momenti di unione e verità con persone che hanno saputo capirmi e apprezzarmi e che resteranno in me per sempre. La vita ha degli strani risvolti che certe volte non sappiamo comprendere e l’occaso che vi si manifesta supera la reale volontà di capirsi. Ora devo andare e poi il fatto che io scriva e parli finisce con l’apparire altro dalla realtà che io vi metto, per questo c’è chi preferisce il virtuale.
Ti rinnovo gli auguri per la tua vita, spero tu sia felice. E ti auguro di riuscire a concederti un po’ di vera e sana debolezza.
“Tutti dobbiamo crescere, anche tu.”
Bernardo.
Il messaggio mi diceva: "dove sei stato tutto questo tempo che non ci siamo visti, né sentiti?" Era qualcuno che mi aveva inviato un messaggio forse sbagliando e-mail — continuava: "Ti invio il dattiloscritto di cui ti avevo parlato nell'ultima e-mail che ti ho spedito, leggilo, poi fammi sapere se lo puoi pubblicare, ti saluto — n.c. Paolo." Null'altro, neanche il suo indirizzo compariva nel messaggio. Dovevo aprire quel messaggio o gettarlo, affrontare quello che c'era scritto per poi decidere o ignorare l'eventuale decisione; per quale editore mi aveva scambiato, questa persona che ha si confuso il nome, ma non la possibilità di essere pubblicato.
Un po' più in là ci sono alcune persone che stanno guardando un canale televisivo, tematico, trovato in internet, forse un film, non so, ma i loro commenti mi hanno distratto, mi sono voltato a guardarli.
Torno ad osservare il messaggio che ho ricevuto e decido di scaricare il file sul disco. Chiudo il collegamento internet, vado al documento e lo apro.
[Non è molto che mi sono fatto uno scrittore che ha deciso di pubblicare alcuni titoli come editore. La mia casa editrice incide le parole dei libri su cd, che poi ognuno se vuole può leggere o stampare e rilegare come gli pare; siano essi di mille pagine o di una il prezzo è lo stesso, solo parole da leggere, una semplice incisione multimediale.]
È iniziato come attraversare un punto indefinito; come se ci si immaginava; ma ritrovarsi in un'ipotesi che non si conosceva. Non conoscevo quel che già c'era in me, la possibilità che avevo di percorrere quella strada per tornare quel che ero prima che tutto questo avesse inizio, forse per scoprire quel che ero sempre stato, ma che alcuni episodi della vita avevano cercato di farmi perdere; ed ora dovevo forse attraversare questa strada che mi si mostrava davanti, conoscere storie e situazioni diverse da quel che avevo immaginato per comprendere veramente che cosa avessi scelto, che cosa stessi pensando.
Non vi avevo mai pensato, prima di quella volta. Le prostitute mi guardavano e speravano che mi fermarsi; avevo tanta voglia di fare all’amore, di sentire il silenzio e poi la luce scaldarmi il corpo, ma per un incontro con una donna che mi aveva rubato l’amore non riuscivo più a capire quel che sentivo, a trovare il coraggio di credere ancora. Quel giorno passai per caso lungo quella strada frequentata dalle prostituta, quelle che colpirono di più la mia immaginazione furono quelle di colore, ve ne era una in particolare che vedevo bellissima. Tornai in quella strada nei giorni successivi, dentro di me incominciava a balenare la possibilità; incominciava a crescere dentro di me il desiderio d’incontrarmi con una di queste donne, mi immaginavo come sarebbe stato, forse come ne avevo sempre parlato con gli altri, considerandola per me come un ipotesi impossibile. Ed ora ero lì su quel confine che pensavo insuperabile, ed era proprio cosi che mi sentivo come se stessi aprendo una porta verso un tempo e uno spazio che non conoscevo: donne con anime da vagabonde, dove c’ero anche io.
Il terzo giorno che vi tornai passai con l’auto più volte davanti ai loro occhi, finché incominciarono a chiamarmi, a farmi cenni con le braccia sempre più espliciti - di fermarmi, qualcuna forse mi lancio anche qualche insulto, non mi decidevo ad aprire il finestrino e chiedere… Avevo adocchiato quella più carina, ma era già più di una volta che passavo e non si decideva a tornare, trattenuta dal suo cliente. Era cresciuta dentro me l’ansia, il cuore mi batteva, ma mi stavo convincendo che lo avrei fatto, mi sarei fermato e avrei fatto all’amore con una di loro. (In seguito capii che quelle erano le prime donne dell’Africa, quella strada incominciava ad essere frequentata dalle prostitute di tutto il mondo.) Ero agitato come non lo ero mai stato prima; quando avevo fatto all’amore la prima volta, non mi sentivo così, ma piacevolmente eccitato e pronto per qualcosa di naturale, era sempre stato questo per me fare l’amore, e soltanto la cultura dominante del possesso in cui la mia epoca era finita, mi stava trasformando. Dopo l’ennesimo richiamo, con il cuore in gola decisi di fermarmi, e non dalla più carina, tutt’altro. Gli accennai qualcosa, lei passo avanti al mio discorso, mi disse quand’era, salì in macchina e mi indico la strada dove andare. Non fu granché come incontro, non riuscii a penetrarla, lei non era disposta, le chiedevo di più senza ben sapere come mi dovevo comportare, lei mi faceva mille difficoltà e alla fine l’ebbe vinta ed io rinunciai. Il mio primo incontro con una prostituta era stato come lo avevo sempre immaginato: freddo e reale. Quando tornai sulla strada per accompagnarla sentii quel timore di essere visto da qualcuno che poteva conoscermi; anche se era da poco che attraversavo quella strada avevo notato i clienti che si affrettavano a far scendere la prostituta e quasi fuggire. Io anche se pensai questo, sin da quella prima volta mi comportai in modo naturale e salutai questa persona a me sconosciuta con il garbo e il rispetto che l’umanità ci fa sentire dentro. Non ho mai pensato per il tempo che ho attraversato questa strada che io fossi tanto diverso da poter giudicare, giudicare la donna che in quel momento stava insieme a me. Anche se non ero ancora consapevole né di me né delle storie di quelle donne che incontravo, né della netta differenza tra una puttana e una prostituta, c’era in me il rispetto che ogni essere umano deve avere nei riguardi della vita, nella possibilità che anche quando essa è attraversata da situazioni non consone alla propria anima, ciò può servire per tornare ad essere se stessi. Certo avrei conosciuto il falso bigottismo di persone, di persone pronte a condannarti con la loro infernale coscienza, magari alludendo, senza avere nessuna parvenza di lealtà morale e chiedere esplicitamente del fatto, per non accorgersi della loro ipocrisia e meschinità nel trovarti autore delle proprie azioni.
Immediatamente dopo quel primo incontro, pensai che non sarei tornato più ad attraversare quella strada: lo avrei fatto ancora, forse in quel momento era l’unicA cosa che potevo fare.
Passò del tempo, ma la volta successiva la mia fisicità fu concorde con quella della prostituta, la penetrai e la sentii bagnata, eccitata.
In quella strada erano approdati tanti pezzi di un’Africa lontana, pensieri e colori di una cultura che nonostante quella situazione ogni tanto affiorava attraverso gli sguardi e la parole di queste donne che incontravo. Chiedevo di dove fossero, quanti anni avessero, se avevano lasciato la famiglia, se avevano sorelle e fratelli, per quanto fosse possibile nel breve tempo e nelle circostanze del posto in cui avvenivano questi incontri, tranne qualche rara eccezione, superato l’attimo di diffidenza: parlavano, si esprimevano attraverso i loro sorrisi e parole.
L’allegria delle nigeriane, il colore della Somalia, la semplice riflessione delle ragazze del Ghana, lo strano parlare delle europeizzate, come “Iarna”. Riscontravo delle differenze tra quelle che erano venute direttamente dall’Africa, per finire subito sulla strada, e quelle che avevano invece passato un po’ di tempo” nella cultura occidentale prima di diventare prostitute. Le prime ancora vivevano nell’illusione di realizzare i propri sogni anche facendo quella vita, sognavano d’incontrare qualcuno che le amasse, alcune di loro mi hanno detto che speravano in una famiglia, con dei bambini. Queste vivevano sulla strada semplicemente credendo ai sogni che gli sfruttatori si inventavano per loro, dicendogli che se per un po’ avrebbero fatto quella vita dopo sarebbero state libere di fare quello che volevano. Le altre quelle che già da un po’ vivevano nel mondo occidentale, della loro prostituzione, erano ciniche e calcolatrici, tutto in funzione del denaro, tutto in funzione di ciò che con il denaro potevano ottenere; i sogni di queste ultime si fermavano al possesso di oggetti dispendiosi e che in fin dei conti mostrassero il loro valore economico, mostrare ciò che faceva sembrare “ricchi”.
Era un mondo che mi si mostrava, che conoscevo conoscendomi con tutti i sui pericolosi rischi. Io avevo a disposizione la mia umanità, il mio bisogno d’amore, alcol etilico a novanta gradi, per brucianti docce ai miei organi genitali e ad ogni parte del corpo che avesse avuto dei contatti, ed un efficace sapone germicida.
In quel mondo variegato, dove le donne si pensano strane, ma non lo sono; dove quell’ottica del loro o non loro progetto di prostituzione le fa immaginare molto diverse da tutte quelle altre donne cosi dette perbene e normali, ché io sono giunto alla conclusione che le puttane sono peggiori delle prostitute. Con la prostituta lo scambio merceologico è netto e chiaro – ti dice: “Io costo un prezzo esatto, quantificabile in denaro e per questi soldi che tu mi dai io faccio del sesso con te senza nessuna altra implicazione. Le puttane invece cercano attraverso la loro offerta sessuale di ottenere il più possibili dal malcapitato, che viene circuito e alcune volte sposato, così la puttana può mettere in conto quasi una pensione vitalistica in suo favore. La tattica della puttana è spregiudicata e subdola, il più delle volte prima di riuscire a fare sesso con costei il mal capitato deve cadere in implicazione di carattere sentimentale; logicamente le definisco implicazioni perché la puttana non è affatto innamorata, ma usa il ricatto sentimentale, perché cosi ha più possibilità di ricattare il mal capitato. È una strategia sottile e spesso non produttiva per la stessa puttana, che appena si accorge di ciò passa alla prossima vittima, lasciando il mal capitato in preda a follia suicida, senza che lei abbia il benché minino scrupolo morale. Alcune volte anche le prostitute finiscono per diventare puttane dimenticando la “chiarezza” della loro professione. Spesso però capita loro che si innamorino e per una strana alchimia queste donne non sanno associare in modo radicale il sesso con il loro amore, per loro il sesso è una attività naturale indipendente dall’amore, possono anche continuare a fare la loro vita di prostitute, ma amare con tutte se stesse l’uomo con cui stanno; se smettono di fare il loro mestiere: è perché sono diventate puttane, o perché hanno trovato qualcuno ormai stufo delle puttane ch’è riuscito a fargli capire l’amore. Più spesso però capita che finiscano tra le braccia di autentici puttanieri, che le sfruttano peggio, se non di più degli sfruttatori, ricattandole anche sotto il profilo sentimentale — si trasformano anche loro in mal capitate. Il mondo oramai è governato da puttane e puttanieri. Sono sempre più rare le unioni mature, legate all’amore; questo aumento delle puttane e dei puttanieri ha spostato la prevalenza delle unioni al solo scopo di una sistemazione che migliori la condizione psico-economica, niente altro. È per questo che era diventato per me impossibile potermi fidare, l’esperienza con una puttana, mi aveva reso inconcepibile non riconoscerle quando le incontravo e quindi non riuscivo né a fare sesso, ma soprattutto fare all’amore con loro, non riuscivo a fare finta di niente e rischiare di procreare immoralmente.
Elena faceva il doppio delle ore di treno delle ragazze di colore che si prostituivano ogni giorno in quella strada, faceva molte ore di treno per essere la sera lì sul posto di lavoro. Elena era del Senegal, era simpatica e la sua pelle era come il velluto.
Lo strano normale di queste situazioni era il piacere nascosto, il tempo di essere attratte che veniva fuori in queste donne, ma che per paura e per poter continuare a fare tutto ciò che fa parte del loro mestiere, veniva tenuto celato, nascosto alle loro stesse emozioni; quel che veniva fuori era il senso acuto di una speranza a cui non volevano credere, per non far si che l’illusione che da essa scaturiva non le facesse impazzire, questo gioco crudele con cui si anestetizzavano mi faceva sembrare le loro emozioni solo un momento di curiosità; per poter continuare.
Per quanto fosse possibile in quelle circostanze, cercavo di trasmettere gentilezza e per quanto ci riuscissi un minimo di semplice corteggiamento, attenzione per la loro vita. Dopo essere stato con Elena la prima volta vi tornai altre volte, alcune volte non la trovai ma non andavo con un’altra; chiedevo alle ragazze che lavoravano lì con lei, se lei ci fosse, qualcuna le era amica e mi diceva la verità, che stava lavorando, altre semplicemente che non c’era e se volevo andare con loro. Le informazioni che raccoglievo sulla vita di queste donne le trovavo durante il tragitto dalla strada al luogo “appartato” dello scambio sessuale; e nel tragitto del ritorno. Ho provato anche a chiedere loro alcune cose durante l’atto sessuale, per scoprire le loro emozioni, ma il modo più vero per scoprirle era guardarle e sentire il loro corpo.
Elena in patria aveva lasciato fratelli e sorelle, i genitori ed era venuta in Italia sperando in una vita migliore. Faceva tutti i giorni sei ore di treno, stava sulla strada fino alla ultime ore della notte, poi riprendeva il treno ed altre sei ore per tornare; non riuscii a capire perché non andasse ad abitare in un posto più vicino. Era evidente che c’erano problemi con gli sfruttatori. La terza volte che incontrai Elena era sfinita stremata, ma per quel modo di tenere le proprie emozioni per se e di non condividere troppo con il cliente, cercava di nascondermi questa sua fatica… - Solitamente la prostituta dopo che ha ricevuto i soldi può accampare mille scuse e problemi per rendere sgradevole l’incontro al cliente e magari tenersi i soldi senza aver svolto l’atto sessuale. Lo scambio sessuale tra la prostituta e il suo cliente può variare in base all’offerta economica del cliente che trova nella prostituta la disponibilità ad accettarla. Lo scambio di base consiste in un rapporto orale della prostituta agli organi genitali del cliente attraverso il preservativo, senza eiaculazione, e dell’amplesso. Alcune volte la prostituta può non avere voglia dell’amplesso, o intenzionata a spillare più soldi al cliente cerca di far godere il cliente durante il rapporto orale, quando questo avviene la prostituta chiede altri soldi per l’amplesso. – …Quella sera accarezzai Elena, la baciai sulla fronte — “Non si fanno baciare sulla bocca”— e le dissi che era troppo stanca, non poteva continuare in quel modo, che chissà, forse aveva anche un po’ di febbre; c’è sempre un momento in queste donne dove il ricordo della loro vita normale, la fatica di quello che stanno facendo, apre una breccia alla possibilità che trovino il coraggio, spesso disperato, per cambiare la loro vita, cercare una porta che si apre. Elena diceva che sarebbe stata felice anche di fare la cameriera. Il quel momento per il “cliente”, l’unico modo per aiutarle è di far sentire che la forza che occorre per fare questo passo è loro, che nessun cliente può essere il loro salvatore, il cliente che hanno di fronte può essere uno strano amico che ha ricordato loro che se vogliono possono avere il coraggio, la forza per cercare un’altra strada. “Torna a casa Elena”.
Elena non tornò più in quella strada della notte…
Il mondo che si rappresentava e che sembrava essersi dato uno strano appuntamento su quella strada, attraverso queste donne che giungevano da ogni dove, appena nel loro paese o nazione succedeva qualcosa di tremendo. Non rendeva la loro vita migliore.
Le prostitute di colore erano quelle più esposte, ai pericoli della loro illegalità, quasi tutte senza permesso di soggiorno; ogni sera “giocavano a nascondino con le forze dell’ordine. Alle undici di sera c’era la pattuglia dei carabiniere, con tanto di luce lampeggiante e divisa, per la prostituta ciò rappresenta un fastidio, fa fuggire i clienti. Le ragazze di colore si nascondevano nella boscaglia, uscendo poi sul margine della strada una alla volta. Le altre, quelle che sembravano in regola rimanevano lì sul posto. Quando ad una certa ora, sempre la solita, i carabinieri se ne andavano, fattasi voce attraverso i cellulari che il campo era libero, le donne della notte tornavano in strada a chiamare e mostrarsi ai possibili clienti, e numerose le ragazze di colore tornavano nella loro zona, quella concordata tra i protettori. Inizia ora la guerra vera e propria, le forze dell’ordine diventano occulte; andando in su e giù per la strada è difficile scoprire quale sia il cliente e chi è chi controlla. Se per alcuni giorni, quando si è nuovi, si percorre la strada senza mai fermasi con nessuna prostituta, le stesse vanno in allarme e i protettori incominciano ad osservarti; se poi ti fermi con qualche prostituta solo per parlarci, dopo un po’ si vedrà la macchina del protettore andare a chiedere informazioni alla prostituta. Può capitare che anche qualche pattuglia in borghese che ha osservato il tuo movimento e che conosce la prostituta vada a chiederle informazioni sul tuo conto; però queste sono quelle prostitute che lavorano da sole, senza nessun protettore, anche se rare sulla strada ce ne sono.
I blitz sulla strada da parte delle forze dell’ordine sono frequenti, ma non come si potrebbe immaginare, servono più che altro per arginare il fenomeno della prostituzione agli occhi dell’opinione pubblica, creare quel disturbo per controllare la situazione; la lotta alla prostituzione per quanto possibile si svolge nella ricerca di chi la gestisce, con meccanismi d’indagine tutt’altro che semplici e veloci; le retate di strada servono per bruciare un po’ il terreno e per quanto possibile eliminare il fenomeno della prostituzione nel suo aspetto più appariscente, restituendo a certe zone che avevano perso il controllo la “tranquillità” che credevano di avere: “L’importante è che non si veda.” I blitz solitamente sono di due tipi: quelli che sono anticipati da appostamenti per arrivare all’improvviso sul posto, ed avere più possibilità di successo, avendo mirato in questo un possibile sviluppo per il proseguo delle indagini; e quelli estemporanei, dove si giunge in un luogo che le forze dell’ordine già conoscono come deputato alla prostituzione sessuale, questi ultimi finiscono quasi tutti con delle retate e con l’espulsione di alcune clandestine. Io mi sono imbattuto soltanto una volta nella polizia, è stato in uno dei miei ultimi incontri con una prostituta: Avevo notato una panda rossa sul bordo della strada, con due persone in abiti civili che stavano controllando i documenti ad una prostituta, quando è così è meglio evitare e andarsene; quei due potevano essere delle forze dell’ordine, dei protettori, o dei simulatori, anche se le apparenze facevano credere che erano dei servizi speciali delle forze dell’ordine, non era prudente scoprirlo; sarei andato un po’ avanti lungo la strada, poi appena possibile avrei svoltato e sarei tornato indietro fino a casa. Avevo pensato questo e stavo per farlo, tornai indietro incrociai la panda rossa, sapevo che questo poteva già essere un motivo per essere osservati e che la cosa migliore era proprio tornarsene a casa; ma ho visto Nina, ho chiesto quanto era e l’ho fatta salire. Nina l’avevo conosciuta circa due anni prima… “Quanto vuoi?” “Cinquanta” mi rispose, le dissi che era bella, che non volevo che mi mettesse fretta, che andassimo in un posto tranquillo. Nina era molto bella: capelli neri corvini, la pelle bianca gli occhi di un verde intenso. Portava la pelliccia e sotto un abito molto sensuale; era una che aveva sempre lavorato nei locali e adesso stava sulla strada perché non voleva dipendere da nessuno, né dare i soldi a quelli del locale; aveva diciannove anni e veniva dall’Ungheria. Il muro di Berlino era crollato e queste donne dell’est venivano in occidente con la fretta di raggiungere presto tutto quello che desideravano. Parlammo un po’ e gli dissi che mi piaceva, che mi sarebbe piaciuto conoscerla senza bisogno di pagarla. Prima del rapporto sessuale tirò fuori un milione in banconote da cinquantamila, le contò davanti a me, poi le nascose; mi disse che doveva stare attenda che c’erano molti tipi che andavano con le prostitute solo per rubargli il denaro. In quel momento non so cosa pensai e non detti molta importanza a quello che lei stava facendo. - In quel periodo le forze dell’ordine stavano svolgendo delle indagini perché c’erano state delle aggressioni. Più tardi quando tornai a casa pensai che forse Nina stava collaborando con la polizia e voleva vedere la mia reazione nel sapere che lei aveva tutti quei soldi, o forse per i suoi precedenti con i protettori poteva pensare che fossi stato uno di loro, uno che la voleva accalappiare. Ebbi il rapporto sessuale, lei si era messa del lubrificante ed ebbi l’impressione che con la mano guidò il mio sesso nel suo ano, le chiesi se voleva che andassi più piano, mi rispose che non le faceva male, - “solo all’inizio bisogna entrare piano.” La baciai sulla fronte, le chiesi come facevo con ogni prostituta se potevo baciarla sulle labbra; - facevo questo un po’ per capire qualcosa in più su di loro, ed anche per valutare quanto tenessero alla propria protezione - la baciai sulla fronte, era bella, forse l’avrei baciata sulle labbra se avesse voluto. Dopo rimanemmo a parlare, le raccontai qualcosa delle donne che avevo conosciuto, le chiesi se lei era mai stata innamorata? Lo era stata e mi raccontò di un ragazzo in Ungheria, l’aveva lasciata quando aveva saputo che andava a letto con un uomo anziano che possedeva un sacco di soldi. Era arrabbiata perché il suo ragazzo non aveva capito che lei lo amava e che andava con l’altro solo per denaro. Le dissi che non poteva esserci amore in quel modo. Lei mi rispose nervosa che faceva quello che le pare, se lei voleva fare la prostituta perché non poteva essere amata?” Mi disse che se volevo potevamo uscire insieme qualche volta per bere qualcosa. Parlando le chiesi quanto voleva continuare a fare quella vita, mi disse che aveva cinquanta milioni da parte e appena fosse arrivata a cento sarebbe tornata in Ungheria e avrebbe aperto un negozio. Quella sera la salutai poi non la rividi più…
Quella sera erano passati due anni e ritrovai Nina su quella strada, ed anche con quella panda sospetta in giro decisi di fermarmi e farla salire. Parlammo un po’ poi le dissi che aveva fatto; era strano ma nonostante lei vedesse i volti di molti uomini aveva capito, percepito che ci eravamo già conosciuti. Le raccontai un po’ del nostro primo incontro e le chiesi che cosa le era accaduto. Era finita in Olanda e in un modo che non capii molto bene mi spiegò che si era fidata di qualcuno e aveva perso tutto il denaro che aveva: i suoi cento milioni. Nina voleva l’amore, ma anche i soldi e voleva farli nel modo più rapido che conosceva. Le chiesi perché non era tornata in Ungheria come mi aveva detto… In quel momento mentre stavamo parlando, seduti in macchina sul ciglio della strada, è arrivata la panda rossa; ho chiesto a Nina chi fossero e cosa dovessi fare, mi ha risposto: “Niente li conosco sono amici, fanno un controllo.” Si sono avvicinati alla macchina, Nina è scesa ed è andata a parlare con uno di loro, io avevo aperto il finestrino dell’auto, la persona che ho di fronte mi ha chiesto i documenti, ho preferito non chiedere chi fossero, hanno solo una paletta per il traffico che può far pensare alle forze dell’ordine, ho dato la mia patente e come la persona l’ha aperta è caduto in terra un santino di San Giuseppe, si è chinato, lo ha raccolto, osservato, ho visto sul suo volto una curiosità un po’ perplessa, mi ha restituito il tutto e mi ha detto che potevo andare, cercando di dare alla sua voce un tono deciso, ma meno convincente dopo la visione del santino. Ho visto che tutti e due erano nei pressi di Nina e sono tornato a casa.
Solitamente io dopo aver conosciuto una di queste donne le torno a trovare dopo circa un anno, se sono ancora sulla strada, la trasformazione che può avvenire in loro, può certe volte essere sconvolgente. Durante la guerra dei Balcani su quella strada sono arrivate delle ragazze che fuggivano per sopravvivere alla violenza che c’era nel loro paese, ed era normale che a poche decine di metri l’una d’altra ci fossero ragazze che appartenevano alle stesse etnie che si stavano massacrando nella guerra. In quel posto era come se i fatti del mondo confluissero nel loro aspetto più crudele. Ho conosciuto Natascia una ragazza della Bosnia. Quando sono andato con lei la prima volta le chiesi del suo paese, se pensava che prima o poi sarebbe tornata a casa; mi racconto che nel suo paese si uccidevano, mi parlò dei Serbi con cui combattevano. Poi mi disse che aveva voglia di fare all’amore, non voleva parlare, ed era allegra nel chiedermelo, Natascia era bella e cosi ingenua da pensare che quella vita che stava per iniziare sulla strada, sfruttata da qualcuno con le solite promesse fosse belle; chissà da cosa era fuggita per immaginare questo. Le dissi che lei s’illudeva ma non forzai troppo questo argomento. L’incontrai di nuovo dopo circa un anno, era diventata smaliziata, e mentre la prima volta sembrava una ragazzina vestita da chi sa chi per mostrare le cosce, ora era attraente come doveva essere una che faceva quel lavoro, era diventata dura e cinica, aveva perso la gioia e aveva paura nel provare piacere durante l’atto sessuale, mi disse a suo modo che le si girava il cervello, era diventata una persona sconvolta. Le ricordai come era quando l’avevo conosciuta un anno prima; aveva quasi dimenticato le sue emozioni. Doveva cambiare quella sua vita se ancora ne aveva la forza, nella sua patria ancora c’era la guerra… Più in là nella strada conobbi una ragazza Serba che prima di giungere qui era stata a Milano, secondo lei qui si viveva meglio; tranne che nella sua sensibilità personale, diversa da quella di Natascia la sua situazione non era affatto diversa. Mi dispiace non ne ricordo il nome, mi ricordo che nel pronunciarlo aveva un bel suono, il sapore di qualcosa che poteva essere bello. C’erano tutti i Balcani: Bosniache, Serbe, Croate, Macedoni, Jugoslave. Vesna era una di queste, la sera prima d’incontrarla mi ero fermato un attimo sul bordo della strada c’eri con molte altre ragazze della guerra, una molto carina si era avvicinata alla mia macchina, mi disse che cosa avrebbe fatto con me per cinquantamilalire, io le dissi che volevo fare all’amore con lei più di una volta, lei senza aspettare sconsolata si allontanò dalla macchina e disse per cinquantamila… Io la raggiunsi con la voce e le dissi che non avevo parlato del prezzo, lei si girò un attimo ed io me ne andai. La sera dopo in quello stesso posto c’era Vesna, sola, mi porto in un luogo tranquillo e cercò di farmi eiaculare più rapidamente possibile, per avere un altro rapporto ed altre cinquantamila, tutto questo conseguenza della sera prima. C’è un passa parola particolare tra le prostitute che quasi fa una carta d’identità del cliente; chi è? Se ci si può fidare, ed anche come fa sesso. Non ebbi un altro rapporto con Vesna, che mi disse che insieme ad altri due slavi gestiva le ragazze che faceva venire dai Balcani. Penso che sia stato vero, giacché tempo dopo lessi sul giornale di una donna e due slavi arrestati per sfruttamento della prostituzione. La riaccompagnai sulla strada e me ne andai.
Uno dei traffici che si è maggiormente sviluppato su questa strada è quello organizzato dalla delinquenza albanese, all’inizio, quando ancora non si immaginava che sarebbe diventato un problema così importante per le forze dell’ordine, incontrai Matilde. Una sera mentre tornavo a casa, lei era sul margine della strada, era giovanissima.
Queste ragazzine di un’Albania che tutta d’un botto ha ritrovato la libertà, accorgendosi all’improvviso del ritardo che aveva nel possesso delle cose, delle tecnologie dei paesi cosi detti ricchi, accendendo la televisione. A immaginato che attraversate un paio di centinai di miglia di mare quelle cose che desideravano e che la televisione mostrava, sarebbero state loro con molta facilità. Molti dei paesi ex comunisti caduto il regime si sono ritrovati senza più identità. In Albania il regime ha distrutto le tradizioni, per anni a inculcato nelle persone le proprie; ma nel giro di qualche mese è crollato su se stesso lasciando il caos che forse aveva costruito, un’implosione che ha scaraventato nel vuoto un popolo. La maggior parte di queste ragazzine albanesi, della strada, o venivano ingannate dicendo loro che una volta qui sarebbero state sposate; o peggio rapite e vendute per poi essere obbligate con la violenza a prostituirsi. Come vidi Matilde non potei non notarla, tornai indietro con l’auto e mi fermai a parlare con lei, aveva delle forme non appariscenti ma aggraziate, assomigliava ad un quadro del Botticelli, quando fummo in macchina non potei non accorgermi del suo impaccio, era impaurita e non sapeva cosa fare, ripeteva le cose come gli era stato detto di dire, l’accarezzai sulla guancia le chiesi di dove fosse, ma dopo avermi detto alcune cose mi disse che non voleva parlare; aveva una cicatrice di un paio di centimetri su una guancia, un taglio… Le dissi che era molto dolce e graziosa, che però non volevo fare all’amore con lei, volevo parlare un po’; lei nel suo italiano mi fece capire che era troppo tempo che stava con me, non poteva, lo aveva detto con paura, con la paurA per chi la obbligava a stare lì sulla strada, l’avevano minacciata di chissà cosa. La baciai sulla guancia, ma era cosi diffidente e impaurita, come chi è stato tradito dalla vita. Gli diedi i soldi, aveva paura di tornare sulla strada, dagli sfruttatori dopo essere stata con un cliente senza avere i soldi. Scrissi un racconto, un breve racconto che inviai ad una rivista. Questa rivista - “leggere” – pubblico un compito in classe per studenti, la Archinto direttrice della rivista aveva optato di accontentare i professori, numerosi lettori della sua rivista. Il mio racconto era buono; uno scrittore è colui che inventa un modo, una forma letteraria per raccontare attraverso l’arte delle parole scritte. Non è scrittore uno che scrive come gli hanno insegnato. La letteratura continuava a vantarsi della sua nullità, indifferenza dinanzi a qualcosa di cosi drammatico, infischiandosi così dell’arte e della realtà. Di questi vanagloriosi del mondo dell’Arte si farebbe a meno se ci fosse un po’ meno di puttanismo e incompetenza camuffate da ottusa saccenteria. La letteratura è un’espressione della vita e componente vitale della sua possibile comprensione. Meglio l’eloquenza di un punto e virgola, ottusamente grammaticale, l’esperienza “banale” della formazione di un’adolescente in cui identificarsi, che la realtà violenta di una ragazzina di un altro paese, un’adolescente diversa e costretta a prostituirsi su una strada, nella notte di un paese non suo. Anche nella letteratura è preminente il puttanismo, il vuoto dell’apparenza.
…Passò molto tempo, insieme a Matilde erano arrivate molte altre ragazze, non era più “sola”, quando tornai a trovarla era dimagrita e le sue forme dolci erano scomparse, giocava ad essere indifferente e più dura, cinica, ma era evidente che ingannava se stessa; le dissi che mi piaceva di più quando l’avevo incontrata la prima volta, le chiesi se era dimagrita perché si era presa l’adis, fui un po’ duro. Feci all’amore con lei, le dissi che era bella. La riaccompagnai sulla strada, quella sera notai un anello al suo dito, nel buio mi era sembrata una fede. Tornai a trovarla altre volte, una volta mi sembrò di umore così eccitato, penso che fosse stata drogata. L’ultima sera che l’incontrai le chiesi della sua famiglia, di suo padre e di sua madre, le dissi che forse era meglio che tornava a casa, da chi le voleva bene, le chiesi dell’anello, mi disse che aveva solo l‘anelo lui non c’era più, non volle dirmi perché. Mi ero comportato come un cliente con una puttana, come una persona con una ragazza. Quella sera mi disse che non sapeva come fare… le dissi che non sarei più tornato a trovarla, in quel modo non volevo, le proposi di andare dai carabinieri, di chiedere aiuto, l’avrebbero riportata a casa, le dissi che l’avrei accompagnata io, le dissi che se voleva la portavo a Brindisi a prendere il traghetto, insistei mentre la riaccompagnavo sulla strada, rimase perplessa, poi scese dalla macchina, insistei ancora; la guardai, mi accorsi che non sapeva cosa fare, aveva paura, tornava a sperare, non sapeva cosa dirmi; la salutai e andai via. La vidi ancora qualche volta sulla strada, ma io come gli avevo detto non mi fermai più. Alcune di loro sono riuscite a denunciare i propri aguzzini, hanno trovato la forza di ribellarsi. Spero che anche Matilde ci sia riuscita. Un po’ di tempo dopo, ho saputo dai mezzi d’informazione che un ragazzo Albanese aveva ritrovato sua moglie, costretta a prostituirsi sulle strade di Milano; i suoi aguzzini le avevano detto che suo marito era stato ucciso; la notizia diceva che questa ragazza era stata anche su questa strada. Non so se era Matilde, ma spero che lei si sia salvata. Pensai in quel periodo, al caso di contattare le forze dell’ordine, conoscere qualcuno a cui passare delle notizie quando era il caso, ma forse questo non era il modo migliore per me di aiutare queste persone ed aiutarmi. La mia situazione si integrava alla loro con la mia personalità che cercava d’incontrarsi con quella di altre persone che vivevano la loro storia come io la mia; dare soltanto dei consigli che ognuno era libero di accettare. Vedevo quelli delle organizzazioni di volontariato che al momento concreto in cui qualcuna di queste ragazze faceva richieste precise, essere disponibili, ma il modo in cui costoro volevano spingere queste persone a decidere, non mi sembrava del tutto condivisibile; mi sembrava di vedere quel moralismo, io buono tu cattivo nei confronti delle prostitute, l’espressione di una posizione di forza, più che di convinzione, una scelta. Matilde.
Molte di queste ragazze vivevano insieme in appartamenti trovati dai loro aguzzini; mi ricordo di Daniela, anche lei una ragazza Albanese, mi ha portato in uno di questi appartamenti, era in ordine, anche se non perfetto, l’ho tenuta tra le braccia, non l’ho baciata perché lo voleva solo in un momento quasi programmato, non ha resistito e si è lasciata andare fino all’orgasmo, mi parlava dell’amore, che le piaceva essere innamorata, non era triste e sembrava contenta …Prima avevo chiesto un bicchiere d’acqua. Dopo che ha raggiunto l’orgasmo ha provato a farmi dimenticare il desiderio, con le parole, ma non lo sperava, poi si è messa sul letto in ginocchio, l’ho penetrata, ho provato piacere nel suo ano, quando dopo aver goduto sono uscito da lei, mi ha guardato il pene, con lo sguardo che voleva gli chiedessi di continuare, lei non lo ha fatto, perché non aveva dimenticato del tutto perché fossimo lì. Buttò il preservativo e uscimmo. Ci sono state alcune altre che si sono lasciate andare fino al piacere. Non era impossibile che i desideri naturali riuscissero a trovare un po’ di spazio anche in quell’innaturale contesto. Ricordo il piacere di Alba, che dopo mi ha chiesto se l’accompagnavo a telefonare a casa, a suo figlio che non stava bene, le fotografie dei suoi bambini di cui mi ha parlato, del suo Brasile lontano. I brevi ma intimi racconti di Lorna che faceva la sua professione liberamente, di giorno era la domestica in una casa e la notte si trasformava all’insaputa di tutti. Mi parlò dei suoi figli, del marito che era morto e che è sepolto in un cimitero di una città del nord, dove lei va ogni volta che può, dei rari momenti in cui si concedeva al suo bisogno di sperare, ma che subito reprimeva.
Diana, greca che forse dopo un anno riuscì a tornare a casa, della giovane Aladina, la gentilezza di Giulia, Italiana che era fiera perché aveva un figlio adolescente che già scopava. Della rabbia e la disperazione di Sasia, maltese dal corpo statuario, a cui troppi avevano detto essere bella, tanto che lei non lo credeva più. Dell’innamorata Natascia, Russa, a cui ho detto che se ci fossimo incontrati in un altro posto avremmo potuto conoscerci, perché è scappata e tornata a casa appena ha capito il suo malessere. Ricordo con piacere la tua semplicità, ma anche la tua reale intelligenza. La tua Amica Dania che si è stretta a me e mi ha baciato ricordandomi il piacere di fare all’amore, di stare con chi ti vuole. Ti ho chiesto di ribellarti a chi ti teneva prigioniera. Ti ho chiesto come potevo aiutarti e tu mi hai risposto di non tornare più. Sei tornata anche tu in Russia, qualcuna di voi ha denunciato i tuoi aguzzini, forse sei stata tu. Saluto Angela con la mente e con il corpo di una donna, un tras che cerca per completarsi un uomo, un eterosessuale; che mi ha parlato di sua sorella dicendomi ch’è molto più bella di lei. Di quella ragazza dell’Africa con cui ho scambiato la promessa di fare la comunione pensando a lei e lei pensando a me. Ricordo il breve incontro con Sabina, faceva l’autostop lungo quella strada buia; la feci salire e l’accompagnai dove voleva, parlammo un po’ per quel breve tratto di strada. Mi disse che con il suo lavoro non riusciva a trovare l’amore di una persona, viveva solo cose brevi. Le dissi che mi sarebbe piaciuto rincontrarla per parlarci un po’; bolognese dal carattere affabile che non ho potuto più incontrare perché alcune sere dopo è morta travolta da un auto che probabilmente nel buio non la vista. Alla giovane Sara che mi ha chiesto gli regalassi un nastro di Venditti perché c’era una canzone che aveva per titolo il suo nome, la storia di una ragazza che si chiama come lei. L’ultimo incontro con Nina, senza più intesa e nella sua Rabbia. La rabbia di un mondo che non da altre soluzioni oltre quelle di non sperare più di vivere.
Sono alcuni anni che non vado più in quella strada, la mia vita ha bisogno di altre strade; il mondo da quest’altra parte non è poi molto diverso, forse è peggio perché è più illusorio, la realtà è stravolta dai calcoli del puttanismo, che rende tutto finto senza vita vera, e là dove sembra che tutto sia vero, spesso vi è nascosto l’inganno più grosso quello della menzogna e dell’ipocrisia, quel male di rubare alla vita il suo senso con l’illusione che non accetta la realtà di non poter giudicare per capire. La menzogna di negare alla vita umana la sua dimensione naturale con l’inganno del sopravvivere. Non dire ti amo, ma solo tu hai bisogno di me — il potere del nulla.
Ho finito di leggere e credo che troverò il modo di pubblicare questo testo, troverò il suo anonimo autore. Ho appena smesso di leggere. Alcune persone parlano dell’ultimo film visto in una video sala. Guardo il cameriere, il barman e la donna seduta al bancone. È quasi l’alba, l’aria fuori sarà già fresca e pungente, la strada forse bagnata. I musicisti stanno mettendo a posto i loro strumenti e le bombe di qualche guerra percuotono la terra. Finisco il porto rimasto nel bicchiere; metto il pacco di fogli nella borsa insieme al computer, la matita nella tasca interna del mio giaccone. Mi alzo, raccolgo la borsa, mi avvio verso l’uscita passando tra i tavoli – guardo il cameriere, il barman e la donna seduta al bancone, per un attimo perdo il suono delle voci delle persone che parlano nel locale e sento la musica che proviene dagli altoparlanti alle spalle del barman; riconosco la canzone: Lola Blues.
“Squarcio i vetri, apro lo specchio
riempio il bicchiere, bevo tutto d’un fiato, mio marito
sbatte la porta e esce di casa.
C’è un puzzo di roba andata a male, la stanza ne è pregna
e il silenzio s’infrange nel fischio che sento nelle mie orecchie che mi spacca il cervello.
La puttana ch’è dentro me ha fatto la vacca stanotte,
con lui e un suo amico, sono stata prestata così spesso
che non ricordo il piacere della prima volta,
piccole ammucchiate da scontare al mattino, quando ti senti le viscere che non sono più le tue,
piene di qualcun altro.
Puttana come il piacere mi ha insegnato, distraendomi dalla santità.
Ho finito la bottiglia e non mi resta che la solitudine e il puzzo,
finisce sempre così che mi butto sul letto e dormo, per dimenticarmi, per sentire di meno, per non dirmi niente.
Quando è necessario fuggire non c’è niente di meglio che dormire.”
Apro la porta esco dal locale, l’aria è fresca e pungente, la strada bagnata dalla pioggia, cammino nella notte fino a casa… Accendo il computer – segna le sei dell’anno uno – apro il file del mio libro, vado all’ultima pagina e scrivo il mio nome Bernardo Joyce.
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