Patrizio Marozzi - I Racconti tra realtà e leggenda di Mister X

pag. 278

 

                               INTRODUZIONE

 

 

 

20 Gennaio 2001

 

 

 

Patrizio Marozzi

Via IV Novembre 19

63037 Porto D’Ascoli   A.P.

Tel. e fax 0735 753745

 

 

                                                                                                                                             Adelphi edizioni

                                               Dir. Ed.

                                               Roberto Calasso

                                               Via S. Giovanni sul Muro  14

                                               20121 Milano

 

 

 

1

Egregio Direttore eccomi di nuovo…

2

…un po’ di tempo fa – ero ancora un ragazzo – cercai di spiegare ad un altro ragazzo che un giorno con la ceramica si sarebbero costruiti dei pezzi per i motori delle automobili… fu impossibile fargli accettare il fatto che l’idea fosse vera, neanche se lo avesse visto con i suoi occhi vi avrebbe creduto …ma il fatto non è tanto che oggi dei componenti ceramici si usano per andare nello spazio, che è normale, ma che ancora a tutt’oggi e ancora di più di allora si vive in funzione di una scienza, che ci ha così bene istruiti nel suo uso, da renderci privi della conoscenza…

3

…L’informazione che voglio anticiparle – che troverà nel libro – è questo brano di Mister X: “Ero seduto, ascoltavo con la mia fantasia il suono di un clavicembalo. Seduto su una panchina di un giardino qualsiasi della mia città. “Ciao.” “Ciao.” Sento qualcuno che saluta e mi accorgo di un pacco avvolto in una busta, appoggiato lì, al mio fianco sulla panchina… Un libro, lo apro, un pagina a caso. Leggo: …”

 

                                                                  Mister X

 

Questo brano è l’inizio del libro “Letteratura Sperimentale”, del primo capitolo “Faust”. Si può benissimo dire che questo personaggio nasce lì.

4

La ricerca creativa su cui si genera questo libro: “I racconti tra realtà e leggenda di Mister X” è già presente nelle mie opere precedenti, anche se qui ovviamente si esprime nella sua peculiarità.

Buona lettura a lei e ai Suoi collaboratori.

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…I personaggi che attraversano le mie opere vivono nella realtà del libro e molti di essi sono entrati, attraverso i processi creativi con cui sono stati costruiti “nell’irrealtà” della realtà del mondo, ma sempre attraverso il contenuto stesso dell’opera d’arte che li conteneva, per esempio: “Affacciati alla realtà”. Anche in quest’opera ciò avviene ma non è solo questa la sua peculiarità…

6

Costruendo questo libro è nato un nuovo personaggio: “Anonimo” con tutta la sua ragion d’essere, determinatasi attraverso tutte le mie opere già fatte. Con esso mi si aprono possibilità creative veramente interessanti e già nuovi progetti mi frullano in testa. Ho anche pensato a un lavoro orale, non nel senso di un’opera scritta e poi recitata o viceversa, ma un’opera che si determina e si realizza solo per mezzo dell’oralità, spero di riuscire a realizzarla – se sarà ne verrà sicuramente a conoscenza.

7

De “I racconti tra realtà e leggenda di Mister X”, ho realizzato anche una versione in c.d. rom, essa se stampata può essere letta con i tempi e il ritmo di un opera letterale su carta, o sennò avere un approccio diverso per mezzo del software del computer. Rispetto a quella cartacea essa contiene anche del materiale multimediale che va da fotografie, opere di arte concettuale, musicale e visiva.

8

Mi conceda il vezzo del fronte di copertina, con l’intestazione dal colore diafano. Lo stesso colore che uso per stampare questa lettera, questo non è un vezzo, ma sono sicuro che lei sarà così gentile da concedermi il fatto di aver terminato l'inchiostro nero e dato che ho probabilità che martedì mi arrivi la stampante nuova e che voglio spedirvi il mio lavoro prima… Grazie!

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 La ringrazio infinitamente dell’attenzione e rimango in attesa di Sue notizie.

Ancora buone letture e buona vita.

10

P.S.

…leggendo, per esempio troverà scritto: “Hasserliani” invece di Husserliani – e altre… cose di questo tipo, ma mi conceda di dirle che sono scritte proprio bene.

                                                                                                    

                                                         Patrizio Marozzi

 

 

 

 

 

 


 

I racconti tra realtà e leggenda di Mister X di Patrizio Marozzi


 

 

 

 

 

 

 

 

          a Vivienne

 

 

 

 

 

…peccato originale… se fosse possibile il male di uno verso se stesso, sarebbe misericordia di Dio.

Il male di molti verso uno è di grave danno per tutti, ma tutti in un modo o nell’altro sono responsabili del male, tranne quell’uno.

                                                                            Anonimo

 


                                            Prologo

 

I Dannati

 

Gli amici che ho avuto non hanno meritato la mia amicizia.

Le donne che ho amato non hanno meritato il mio amore.

Non ho mai conosciuto nessuno che superasse la mediocrità e tutti secondo la misura dell’uomo, dal più piccolo al più grande, sono affetti da quella forma di pazzia che non si risolve in nessuna consapevolezza, ma li radica nella profondità di una banalità insolubile.

Non mi conoscete e se pensate che io sbagli può essere solo per invidia.

Chi come voi di fronte all’immenso gesto della creazione di Dio, ha preteso che nel gesto di  rubandogli una mela potesse diventare come lui, non può che essere in preda ad una presunzione incommensurabile. La vostra condizione si chiama dannazione, ovvero: L’atto e l’effetto del dannare o dell’esser dannato; condanna all’inferno, perdizione dell’anima. La dannazione eterna. Io non provo proprio invidia per la vostra condizione.

Non conosco persona che meriti la mia amicizia.

Non conosco donna che meriti il mio amore.

E voi continuate ad offrirmi la vostra mela, questo si chiama odio. Lo diffondete in tutti i modi, ma è bene che sappiate che se io odiassi quando voi e mi dannassi con voi, la vostra condizione non subirebbe la ben che minima variazione – e se anche io non odiassi e mi salvassi dalla vostra morte eterna, anche in questo caso la vostra condizione non subirebbe la ben che minima variazione. Cristo è già morto, io con la mia morte posso riscattare solo i miei peccati: morire per Cristo o contro Cristo. Essere quel ladro che vicino alla sua croce ha chiesto perdono dei suoi peccati – o scegliere di essere l’altro ladro che ha deciso di perpetuare la sua dannazione.

Non vi rimane che una speranza, sta in quella frase che Cristo pronuncio quando… “Dio mio perdona loro perché non sanno quello che fanno” – e quando sarete soli nell’attimo estremo della vostra morte, in quel momento la responsabilità di scegliere tornerà per un istante, l’ultimo.

                       

                                                                       Mister X

 

 

 

 

 


C’era un sentiero che non riuscivo più a comprendere, era quello che il resto del mondo non voleva conoscere ma soltanto, per il fatto che le cose non hanno conosciuto il loro reale significato non possiamo certo dire che non sappiamo quello che facciamo, ma del resto non importa realmente quello che facciamo, ma soltanto quello che gli altri non vogliono capire.


Il sopraggiungere di un giorno

 

Eteronimo Joe 1

Le puttane mi divorano lo spazio. Quelle puttane delle ragazze per bene, quelle che fanno finta di non pensare alla figa, quelle che dicono di non dare importanza al sesso, ma poi ti danno la passera solo dopo aver sentito l’odore del tuo sette quaranta. Le puttane.

Le puttane quelle vere sono diverse. Ieri sera sono andato con Luisa, una ragazza di colore del Ghana. Mi ha chiesto cinquanta le ho detto che era troppo, quaranta allora mi ha detto, le ho risposto che era ancora troppo. “Ma io vado solo per cinquanta

— trenta”. Va bene le ho detto. E ancora lei — “Facciamo con calma, lo facciamo con calma”. “Va bene”.

Molte di loro cercano l’amore, e sperano che io mi innamori. Se avessi molti soldi troverei quella più bella, ma soprattutto intelligente, ve ne sono. E gli cambierei la vita come vuole. Alla faccia di quelle frigide delle brave ragazze.

 

Eteronimo Joe 2

È tempo di morire di abbandonare la vita, spegnere il buio che ti avvolge; non chiedere altro alla speranza che non può darti niente. Tutto il sentire umano ho attraversato e quello ch’è rimasto è solo un involucro che sente qualcosa che non appartiene più all’umanità che mi porto dentro. Sento gli inutili occhi di chi leggerà queste parole acuire ancor di più il mio esserci, parlare delle cose come di uno stato, di un’assurda cura. Morire per dire basta alla solitudine, che non mi lascia più un respiro. Morire per superare la morte che mi sta uccidendo, il sordo suono di un mondo che non sente. Sapere come salvarsi, ma non averne il potere.

“Solo, perché tu sai quello che gli altri non conoscono, Ulisse”. Ti sentirai solo.

Solo oltre la solitudine, stendere la mano e non raggiungere nessuno; tutti presi nei loro giochi che non esistono. Ti chiedono quello che tu hai dovuto dimostrare a “Dio”. Ti chiedono di respirare, mentre non vedono che respiri; ti chiedono di guardare, mentre li guardi, ti chiedono di parlare, quando loro sono sordi.

Morire per non morire di vuoto. Morire prima che la meraviglia della gioia della vita che ancora senti nei tuoi lampi profondi svanisca per sempre. Nel mondo in cui vivi tu non ci sei, ti sfiora soltanto, e solo un’alchimia d’energia mi fa camminare, ma non lo afferro

 

Cercando di capire quel che avviene mi ritrovo attraverso gli spazi di un tempo. Le voci profonde mi destano all’improvviso come spirali di vita, come un perduto oltre l’immagine del mare; mi disperdo senza dimenticare, ma neanche più ricordare.

All’improvviso apparente i flussi della vita si perdono, non sperano più di esserci e in un perduto bisogno di morire si riversano le speranze, nell’attesa vana di non sapere come. È finito ogni dire, morire chiudendo gli occhi serenamente, senza palpiti improvvisi, solo scendendo attraverso il tempo che non ha più margini.

All’improvviso sentendo il peso di tutta la vita senza la vita che ne fa parte, chiedo di morire, perché non vi è più nessuno dove mi trovo, ma lampi improvvisi scuotono il mio cielo e l’illusione della speranza torna con una voce strana a parlarmi, una voce che tarda a compiersi e per questo mi illude.

La voce dell’aria è sorda al mio respiro, come trasparente non c’è nei miei polmoni e il peso della sua assenza è un urlo leggero e acuto che spinge i margini del mio respiro a mordere brandelli di vita, che non dicono tutto e per questo non hanno nulla.

La vita che vorrei mi prendesse, soltanto mi sfiora e mi abbandona

 

Eteronimo Joe 3

Mi sono innamorato alcune sere fa e non c’è niente di strano se ho voglia di vivere tutta la vita con lei. Forse si chiama… l’ho vista solo due volte, ma sento di aver comunicato con lei; però è pazzesco se è solo illusione. Ho bisogno di voci forti e chiare, ma forse si è già scordata di me, ma se lei mi incontrasse di nuovo e mi dicesse che mi ama le direi tutto ciò che sento. Vorrei tanto fare all’amore con lei. Mi ricordo che da bambino, in spiaggia incontrai una bambina che mi chiese se gli piacevo, me lo chiese annuendo con la testa, le risposi che mi piaceva e non aveva bisogno si suggerirmi la risposta, poi mi disse un’altra convenzione, io gli risposi che l’importante è amarsi. Il tempo è passato e la realtà non è più sopraggiunta. Da quel giorno sono accadute molte cose, ma forse sempre la stessa, il tempo forse ha smesso di continuare il suo tempo e la porta non è stata ancora chiusa, mentre sopraggiunge un altro giorno.

 

 

 


Venezia

 

Tornavo, tornavo, me ne andavo da ciò che mi aveva reso felice, sereno, me stesso; e mentre navigavo per gli ultimi istanti sul vaporetto che mi portava alla ferrovia, ho chiesto, pensato a Venezia chiedendogli che mi salutasse con un ultimo sguardo, con un’ultima emozione. Mi sono voltato e lei era lì, una donna bella dagli immensi occhi azzurri. Mi ha guardato tra la curiosità e la sorpresa, ed ho capito che il mio viso non mentiva, che era chiaro quello che voleva, che chiedeva; che l’impossibile potesse accadere ora che tutto il mondo, lì, in quel posto aveva dimenticato la sua morte.

 

Ho incontrato Venezia con i miei occhi leali e molto sorpresi tre giorni fa. L’ho scoperta vera e forte, soltanto inimmaginabile, introvabile se non dov’è. Ho scoperto dentro di me che esistevo guardando ciò che l’impossibile è capace di fare.

Venezia è unica e irripetibile, magnifico emblema della realtà, sogno sospeso sopra d’essa.

Sono qui! e appena uscito dalla stazione si apre alla mia vista lo spettacolo dell’incredibile, l’impossibile è lì davanti ai miei occhi che non sanno piangere per il meraviglioso stupore di ciò che osservano. Venezia mi accoglie tra mille voci, tra mille ricordi e futuri avvenimenti, non sanno cosa dirsi, ma esistono nell’impossibile coniugazione del tempo e dello spazio, nel ritrovarsi dove l’accadere è cosa nuova. Grida in me la voglia di reale.

 

Sono seduto davanti gli scalini della stazione e osservo i mille volti i mille colori delle nazioni che vi transitano. Guardo vicino “a me” e scrivo sul mio taccuino che osservo una ragazza che sta scrivendo fitte pagine di parole. Le sue parole non raggiungono il margine esterno della pagina, è una scrittura introversa, in se stessa, ha dei graziosi occhi e dei gesti precisi e delicati. Osservo con attenzione e delicatezza le persone sedute sulla scalinata, ne osservo i particolari, i frammenti dei loro gesti, per capire le emozioni che si trovano a vivere.

Sto aspettando… sulla gradinata della stazione, guardo delle persone e mi chiedo se siano veneziani.

Mi allontano da lì, in cerca di un genere alimentari dove comprare la mia busta di latte da mezzo litro, la bevo sempre per colazione.

Mi dirigo lungo la fondamenta scalzi, passo davanti alla chiesa dei carmelitani scalzi, alla mia sinistra, alla destra ho il ponte degli scalzi. Entro nella chiesa e vi rimango un po’, osservo due tele grandissime del Tiepolo, di carattere sacro. Rimango ancora un po’ in meditazione. Esco dalla chiesa con un senso di lieve stupore lo stesso che mi accompagna da quando sono a Venezia. Continuo per Rio Terra Lista di Spagna. Noto che ci sono delle pizzerie, ancora chiuse, le memorizzo, mi saranno utili nei giorni che rimarrò a Venezia. Trovo un genere alimentari aperto, compro una busta di latte, chiedo se per cortesia la possono aprire, sono gentili, la bevo.

— “Buongiorno, grazie!”

— “Buongiorno!”

Ripercorro Rio Lista Terra di Spagna, torno alla stazione.

Vivo il mio incontro con questa città istante per istante, questa città che mi mostra le cose per quello che sono, nella loro reale dimensione.

 

Attraversando calle e ponticelli giungo in “Corte dei Tiozzi”. Lì aspetto un po’ che torni la signora che ha le chiavi dell’appartamento che ho affittato, la proprietaria è romana.

Giunge, è una signora cordiale, gentile; mi accompagna all’appartamento: un piccolo sottotetto, con cucina e due stanze da letto e un piacevole balconcino. Dormirò in una casa di Venezia e questo nonostante tutto mi rende soddisfatto.

Viaggiare sui vaporetti è un’esperienza particolare, c’è sempre l’eventualità di incappare tra persone che conversano, incontrare donne, che giocoforza puoi guardare negli occhi a dieci centimetri di distanza. I vaporetti sono pieni e si è pigiati l’uno sugli altri. Dopo una fermata sento una persona che chiama il conducente, parla in inglese, dice di chiamare la polizia, di non far scendere la gente perché qualcuno le ha aperto la borsa e rubato il portafoglio. Le dicono di fare la denuncia una volta scesa, quello che chiede è inutile.

Viaggio attraverso il Canal Grande e sono preso dallo stupore, la meraviglia negli occhi nel vedere i palazzi e le abitazioni, l’architettura di Venezia mi emoziona, mi lascia  sospeso e incantato. Venezia non sospetta nulla di ciò che non gli appartiene, è presente in ogni gesto movimento di chi l’attraversa, lo rende visibile all’invisibile. Una città che ti pone all’altezza di te stesso, essenziale come la sua arte. La notte a Venezia è l’energia di un mistero svelato.

 

…La mattina sul ponte, mentre andavo verso i giardini alla biennale arte, ho visto una donna che avevo conosciuto molti anni prima, un lontano amore, un ricordo ormai straniero, una storia raccontata nella campagna della maremma. Ci siamo quasi passati accanto, anche lei mi ha riconosciuto, ma non ci siamo incontrati, fermati a parlare. Chissà cosa l’aveva portata a Venezia su quel ponte, in quel momento. … La guardai per un po’ mentre si allontanava, poi proseguii verso i padiglioni della biennale. Avevo appuntamento davanti al padiglione tedesco, non conoscevo la persona che dovevo incontrare, non ero certo neanche di dover incontrare qualcuno. Mi era stato detto soltanto di trovarmi lì alle undici.

Lei, una donna mi viene incontro, mi saluta cordialmente. – “Ciao ti ho portato l’intervista di Mert, l’ho già trascritta, questo è il floppi.” Facciamo finta di conoscerci, le chiedo come sta e se le piace la biennale… poi mi bacia sulla guancia e mi dice che deve scappare ché le parte il treno. Poco distante da noi, un uomo che avevo già notato alla stazione, stava osservandoci. Mi allontano e torno a casa.

Inserisco il dischetto nel computer, lo apro, c’è scritta una frase: la partita a due nel quadro che c’è che non c’è.

In questa storia nessuno conosce né la persona né il codice precedente o futuro. La donna che mi ha consegnato il dischetto non sapeva niente di me, né della frase che conteneva, e anch’io non devo far altro che lasciare il dischetto, fra un giorno, sopra la cassetta della posta alla stazione.

 

Esco di casa ch’è notte. Sono alla fermata del vaporetto, una donna, giovane, in abito da sera è lì con me ad aspettare. Osservando il profilo del suo viso noto il disegno del suo orecchio: perfetto. Scende alla fermata del casinò e mentre la guardo allontanarsi so che non la rivedrò mai più, nella sensazione di questa sera. Proseguo verso piazza San Marco. Mi siedo al caffè Florian ordino da bere. Prendo il taccuino che ho in tasca e rileggo quella frase: la partita a due nel quadro che c’è che non c’è.

Cammino per piazza San Marco, il cielo è terso e pieno di stelle e mi viene in mente che a palazzo Grassi sono esposti dei quadri di Van Gogh - la partita a due nel quadro che c’è che non c’è. E penso al titolo di un suo quadro: Notte Stellata.

La mattina sono a palazzo Grassi, cerco i Van Gogh, Notte Stellata non c’è, ma davanti a un suo dipinto c’è una donna che ha sulla maglia disegnato proprio quel quadro, con sotto scritto: MOMA - New York. Cammina osservando attentamente le opere esposte, non molto lontane, delle persone commentano i quadri che lei sta guardando, ma sembrano più interessate a lei. Vedo entrare nella sala la persona che mi ha dato il floppi – dirigersi verso la donna, consegnarle un dischetto dicendo ch’è l’articolo della mostra, restano a parlare un po’, poi lei se ne va. La donna rimane ancora qualche minuto. Uscita da palazzo Grassi la seguo, aspettando il momento per avvicinarla: [devo avere il suo dischetto, voglio sapere che c’è dentro.] Le sono vicino tra la folla che pigia sul ponte di Rialto, e la fortuna mi viene in aiuto, la donna viene urtata, la sua borsa cade a terra e il contenuto si sparge sui gradini – vedo il dischetto – prendo dalla tasca il mio – e mentre lei ascolta le scuse di chi l’ha urtata raccolgo il suo dischetto e lo sostituisco con il mio e mi allontano rapidamente. Mentre torno a casa, cerco di capire se sono seguito, ma non me ne preoccupo troppo.

Accendo il computer, inserisco il dischetto, lo apro: la partita a due nel quadro che c’è che non c’è. La stessa frase.

 

Navigo per gli ultimi istanti sul vaporetto che mi porta alla ferrovia, penso a Venezia chiedendogli un ultimo sguardo, un’ultima emozione. Mi volto lei è lì, una donna bella dagli immensi occhi azzurri. Mi guarda tra la curiosità e la sorpresa, e capisco che il mio viso non mente, che è chiaro quello che vuole, che chiede; che l’impossibile accada ora che tutto il mondo, qui, in questo posto ha dimenticato la sua morte. Scendo dal vaporetto la donna mi precede, si volta, mi guarda. Mi fermo davanti la cassetta della posta, vi appoggio sopra il dischetto. Entro nella stazione, giro alla mia sinistra, il  deposito bagagli è dall’altra parte. Torno indietro e vedo la donna appena incontrata, guardare e sorridere verso me. La situazione è ambigua. Si volta e va verso lo sportello del deposito bagagli, la raggiungo le sono vicino, la guardo mentre ritira la valigia, aspetto che faccia qualcosa, che mi faccia capire se c’è un perché che mi riguarda in quel ch’è appena accaduto, non accade nulla e se ne va. La seguo con lo sguardo, ma quando esco dal deposito bagagli non la vedo più.

Sono in treno, ripenso a lei, la ricordo, in un palazzo di Venezia, all’inaugurazione di una mostra.

…Avrei rivisto questa donna altre volte nella città in cui vivo, ma come quel giorno sempre per brevi momenti e non ho mai capito se volesse qualcosa da me.

Si chiama Laura e non è della mia città.

 


La Conversazione

 

…Hai confuso, soggiogato la mente di quasi tutti, eppure avevi detto che avevi bisogno del suo amore. Non sai rinunciare alla tua debolezza. Hai provato in tutti i modi a farmi perdere… ma non ti è riuscito di farmi impazzire. E ancora una volta non hai rinunciato alla tua debolezza. Hai confuso la mente i sensi, il ragionamento di non so quante persone, le hai ingannate e messe contro di me, contro se stesse, hai giocato con la loro vanità e con la loro paura di scoprire, accettare la verità. Ma a cosa ti ha portato questo, a niente, prima o poi si accorgeranno di essere state ingannate e mi auguro per loro che scoprano da chi e che sappiano rinunciare a te. Alcuni purtroppo sono persi per sempre…

 


La Partita di tennis

 

Prima di entrare lo aveva visto davanti all’ingresso dello stadio. Ora mentre sul campo da tennis palleggiava con la sua avversaria, guardava sulle tribune tra la folla, per vedere se ci fosse, dove fosse. Tra quelle quindicimila persone che affollavano le tribune riuscì a vederlo, era seduto a metà della tribuna laterale, con un berretto in testa per ripararsi dal sole. Lei ricordava che lui non amava portare occhiali e sapeva che anche quel cappello era qualcosa di cui non era mai andato matto.

Quando iniziò la partita lei serviva e mentre alzava il braccio per coordinarsi e colpire la palla di battuta guardò verso di lui, voleva sapere se la stava guardando, ma proprio in quel momento colpito da un riflesso del sole, lui era stato costretto a voltare lo sguardo – lei colpì la palla che finì sulla rete. Giocò la seconda sul campo e mentre rispondeva ai colpi della sua avversaria si chiedeva se lui la stesse guardando. Quelle quindicimila persone sedute sulle tribune si muovevano tutte allo stesso modo dietro quella palla che andava da una parte all’altra del campo, ma lei non si accorgeva di questo, l’unica cosa che pensava era se lui la stesse guardando. Ad un certo punto pensò – adesso struscio il piede sulla riga, così lui mi vedrà. Andò vicino alla riga di fondo e prima della battuta pulì con la scarpa la riga che aveva davanti, guardò nella sua direzione e questa volta vide che la stava guardando. Ha capito pensò lei, adesso ha capito. Ripeté quel gesto ogni volta che era sulla linea di fondo, poi incominciò ad andare vicino ad ogni riga del campo e vi strusciava sopra il piede. Quando tornava verso il fondo si spostava una volta a destra, una volta a sinistra o su la riga di centro e ci strusciava sopra il piede, pensando, adesso lui mi guarda. Dopo ogni punto vinto o perso c’era l’ovazione del pubblico, ma lei ormai pensava che quelle ovazioni erano per lei che strusciava il piede sulla riga e riusciva, farsi guardare da lui.

La partita era terminata, lei era sotto la doccia e all’improvviso sentì dentro di sé una profonda solitudine, tutto lo stupore, quella sensazione che aveva provato sul campo, quando sapeva che lui la guardava, ora si era trasformata in angoscia, pensò a quello che aveva fatto, ch’era stata vista da tutti, per un attimo fu terrorizzata al pensiero che tutti si fossero accorti di quel che lei aveva pensato, lasciò che l’acqua della doccia le scorresse sul corpo, che quella solitudine le penetrasse in profondità e ripensò a quel che era accaduto. Si disse che per un attimo aveva lasciato che le sue speranze trovassero spazio nella realtà attraverso un mondo fantastico, che le indicava la strada, una strada che doveva riuscire a vivere ora, che sotto la doccia ne avvertiva la vera realtà. Aveva solo pulito con la scarpa la riga del campo da tennis, qua e là e nessuno aveva visto niente altro che questo e men che meno lui aveva capito quello che pensava e che lei immaginava lui stesse pensando.

Quella sera lei le telefonò, ci parlò, cercò di capire se era con lui che voleva vivere il suo amore e gli chiese se lui la desiderasse.

 


La storia incrociata

 

C’è stato un momento in cui alcuni avvenimenti apparentemente non legati gli uni agli altri hanno profondamente segnato la storia del mondo. In un’epoca non molto lontana, prima della grande catastrofe, un gruppo di ballerini d’avanguardia creò la danza robotica, un modo per esprimere libertà nella propria ricerca artistica. Un fisiologo scoprì e incominciò le sue ricerche sui riflessi condizionati dei muscoli del corpo umano. Una cosiddetta setta incominciò a sviluppare un modo per vivere in perfetta armonia con la natura e incominciò a praticare una danza che si sincronizzasse con i movimenti della natura.

In seguito la danza robotica si trasformò nei movimenti sincronizzati delle parate militari. La scoperta di quel fisiologo fu usata dalla psicologia e nacque il comportamentismo con la sua dubbia scienza nella ricerca di scoprire e provocare i riflessi condizionati della psiche di un essere umano. Quel fisiologo prese le distanze da chi propugnava questa eventualità. Quella setta fu seguita, da chi sarebbe diventato l’artefice della propaganda del suo dittatore, con il quale si suicido insieme con tutta la sua famiglia alla fine della sua storia. Il fondatore di quella setta fu ucciso e la setta dispersa prima che tutto accadde.

Il mondo dopo questi avvenimenti cedette il suo tempo al culto dell’onnipotenza e le dittature dominarono e sconquassarono il mondo. Quell’uomo della propaganda e il suo dittatore applicarono i principi delle danze di quella setta. Fecero svolgere a tutto il popolo immense adunate collettive dove con comandi esaltanti, le folle eseguivano movimenti sincronizzati, questo per far sì che crescesse nell’individuo, il culto di appartenere a un popolo una razza al disopra della propria individualità. Quella gestualità ripetuta all’unisono in tutta una nazione, quei gesti che identificavano l’appartenenza corporale psichica, ripetuti ovunque stimolavano l’esaltazione collettiva, annullavano la possibilità che l’individuo sentisse il proprio destino al di fuori di un progetto superiore, che gli garantiva la fuga dall’angoscia di una morte individuale. Il dittatore assurgeva a nuovo dio, un dio che garantiva l’immortalità, lì ora, su quella terra. I sistemi d’educazione erano basati sull’esaltazione della propria identità di razza genetica a cui un nemico comune attraverso il suo stesso esistere inficiava la sua purezza, la sua possibilità di eternità; l’istigazione continuava con ogni mezzo di propaganda, fino alla spinta assassina, all’esaltazione dell’eliminazione fisica del male identificato. I risultati metodologici, applicati del comportamentismo così facevano la loro comparsa nella storia. Poi accaddero guerre e distruzioni, ma questa dicono sia un’altra storia. 

 

 


Possessione.

 

C’è sempre una strategia, la più elementare semplice è quella di affermare una cosa per dargli un senso e subito dopo l’apparente comprensione, di colui soggetto alla strategia, si dice che la qual cosa ha un altro senso. In fondo le strategie del diavolo non sono molto diverse da quelle con coi l’uomo applica la menzogna, l’inganno, l’omicidio, ma l’uomo nella sua vanagloria pensa di essere l’artefice dei suoi malefici, in realtà ne è esso stesso vittima inconsapevole – Il diavolo sa perfettamente lo scopo della sua strategia, sa qual è in fine ultimo del suo agire, la sua dannazione è così perfetta da poter risultare affascinante per chi è ossessionato dal potere, la sua profonda forza sta nella sua totale adesione alla scelta del male come antitesi del bene, tanto da non poter più scegliere: il potere di non poter rinunciare al potere. Per il diavolo la rinuncia a questo potere equivale al disconoscimento della sua esistenza, alla possibilità di affermare la sua totale antitesi alla possibilità del bene, il suo sentirsi dio. Paradossalmente è soltanto per questo che nella sua strategia sembra esserci qualcosa che assomiglia all’umiltà, ma ch’è il nutrimento stesso della menzogna – per il diavolo non è importante che si sappia della sua esistenza, per il diavolo non è importante che l’uomo sappia chi è il suggeritore del male, per il diavolo è importante, anzi, che l’uomo non creda nel male, che l’uomo non pensi mai di fare del male, che i mali dell’uomo siano imputabili a Dio. Per il diavolo l’importante è che Dio sappia tutto ciò, è che Dio si senta provocato per questo, l’intendo ultimo del diavolo è che Dio rinunci alla possibilità di rinunciare al suo potere e usi il suo potere, forse, per far sì che l’uomo vinca il male, non con la scelta della rinuncia al potere del diavolo, ma obbligando l’uomo a scegliere il bene, che assoggetti l’uomo alla schiavitù, che perda la sua libertà, forse è così che il diavolo spera che Dio diventi come lui e aderisca all’antitesi del bene, annientando per sempre il bene e diventare l’unico dio. L’uomo porta dentro di sé tutto questo ed è l’embrione dell’intera esistenza, è partecipe in pieno di una partita, che per quanto il più delle volte sembri combattuta da moltitudini di genti in realtà è sempre una partita a due, una partita che si svolge all’interno del suo animo tra il bene e il male.

Tra le strategie del potere del diavolo c’è quello stratagemma della possessione che si manifesta attraverso fenomeni che rientrano nella specificità di un individuo. Per quanto siano labili i confini per una chiara identificazione di questo fenomeno, non bisogna neanche aspettarsi cose tanto incredibili, per affermare il suo manifestarsi. Il diavolo adopera le cose che trova e che sono conosciute da chi le adopera, si serve di quel che uno sa e crede di sapere. Adopera le stesse cose della natura che usa Dio, ma la differenza è proprio la sua antitesi al bene, il suo fine è diametralmente opposto a quello di Dio, il suo senso ultimo è riuscire ad utilizzare queste cose con l’inganno per far sì che possano acquistare un significato diverso da quello reale, per far sì che le convinzioni del bene si assoggettino al significato del male, che generino odio per ciò ch’è creato da Dio. Una delle ultime istanze del diavolo, quando non riesce con l’adulazione del potere a conquistare la coscienza dell’uomo è quella di fare in modo che l’uomo lo odii, che nasca nell’uomo un odio profondo per lui, ma l’odio è l’alimento del suo male, e proprio con l’odio può tornare a dare il suo senso alle cose dell’uomo. Forse negli inscrutabili confini di Dio c’è l’atto d’amore più estremo per far sì che l’antitesi al bene ritrovi se stesso.

 


La pazza e i suoi discepoli

 

La storia che vi narrerò appartiene a quei casi in cui la stupidità, l’estrema vanità e la stupidità più stupida di qualsiasi idiozia umana rendono coloro che la praticano più ciechi della loro follia.

Dopo che iniziò tutto e che finì come finì, lei iniziò a praticare, attraverso chi era possibile corrompere con il denaro, o in altro modo, la vendetta più bieca e meschina, quella che caratterizza le persone prive di talento se non quello dei capricci dell’invidia. Dapprima pagando poche persone per rendergli la vita impossibile, del tipo che se lui doveva comprare un oggetto, lei faceva andare qualcuno al negozio a comprare quell’articolo e lui era costretto ad aspettare che lo riordinassero o comprarne un altro. Se lui doveva andare a fare una passeggiata, lei faceva in modo che non potesse parcheggiare la macchina dove era più comodo, e tante altre cose di questo tipo. Quando lei si rese conto che tutto questo non bastava per quello che lei sola immaginava. Incominciò a vantarsi che usando questi sistemi poteva far fare a lui tutto quello che lei voleva, in realtà era lei che viveva in funzione di tutto quello che lui faceva e che lui faceva senza pensare affatto a lei. Allora lei ogni volta che lui conosceva una ragazza faceva in modo che non potesse frequentarla, riusciva a fare impazzire queste donne troppo deboli per poter capire. Quelle cose assurde che lei faceva per costringere lui, incominciava a farle anche a queste ragazze che per uno strano gioco associativo che si formava nella loro mente inconsapevole, incominciavano a pensare che la causa dei loro problemi fosse lui. Allora lei svelava a costoro il suo trucco, ma non l’inganno del trucco e costoro finivano per non vedere più il là di quel che loro credevano di saper fare contro di lui. La cosa strana era che nessuno andava da lui a dirgli quel che stava accadendo, lui conosceva l’inganno e il trucco e lo avrebbe detto a chiunque sarebbe stato leale. Ma tutti quelli vittima dell’inganno, come in un incantesimo non accettavano di scoprire che qualcuno, chiunque, sapesse come accadevano queste cose, antiche come la nascita del mondo. Ognuno voleva essere il più bravo e con questa vanità finivano nell’inganno, senza accorgersi che tutto quello che loro credevano essere un loro artificio, accadeva naturalmente in ogni momento della vita, e che ogni sua riduzione non era che un insulto alla bellezza della verità. Non si sapeva chi avesse fatto impazzire chi. Allora lei incominciò a dire in giro che lui sapeva quello che sapeva lei. Che lo faceva apposta a far finta di non sapere. Che era stato lui a diffondere quello che lei sapeva, prima di tutti, per ingannare tutti. Ma lei in realtà non sapeva quante cose sapesse lui. E lui incominciò ad avere intorno un mare di gente sconosciuta che si comportava in modo volgare, al solo scopo d’infastidirlo e aumentare la calunnia. Tutti quelli che erano impazziti a causa di lei, ma soprattutto per aver creduto alla propria vanità volevano in tutti i modi dimostrare che non era vero quello che avevano pensato e fatto, ma che era stato lui a pensare quelle cose. Naturalmente lui non sapeva cosa loro avessero pensato e quello che aveva immaginato vedendo quei sconosciuti nei loro strani comportamenti lo aveva tenuto per sé. Ma lei nella sua confusione aveva detto a ognuno di tutti e tutti avevano finito per dire tutto di tutti e l’unico che non aveva detto niente di nessuno e il più calunniato era stato lui. Lui pensò se cercano una colpa che la colpa ricada sui colpevoli. In questa storia che ha avuto mille altri modi assurdi di esistere, e ha coinvolto proprio tutti, è mancata inesorabilmente la libertà di amare.

Questa è la storia che vi vado a narrare, antica come la legenda di Merlino e Artù e della non più ritrovata Excalibur.

 


Lo sciamano e la spiritualità contemporanea

 

Aspettavo quel respiro così profondo e riflessivo, sentivo che il mondo dei respiri era legato a tutto quello che la mia memoria non poteva ricordare. Lo spazio della mia mente si apriva all’intero spazio del tempo, ma la mia comprensione era contenuta in me stesso e la linea dei miei sogni ne tracciava la terra nella voce del mio canto e il mio udito sentiva la voce del mio spirito.

Il brano che abbiamo appena letto è di un autore anonimo aborigeno e risale a qualche millennio fa. Lo spirituale che vi è in esso è parte integrate della cultura aborigena, la sua comprensione, innata e tramandata da sempre tra gli aborigeni è parte integrante dello Sciamano.

Per lo Sciamano la percezione spirituale è imprescindibile dalle possibilità taumaturgiche che riesce a creare con la persona che cura, la sua percezione di un mondo invisibile, con la sua tangibile presenza nella vita quotidiana permea profondamente le relazioni della comunità, che trova nelle sue cure la possibilità di guarire dai mali spirituali della malattia fisica e vede in questo la possibilità per una totale guarigione. La relazione che avviene tra lo Sciamano e la persona che ricorre alle sue cure - è una dimensione - che mette lo Sciamano nella parte profonda delle sue personali percezioni spirituali, in comunione con il mondo spirituale individuale del malato, e con tutto il mondo spirituale visibile e invisibile.

Nel mondo contemporaneo una dimensione spirituale così profonda è andata in gran parte persa, non è difficile affermare che la contemporaneità così evoluta nell’uso della tecnologia degli oggetti, sia da considerare incivile e profondamente involuta per quello che riguarda le profonde relazioni con il mondo dell’umanità. La pratica di una spiritualità autentica e profonda e coinvolgente della varietà della vita, forse è riscontrabile solo nel succo di alcuni ordini all’interno delle religioni, o in alcuni individui solitari che hanno saputo far sì che la ricerca della libertà non si spegnesse nei parametri di una società, che senza spiritualità, ha trasformato Dio in un oggetto.

Per quanto riguarda la pratica medica, forse l’unico pensiero che ha cercato di tener vivo lo sciamanesimo con la sua spiritualità è stato quello di Jung, ché in parte ha avuto la capacità esplicita di superare il riduzionismo scientifico, come espressione estrapolante di una parte dal tutto, per ridare armonia alla cura e comprensione della psiche umana ch’è parte integrante del tutto; nel suo invito c’è la considerazione a superare lo sciamanesimo con una maturazione spirituale ulteriore, giacché con esso la società contemporanea ch’è in una dimensione di debolezza spirituale, finisce per trovarsi intrappolata nelle percezioni suggestive della sua cultura, è ciò che lui nella pratica psicoanalitica ha definito fase mana. Va dato merito a Jung che nel suo sforzo di comunicare e rendere utile la sua esperienza, forse inconsapevolmente, ha chiuso il momento storico in cui le scienze della psiche sono servite più come strumento strutturante per il medico, rappresentante di un ruolo sociale, che per il paziente.


Aforisma

 

Lo psc… è colui che pretende di capirti e per questo vuole essere pagato.


L’involuzione della specie

 

?]…Quando si perdono le matrici della memoria diventa difficile comprendere l’esperienza – alcuni giorni fa leggevo su una rivista scientifica ch’è diventata ormai pratica comune - non solo tra gli addetti ai lavori - considerare la reazione ad un riflesso condizionato, comune tra due persone, come espressione di potere sciamanico, ma la cosa ancora più incredibile è che un gran numero d’individui, non fanno altro, attraverso gesti o movimenti di indurre altri a dei riflessi condizionati, per sentirsi non si sa bene che cosa, forse degli sciamani. Chissà forse un giorno torneranno a comunicare solo con i gesti, come le scimmie antropomorfe, o approfondendo il loro studio diventeranno dei grandi imitatori per gli spettacoli di varietà, chissà se hanno osservato che naturalmente mentre loro camminano ci sono altre persone che camminano come loro e che sicuramente in un’altra parte del mondo molto lontana da loro altre persone stanno facendo la stessa identica cosa, e che tutto questo come molte altre cose è del tutto naturale, senza bisogno di coercizioni e stupri scientifici per ridurre e riprodurre ciò che già avviene in natura…[?

 


Rimandi Hasserliani

 

Digitava sulla tastiera le prime parole che gli venivano in mente, era un uomo che aveva letto molti libri e quello che stava scrivendo, mentre guardava le lettere che si formavano davanti i suoi occhi sullo schermo del computer, gli ricordava il suo primo libro, la frase con cui aveva iniziato a parlare leggendo quel libro, forse, era simile al suono composto delle voci che ascoltava quando ancora era dentro il ventre materno. La madre era una musicista e il suo autore preferito era Mozart.

Mi raccontava che quando ero dentro di lei e sentiva che la scalciavo, metteva su, un disco di Mozart, si sedeva sulla veranda e guardava in alto verso il cielo azzurro e mi parlava della Germania, dei suoi ricordi di bambina, di sua madre e della madre di sua madre, la mia bisnonna. La nonna di mia madre aveva sposato mia nonno che era venuto in Germania dalla Russia, nell’anno in cui Rossini aveva composto Il barbiere di Siviglia. L’aveva sposata dopo appena un mese che la conosceva e per tutto il tempo che avevano vissuto senza sapere niente l’uno dell’altra, entrambi avevano amato la musica di Bach sopra ogni altra cosa. Il giorno stesso delle nozze partirono per un lungo viaggio in Italia e in una albergo di Roma fui concepito io. Dopo nove mesi mia madre e mio padre arano ancora a Roma, l’Italia li aveva conquistati ed è per questo che io oggi vi scrivo da una casa romana, in Trastevere, ascoltando le Nozze di Figaro di Mozart…

Se volete scrivere un Best Sellers la tecnica dei rimandi Hasserliani è la più efficace, ogni possibile associazione, dalla più vicina alla più lontana vi dà la possibilità di generare ogni genere letterario, ciò semplicemente rendendo più o meno astratti i rimandi, avvicinando più o meno il senso di una parola ad un’altra, più allontanate tale associazione più il ritmo e l’espressione genereranno nel lettore il suo tempo riflessivo, il senso di compenetrazione nelle storie raccontate nel libro. Le possibilità di una letteratura legata all’uso dei rimandi Hasserliani sono illimitate, le possibilità d’invenzione si accrescono e amplificano enormemente e se si possiedono le capacità peculiari per dominare la struttura e in esse, naturalmente le ulteriori conoscenze umane, si può anche fare a meno di pensare ad un best sellers e preoccuparsi di più di scrivere un capolavoro. Dato che con i rimandi da ogni parola possiamo giungere all’elaborazione di tutti i concetti possibili, la poesia moderna in essi ha la sua inevitabile capacità di realtà, amplificando e in certo qual modo superando i vecchi stilemi poetici; giacché la poesia in ogni periodo di crisi della sua identità, rimette gli abiti del passato, con tutto quello che questo significa per la sua libera modernità e per la dignità stessa della modernità del suo passato.

Sarebbe bene non andare oltre ponendo riduzioni non equilibrate al senso di un’autentica e costruttiva libertà ai rimandi Hsserlinai, o peggio applicando tramite essi sistemi coercitivi. C’è una riduzione di essi nel sistema associativo di Freud, per fortuna c’è una possibilità amplificativa costruttiva in Jung. E non dimenticherei quello che può essere fatto con essi per la persuasione, con mezzi come la pubblicità. Ci possono essere anche patologie o meccanismi d’illusione, in tal proposito ho letto da qualche parte, non ricordo bene dove, molto probabilmente una rivista scientifica, un esempio che faceva pressappoco così:

Se A deve andare da C vedendo nel tragitto B – quando A dirà a C che ha visto B e quando B dirà a A o a C che a visto A e C o C e A, per una pazza idea legata al subliminale chi sarà indotto ad andare tra A, B e C a trovare l’un l’altro, quando in conclusione A, B e C si conoscono o vedono o… l’un l’altro. Lascio a voi la scoperta della soluzione e l’elaborazione infinità di quel che vi ho appena detto.

 


Jung, brevi accenni

 

Parlare di Jung non è stato mai molto semplice, perché le sue argomentazioni si aprono a mille ipotetiche interpretazioni. Purtroppo l’ossessione della scienza classica, con la logica di un riproducibile stereotipato, porta la pratica Junghiana lontana dai sui propositi conoscitivi. Non è un caso assistere a sue interpretazioni e spesso, da chi ha avuto una formazione nella scuola di massa, del tutto forvianti e riduttive. Nelle possibilità della pratica Junghiana c’è l’innegabile libertà di accettare come unica ogni eventuale storia tra l’analista e il paziente, come una sorta di esperienza che porta ad un paritetico accrescimento. In Jung il superamento della logica scientifica intesa come parte invariante riproducibile nel tutto, si apre alle possibilità esplicative dell’esperienza peculiare e unica del tempo e dello spazio unico di ogni individuo, che si ritrova attraversato dalla storia dell’intera umanità con tutto il suo percorso esplicativo, con tutte le fasi che lo hanno formato e che l’individuo formerà in seguito. L’individuazione di se stessi nello spazio e nel tempo pone l’esigenza nell’individuo di attraversare la logica per rimetterla in ordine con il globale sviluppo della natura, intesa non solo come tutto lo spazio materiale, ma bensì amplificata e completata da tutto lo spazio spirituale, la storia non è più parte inespressa di un tempo frammentato e privo di reali collegamenti, ma acquista le possibilità di un’esperienza che ritrova tutto il suo percorso, le reali possibilità del presente dell’individuo. La percezione di ciò porta l’inevitabile conseguenza di porsi in confronto con fenomeni che pongono la conoscenza umana al limite delle possibilità esplicative, acquisite attraverso un razionalismo scientifico, che ha fatto della comprensione di se stesso, la spiegazione ultima, privando l’uomo dell’esperienza di un mondo che lo travalica, un mondo ch’è parte integrante del suo spazio pragmatico, quel mondo che fa sì che nell’uomo viva quella dimensione profondamente spirituale, in cui riesce ad espletare tutto il suo potenziale percettivo - la possibilità di capire, di essere parte integrante di un mondo, che comprende anche la possibilità di conoscere ciò che non è possibile sapere - di avere la capacità di accettare la propria più innata natura spirituale, quella contenente il termine ultimo “alla conoscenza e che nel silenzio ne contiene le possibili forvianti spiegazioni. In questa sorta di innata saggezza l’essere umano, nella conoscenza che ne deriva, trova la forza di porsi dinanzi al limite della conoscenza: Io so di non Sapere, con l’accettazione spirituale e contenitiva, in armonica pragmatica - esperienza con il “silenzio” delle risposte.

 

e-mail trovata sul Newsgroup it.scienza.psicologia

Caro Jung 1997

"Quando si riesce a sentire il Sé come un irrazionale, come un ente indefinibile, al quale L'IO non è né contrapposto né sottoposto ma pertinente, e intorno al quale esso ruota come la Terra intorno al Sole, allora lo scopo dell'individuazione è raggiunto. Quando si riesce a
"sentire", dico, perché così definisco il carattere percettivo tra L'IO e il Sé. In questa relazione non c'è nulla di conoscibile, perché noi non possiamo dir nulla circa i contenuti del Sé. L'IO è l'unico contenuto del Sé che conosciamo. L'IO individuato si sente oggetto di un soggetto ignoto e superiore. A me pare che la constatazione psicologica giunga qui al suo termine estremo, perché l'idea di un Sé è già essa un postulato
trascendentale, che si può giustificare psicologicamente, ma non dimostrare scientificamente. Il superamento della scienza è un'esigenza imprescindibile dell'evoluzione psicologica qui descritta, perché senza questo postulato io
non saprei formulare adeguatamente i processi psichici rilevati empiricamente. Al Sé, dunque, bisogna dare almeno il valore di un'ipotesi, come quella della struttura dell'atomo. E quand'anche dovessimo restare anche qui chiusi in un'immagine, sarebbe un'immagine potentemente viva, a interpretare la quale le mie forze non bastano. Io non dubito che sia un'immagine; ma è un'immagine in cui siamo ancora contenuti." Sono perfettamente conscio che in questo libro ho posto esigenze tutt'altro che consuete all'intelligenza del mio lettore. Ho fatto il possibile per spianare la via della comprensione, ma non ho potuto eliminare la maggiore
difficoltà, cioè il fatto che le esperienze su cui si fonda la mia esposizione sono ai più ignote e perciò estranee. Per conseguenza non posso attendere che i miei lettori accettino tutte le mie conclusioni.
(da L'IO e L'Inconscio di Carl Gustav Jung)

Nella crisi di identità in cui sono la maggior parte degli "addetti alla mente", dovrebbe bastare la reale comprensione di questo brano di Jung per riportare ognuno di loro nella reale dimensione; ma appunto la sua non reale comprensione fa si che ognuno interpreti se stesso e purtroppo Jung a suo piacimento. Confondendo le crisi d'identità di una categoria, con il "ruolo" di addetto alla mente che si è scelto per professione, strutturandolo a tal punto, per pratica economica, e in alcuni casi, spero
rari, per giustificare le proprie patologie terapeutiche. Tutto ciò contribuisce a sviluppare la pratica dell'uso della "pasticca" salva tutto. In questo modo non si fa che indebolire quella che è la reale "integrazione" dei processi psichici, attraverso la vera comprensione dell'esperienza sintomatologica. Ma mi chiedo se comparisse uno Junghiano ci sarebbe veramente qualcuno in grado di riconoscerlo? Forse solo quella persona - che ancora nella pratica degli addetti alla mente viene definita paziente - che troverebbe in quest'essere umano la vera condivisione di un vissuto psichico elaborato. Penso che sia ora di superare il concetto di ruolo negli adatti alla mente, il concetto stesso della retribuzione economica come scambio compensativo tra due esseri umani che scelgono di parlare insieme.

Qualche giorno fa ho ritrovato tra le mie cose un inserto che il quotidiano La Repubblica pubblicava alcuni anni fa: si chiamava "Mercurio"; c'era un articolo intitolato: "Jung, l'altro Freud"; in un brano dell'articolo ho letto: Il principale dissacratore delle tesi più ardite di Jung è Mario
Trevi, specialista tra i più autorevoli, direttore della prestigiosa rivista "Metaxù". "Un certo neojunghismo italiano prescinde totalmente dalla teoria degli archetipi, giudicandola infondata", spiega Trevi. "Non è scientificamente accettabile che l'uomo, animale scacciato dalla natura e privato dei suoi istinti, possa essere governato dagli archetipi, da queste immagini originarie dell'inconscio espresse principalmente nei miti e nelle
fiabe... Il processo d'individuazione è invece ciò che è davvero vivo in Jung. Implica il rifiuto a lasciarsi assorbire nelle forme collettive della cultura". Non so se quello che riporta l'articolo sia il reale pensiero di Trevi, sicuramente in base a quello che vi viene espresso non vi è un vero
vissuto psichico dell'esperienza dell'archetipo e del suo sviluppo empirico. Se è giusto, in parte, quello che vi si esprime riguardo al processo d'individuazione, tale processo diventa vano, proprio perché non tiene conto che nel reale sviluppo per l'acquisizione e integrazione del
materiale psichico per il processo d'individuazione junghiano, l'esperienza psichica dell'archetipo è ineludibile. L'INDIVIDUAZIONE si compie proprio
perché è fatta da momenti d'integrazione del materiale psichico che fanno si diventi PROCESSO D'INDIVIDUAZIONE. Naturalmente non contesto la tesi
concettuale di dissentire sugli archetipi, ma l'abuso d'interpretazione che viene fatto dell'esperienza, ribadisco esperienza di Jung.

Cercando di essere semplice e forse purtroppo semplicistico, cercherò di fare un piccolo esempio esplicativo. Immaginate che in questo momento io
stia guardando fuori dalla finestra, mi accorgo che è iniziato a piovere, la mia bicicletta è fuori e si sta bagnando, ma io sono seduto, qui, davanti al computer e non la vedo, ma la posso immaginare; questa immagine
può spingermi ad andare fuori e metterla in garage o restare qui e lasciare che si bagni. L'immagine della bicicletta che si bagna ha generato in me dell'energia psichica, che si sviluppa in un'azione empirica "consapevole".
Ora saltando vari passaggi, pensiamo al formarsi di un'immagine tanto profonda dentro noi da non saperne distinguere con chiarezza la forma, ma di cui avvertiamo forte l'energia; quest'energia inevitabilmente genera in
noi un'esperienza psichica, che si trasforma in un'azione empirica per la comprensione nostra e di questa immagine. In questo processo dell'energia archetipo c'è la matrice originale di ogni azione. In realtà penso che tutto ciò che Jung ha scritto sia stato in parte il tentativo di condividere la sua esperienza con gli altri, anche per superare il problema dell'incondivisibilità che nasce dal vivere tale esperienza; ma l'unica possibilità che ha avuto è stata quella di comunicare attraverso i "segni"; è come se lui avesse scoperto e avuto esperienza dell'automobile della nostra era, in un'epoca in cui non esisteva neanche la carrozza. Ora con un po' di fantasia immaginiamo che l'automobile sia il simbolo e che i segni, le parole usate da Jung per spiegare ai suoi contemporanei, non solo come è
fatta un'automobile, (il simbolo), ma soprattutto qual è l'esperienza di guidare un'automobile. Se Jung avesse usato i simboli: automobile o motore a scoppio, essi sarebbero stati incomprensibili, perciò Jung avrebbe detto
con i segni, che esiste una cosa che funziona come un cavallo e fatta di ferro. Dico questo perché penso che la letteratura di Jung sia un modo per mediare la sua esperienza e comunicarla ad altri livelli di conoscenza.
(chissà se voler spiegare non sia stato un errore) Però è evidente che chi ha esperienza del cavallo può solo avvicinarsi concettualmente al guidare un'automobile, ma non ne fa esperienza se non quando è in grado di guidarla. Perciò dico che non può essere determinante il fatto di non
conoscere, per dimostrare paradossalmente che qualcosa non esiste; questo è un atteggiamento che allontana da ogni possibile vero percorso verso la percezione del Sé, e che purtroppo indirizza verso una pura illusione di
quel che significa percepire il Sé. Nell'augurare buona vita a tutti vi saluto con simpatia.

 

 

                                                      Patrizio Marozzi

 

Patrizio@jth.it 

 

 


Un caso moderno di analfabetismo – un fatto di pura letteratura.

 

[Vorrei dire due parole alla presentazione di quest’opera letteraria, qui nel sito, ma che non saranno nell’edizione del libro. Chi ha letto un altro mio libro: “I racconti tra realtà e leggenda di mister x”, avrà letto quell’ipotesi d’intervista a me, e in aggiunta a quella vorrei semplicemente dire alcune parole di spiegazione. Dal libro il Faust, prima parte dell’opera letteratura sperimentale, è scaturita una lettera che lo riguarda questa lettera è a firma di Mario Trevi, indirizzata a un Suo collega che mi fece da tramite. In sostanza diciamo ce ne fosse bisogno, che ringrazio per la lettura il Dott. Mario Trevi, poi aggiungo per la spiegazione, da quel che si evince dalla sua lettera, che l’ipotesi da lui formulata sul mio caso personale, quale potessi essere autistico è del tutto fuori dalla realtà. Non so per quale strana spiegazione tra lui e il suo collega, il signor Mario Trevi abbia visto nella capacità di scrittura del libro tale ipotesi, che in fondo è nell’arte stessa dello scrivere. Per il resto quella che forse potessi essere un autentico creatore, questa indubbiamente mi si confà meglio. Sia per essenza che per un’aspirazione creativa. Credo che vada detto che il concetto che le mie espressioni potessero superare le capacità di analisi del Signor Trevi, come da lui detto, su ciò non mi pronuncio, anche se credo che nella lettera da lui scritta certe analisi sul testo, non sono pareri privi di competenza personale. Forse la sua attenzione nella lettura l’ha posto in una condizione tutt’altro che approssimativa, e anche la scorrevolezza della rappresentazione scritta è diventata più impegnativa, cosa che può essere diversa per un lettore che aspira principalmente all’aspetto letterario del libro tutt’altro che superficiale. Intervento fuori testo.]

 

 

 

Se pur l’esperienza divulgativa di alcuni psicanalisti ha generato della letteratura, solo in alcuni casi, rari, possiamo parlare di arte, rischiando la loro irritazione o l’esaltazione della loro vanità. Non affermo niente di nuovo dicendo che se l’arte può fare della psicanalisi materia ispiratrice per la propria espressione, trasformando i concetti della psicanalisi in concetti vivi e qualitativamente validi artisticamente – non è lo stesso nel processo inverso. La psicanalisi, ma anche le altre discipline che si occupano dello studio e soluzione dei problemi della psiche, alla fin fine dei loro ragionamenti, riducono l’opera d’arte ad una elaborazione sintomatologica. La più alta aspirazione di queste discipline è quella di trasformare l’opera d’arte nella riduzione delle loro teorie e la ricchezza della vita unica, peculiare dell’artista in una ben strutturata e riconosciuta nei ruoli stereotipati della società di massa, adeguarsi è rinunciare all’aspetto più importante per un creatore, quello di esprimersi e confrontarsi con la realtà della propria creatività. Cito per tutti i casi di Van Gogh, Artaud e quello di Janet Frame, dove una malattia ben più vasta come quella sociale, ha trovato un aiuto nella psichiatria per inibire le facoltà del talento artistico.

Il fatto di cui sono venuto a conoscenza, nella specificità e nella dimensione propria delle persone coinvolte, che come personaggi della storia di un libro racconterò, qui, brevemente, non è niente altro che una storia moderna di analfabetismo e dell’incomprensione che lo ha generato.

La storia potrebbe iniziare dal racconto fattomi da Patrizio Marozzi che a un certo punto della sua vita ha scelto di essere un paziente e di “assistere ad alcune sedute di psicoterapia. Del suo terapeuta rintanato nel suo studio come se fosse una strana fortezza, che gli garantisse la certezza del suo ruolo e delle bizzarrie che da ciò sono derivate.

Ma iniziamo dal fatto che Patrizio Marozzi ha deciso di scrivere un libro, che ha impiegato circa dieci anni per terminarlo e della breve storia dell’incontro di questo libro, con alcuni terapeuti.

Chiediamo a Patrizio Marozzi perché ha scritto questo libro e qual è stata l’idea di partenza.

-          “Ma essenzialmente per fare dell’arte. L’idea di partenza è stata quella di amplificare il concetto che veniva dall’abbozzo della storia iniziale, ma il percorso per realizzarlo è stato lungo.”

Quando ha iniziato a prendere forma la struttura del romanzo?

- “Ma… diciamo che l’intenzione è sempre stata quella di trovare una forma che appartenesse a me stesso e al romanzo in se, voglio dire che era il mio processo creativo che doveva determinare la struttura del romanzo, insieme al senso di quello che scrivevo. L’intendo di una forma letteraria autonoma da qualsiasi canone, era il modo più naturale ed efficace per porre il mio processo creativo in relazione con il progetto artistico che prendeva forma e consistenza.”

Quali sono gli argomenti trattati e cos’è che li ha inspirati?

-          “Gli argomenti sono molteplici, diciamo che forse una delle matrici più forti è quella del processo d’identità e delle possibilità espressive dell’arte, attraverso un dialogo estremo tra l’espressione segnica e la dimensione simbolica. I motivi d’ispirazione di un libro sono molteplici, diciamo che in questo un aspetto significativo è stato la mia esigenza di ricerca psicanalitica e in essa un mio vissuto psichico che ho elaborato artisticamente.”

Un giorno lo psicoterapeuta espresse il desiderio a Patrizio Marozzi di leggere il suo libro, trascorso il tempo… alla richiesta di Patrizio Marozzi di cosa ne pensasse, la risposta del terapeuta fu che era un libro che poteva leggere o Dio o la Madonna.

Per quanto Patrizio Marozzi sapesse che era un’opera per un lettore che sfuggisse ai richiami degli stereotipi e che per certi versi richiedesse un’attenzione particolare – non aveva mai immaginato che fosse così al di sopra delle possibilità umane. Mostrò al terapeuta alcune chiavi di lettura, presenti nell’espressione segnica del testo e gli chiese se vi aveva fatto caso. Non le aveva notate, Patrizio Marozzi capì che il terapeuta non riusciva a decodificare quelle forme letterarie che erano chiave di lettura del libro, strutturate al di fuori dei canoni segnici grammaticali tradizionali, e per questo commise l’errore di pensare che la sua opera avesse bisogno di un’introduzione, prefazione particolare. La sua prefazione parlava semplicemente di un’opera che attraversava trasversalmente le varie espressione del linguaggio scritto, dal saggio, alla poesie alla narrativa, generando una sua propria forma espressiva.

Un giorno Patrizio Marozzi lesse sul quotidiano l’Unità un’intervista allo psicanalista Mario Trevi, che parlava dell’arte e della psicanalisi e pensò che forse sarebbe stata la persona adatta per la prefazione del suo libro. Disse al terapeuta che voleva telefonare o scrivere a Mario Trevi per chiedergli una prefazione, gli chiese se sapeva il suo recapito. Venne fuori che Trevi era stato il maestro del suo maestro e per questo legame finirono per decidere che sarebbe stato il terapeuta a contattare per Patrizio Marozzi Mario Trevi. Passarono dei giorni e alla fine il terapeuta riuscì a parlare con Mario Trevi e tra i suoi mille patemi riuscì a chiedergli se poteva leggere il manoscritto che gli avrebbe mandato Patrizio Marozzi. Il manoscritto fu spedito e insieme ad esso una lettera in cui il terapeuta chiedeva a Mario Trevi un parere letterario su di esso.

Dopo del tempo il dott. Trevi rispose al terapeuta.

 

- Roma 5. 12. 95

 

Gentilissimo Dottore,

scusi se rispondo con tanto ritardo alla sua lettera. Mi è stata proprio ora restituita dalla polizia municipale una borsa rubatami dall’auto, contenete quasi esclusivamente corrispondenza e manoscritti, in cui avevo messo, appena ricevute la sua lettera e quella del suo paziente. Avevo bensì l’indirizzo di quest’ultimo sul frontespizio del suo lavoro ma non volevo scrivere a lui prima di aver scritto a lei.

È molto difficile rispondere adeguatamente alla questione che lei mi pone. Io posso esprimere un giudizio “psicologico” sul manoscritto di Patrizio Marozzi _ e anche questo con estrema prudenza _ ma mai, in alcun caso, un giudizio di valore letterario _ Posso dirle tuttavia che ho avuto l’impressione che l’opera del suo paziente manchi in gran parte della dimensione della comunicazione con un pubblico sia pur potenziale. Non è destituita di valore, tutt’altro, ma è come chiusa nel cerchio di una soggettività che non riesce a stabilire un rapporto con l’altro, con gli altri. D’altra parte molti lavori letterari del nostro tempo sono nati e cresciuti in questa condizione di solitudine (o forse di autismo). Penso, ad esempio, a Campana, prescindendo da ogni confronto,  si intende.

Posso anche dirle il suggerimento prudente che fornisco ai miei pazienti con attitudini (o semplicemente velleità) di carattere letterario: distinguere e separare il materiale grezzo e caotico (per lo più vasto) da ciò che può emergere in seguito da esso ed avere valore di autentica comunicazione. Faccio spesso l’esempio dell’immenso Zibaldone rispetto alle pochissime e brevissime opere di Leopardi giunte a compimento_ C’è sempre, nell’opera letteraria valida, un lavoro di selezione, decantazione, raffinamento che appunto trasforma un [non sono riuscito a tradurre due parole] caotico in forma probabile, accessibile e soprattutto, comunicabile.

Io incoraggio, certamente, la creatività nei pazienti che ne sono capaci ma cerco sempre di trattenerla nella circolazione delle comuni attività psichiche. Scrivere poesie è certamente giusto e probabilmente proficuo ma _ prima di tutto_ al servizio di un’intuizione e di una chiarificazione severamente interiori_  L’altro è presente nello scrivere, certamente, ma si tratta di un “altro” potenziale, non reale. Per giungere a questo altro occorre sottoporsi a una disciplina cui solo pochi possono attingere. In ogni caso lascio che sia il paziente ha scontrarsi con il problema della comunicazione vera e efficace.

Comprendo tuttavia che il caso di Patrizio Marozzi sia del tutto particolare e in un certo senso inconfrontabile. È possibile che noi ci troviamo di fronte ad un autentico creatore, tanto più oggi, nel nostro tempo, in cui una certa incondizionata spontaneità e fors’anche caoticità  possono venir considerate segni distintivi autentici dell’opera d’arte. Ma non posso entrare in questo problema, a causa della povertà dei miei mezzi critici e discriminativi. La lunga lettera che Marozzi ha voluto inviarmi ha senz’altro i caratteri dell’intelligenza ma non sempre quelli dell’intelligibilità. Di più non posso dirle perché, appunto, il problema della creatività di Marozzi supera le mie possibilità discriminatrici.

“La lettera si conclude con un consiglio di prudenza ma l’intera frase non sono riuscito a tradurla.”

Con stima e cordialità. Mario Trevi.

 

Chiedo a Patrizio Marozzi che cosa sia accaduto poi.

- “Niente di particolare, non ho mai ricevuto nessuna lettera. Chiesi al terapeuta se era possibile incontrare il dott. Trevi, mi disse di telefonare a Trevi dopo le feste natalizie, per un appuntamento. Feci così ma ricevetti l’invito a scrivergli. Non sapevo proprio di cosa, mi resi conto parlandoci al telefono che per certi versi avevo sopravalutato il dott. Trevi. Gli inviai una lettera molto tempo dopo, dopo aver letto un suo scritto su un libro di Carlo Maria Martini: la VII cattedra dei non credenti, ma non c’entrava niente con il mio libro, gli accennavo di argomenti legati al mio vissuto psichico e l’ho fatto mandandogli dei frammenti dei miei appunti, in realtà erano spunti per possibili discussioni.”

In certo qual modo hai legato il tuo libro al possibile futuro papa.

“In effetti questa è forse la cosa, di questa situazione che mi lascia più perplesso, la ricerca di questi dispensatori di saggezza.”

E del tuo libro che ne è stato?

“La prefazione me la sono riscritta da solo, e l’ho spedito, dopo una strategica selezione a quelle case editrici, che ho ritenuto avessero una dimensione professionale, che almeno in parte le svincolasse da una valutazione dell’opera al di fuori dell’opera stessa. Di questi tempi forse questa è la più grande utopia. Comunque… La Adelphi mi ha risposto che non li ho convinti. Sellerio carattere editoriale, Feltrinelli pressappoco lo stesso, ma va fatto notare che mi rispedì il dattiloscritto tramite corriere privato. Bollati e Boringhieri… all’arrivo del mio dattiloscritto sopraggiunse la morte di Giulio Bollati. Telefonai in casa editrice dopo circa un anno per avere notizie, ma non si sapeva che fine avesse fatto il mio lavoro, c’erano stati dei cambiamenti improvvisi causa la dipartita del Sig. Bollati e mi dissero che forse ne sapeva qualcosa la segretaria precedente, mi fu detto che mi avrebbero scritto per comunicarmi qualcosa, chiesi di scrivermi anche se era stato macerato. Non ho mai ricevuto nessuna notizia. Ma la risposta più strabiliante l’ho ricevuto dalla Giunti che non posso negare nel Direttore editoriale il Signor Mari ha una naturale gentilezza. La risposta della sezione libri è stata questa:

 

Firenze, 8 Luglio 1996

 

Gentile Patrizio Marozzi

 

Abbiamo esaminato con interesse la Sua proposta di pubblicare Faust… + tre dattiloscritti

In base agli elementi di valutazione che ha voluto inviarci, riteniamo che l’opera in questione non corrisponderebbe alla linea editoriale delle nostre attuali collane di narrativa e pertanto preferiamo non dar seguito alla proposta.

RingraziandoLa per l’attenzione rivolta alla nostra Casa Editrice, le inviamo i nostri migliori saluti.”

In questa lettera si parla del Faust più tre dattiloscritti.

- “In effetti questo lavoro è una tetralogia, Trevi ha letto il primo capitolo il Faust, ma l’ho messo a conoscenza degli altri tre volumi se avesse voluto glieli avrei mandati. Ma io mica so Carlo Maria Martini.”

Ed ora il tuo libro che fine ha fatto?

- “Ho tolto ogni prefazione e lasciato solo l’indicazione che ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale, ho messo insieme tutti e quattro i volumi e l’ho intitolato “Letteratura Sperimentale”. Il problema è trovare una casa editrice, l’ultima contattata è stata Marsiglio, ma mi è stato chiesto di pagare un prezzo ridotto, da loro concordato, l’agenzia letteraria che per loro avrebbe letto il mio lavoro. Per telefono ho detto all’interlocutrice della Marsiglio di dirmi chiaramente che era un rifiuto e dall’altra parte del telefono, con insistenza, mi è stato detto il contrario. Ho chiesto che mi fosse rimandato il manoscritto a mie spese, ma mi è tornato per raccomandata.”

 

Patrizio Marozzi ha scritto altri libri oltre quello di cui abbiamo parlato. Per quando riguarda me e questa storia che vi ho narrato, non posso che riflettere sul fatto che un mondo sempre più alfabetizzato in realtà non ha gli strumenti per capire le peculiarità del lavoro artistico e della crescita letteraria che in esso si forma, come si dice in televisione – l’importante è leggere, qualsiasi cosa ma leggere - io penso che la maggior parte della gente non abbia tempo da perdere e così finirà per smettere di fare una cosa, che in realtà non ha mai incominciato: “leggere quel che ha bisogno di essere letto.” In un certo senso mi sento legato al destino di Patrizio Marozzi, quando avrò finito questo libro anch’io dovrò cercare una casa editrice, ce ne sono veramente tante, migliaia, ma in realtà, certe volte, penso nessuna. Ed anche questo è un gran mistero.

 


Acqua Calda

 

Un giorno, in un lontano futuro un uomo trovò un diario che era appartenuto ad un altro uomo, molti anni prima. In questo diario era narrata la storia del suo risveglio dopo un lungo periodo d’ibernazione…

(Il periodo in cui l’uomo si risvegliò, il mondo era abitato ancora dagli esseri umani, e il governo era stato preso dalle multinazionali dell’alimentazione.

In quell’epoca, ogni persona premendo un pulsante nella propria cucina, poteva ordinare quello che voleva – le cucine non avevano più nulla che servisse alla preparazione o la conservazione dei cibi, ma soltanto tavolo e sedie. Le industrie del cibo, attraverso dei robot, cucinavano le pietanze e le portavano nei domicili delle persone che potevano pagarle. Il mondo era molto tempo che procedeva in questo modo e non c’era più nessuno che sapesse come cucinare quello che mangiava, tranne alcune persone all’interno dell’industria dell’alimentazione. Costoro erano considerati i presidenti del mondo o grandi sacerdoti, perché erano a conoscenza di un segreto che più nessuno in tutto il mondo sapeva neanche immaginare. Ma non tutto andava per il verso giusto, infatti la maggior parte del mondo viveva degli avanzi alimentari, gettati da chi poteva comprarsi il cibo. Ciò era un grave problema per l’economia del mondo, giacché queste persone che mangiavano a sbafo i rifiuti, potevano eludere, se avessero potuto, i lavori che l’industria alimentare riteneva servissero per guadagnare il denaro per comprare cibo. I grandi presidenti per ovviare a questo dissero che chi avesse restituito gli avanzi del proprio pasto, all’industria dell’alimentazione, avrebbe avuto uno sconto sull’acquisto del cibo per animali, naturalmente il cibo per animali, come quello per gli esseri umani, conteneva delle sostanze che creavano dipendenza. Questo era stata voluto e votato a maggioranza dalla popolazione del mondo in un referendum. Aveva vinto con la totalità dei voti, la tesi che era naturale mangiare e per questo era meglio mangiare certi alimenti – che il governo alimentare garantiva essere completi per il bisogno dell’organismo: e che essere schiavi di voglie incontrollate per alimenti che neanche venivano più prodotti fosse dannoso. Così si decise che era meglio che chi non faceva parte del mondo - era questo il modo in cui venivano chiamati tutti quelli, che erano fuori dalle regole del governo alimentare - morisse di fame. Il governo aveva garantito che ben presto quasi tutti quelli fuori dal mondo sarebbero morti per fame, e il numero di quelli che in futuro, sarebbero morti per fame, sarebbe stato del tutto fisiologico. Questo sarebbe servito al mondo, per capire quel che poteva accadere se avesse abbandonavano il governo alimentare.)

…Un giorno in una piccola casa, nascosta in un bosco un uomo dopo molti anni si svegliò dall’ibernazione. La sua casa, grazie ai materiali spazio tempo con cui era stata costruita era intatta e tutto era rimasto come lo aveva lasciato quando si era addormentato. Alzatosi dal letto d’ibernazione e sgranchitosi un po’ gli arti andò in cucina, accese il fornello a induzione molecolare, vi mise sopra la pentola con l’acqua e poi dal frigorifero ad ibernazione e disibernazione istantanea prese un uovo e lo mise nell’acqua che bolliva. Ben presto uscì di casa e andò in giro a vedere cosa era accaduto al mondo e, quando capì cosa era successo parlò dell’acqua calda con alcune persone. Allora i capi del mondo prevedendo cosa stava per accadere, parlarono anche loro dell’acqua calda, dissero alla gente che per aiutarla ad utilizzare bene l’acqua calda per cucinare, avrebbero aperto delle scuole con i migliori professori, che loro stessi avrebbero istruito. Nacquero così scuole e accademie dell’acqua calda, si formarono correnti artistiche dell’acqua calda e l’uovo sodo - riconosciute dal mercato dell’industria alimentare. E ci furono dei super master per i super cervelli dell’acqua calda, ma dopo questo tempo si incominciò a parlare di quell’uomo nella foresta, si disse che non poteva sapere come far bollire l’acqua se nessuno glielo aveva insegnato. Tutto il popolo incominciò a insorgere e si alzarono - fomentate dal governo alimentare - proteste in tutto il mondo, naturalmente tranne dove si moriva di fame. Fu indetto un referendum e a maggioranza assoluta, ma democraticamente come era sempre stato nello stato alimentare, fu deciso di processare l’uomo della foresta per pratiche illegali.

Al processo fu chiesto all’uomo come potesse fare a scaldare l’acqua calda, dato che non poteva conoscere il modo per farlo, perché nessuno glielo aveva insegnato. L’uomo voleva rispondere che forse lo aveva visto fare da altre persone quando era bambino, o che più probabilmente lo aveva imparato da solo riflettendo, ma sapeva che per questo poteva essere condannato per blasfemia nei confronti dei capi del governo alimentare e la condanna per questo reato era la morte per votazione plebiscitaria. Allora disse che non lo sapeva come poteva essere successo, e che non riusciva a capirne neanche lui la ragione. Per questo fu condannato con l’attenuante giacché riconosciuto affetto da sindrome da maleducazione. Gli fu confiscata la cucina e fu obbligato ad alimentarsi richiedendo il cibo tramite il pulsante, cibo che gli fu dato in cambio del lavoro obbligatorio che gli assegnarono, questo per tutto il periodo della rieducazione, che sarebbe durato fin tanto che avesse ricordato come si bolliva l’acqua.

 


Relazione Intima

 

“Ero a Bollingen, proprio quando era stata appunto terminata la prima torre, nell’inverno del 1923-24. Per quanto riesco a ricordare, non c’era neve; deve esser stato al principio della primavera. Ero stato solo forse per una settimana, forse un poco di più. Regnava un silenzio indescrivibile. Mai avevo vissuto tanto intensamente.

Una sera — lo ricordo ancora con precisione — ero seduto presso al camino, e avevo messo un calderone sul fuoco per riscaldare l’acqua per lavarmi. Quando l’acqua cominciò a bollire, la caldaia prese a cantare. Sembrava che fossero molte voci, o degli strumenti a corda, e risuonava come un’intera orchestra. Pareva musica polifonica, che in realtà non posso soffrire, ma in quel momento mi appariva straordinariamente interessante. Era proprio come se ci fosse un’orchestra all’interno della torre e un’altra al di fuori. Ora dominava l’una, ora l’al­tra, come se si rispondessero a vicenda.

Sedevo e ascoltavo affascinato. Per più di un’ora ascoltai il concerto, questa melodia naturale. Era una musica dolce, pur contenendo tutte le disarmonie della natura. Era giusto che fosse così, perché la natura non è sol­tanto armoniosa, ma è anche paurosamente contradditto­ria e caotica. Così era la musica: uno scrosciare di suoni, che avevano la qualità dell’acqua e del vento, così singolari che è impossibile descriverli.”

(Da Ricordi, sogni, riflessioni di C. G. Jung. Traduzione di Guido Russo)

 

Che cosa vuole dire quello ch’è scritto qui sopra – è un’esperienza letteraria, un’esperienza psichica. Molti penseranno che l’autore del testo sia in preda alle allucinazione, qualche scienziato del comportamento per dimostrare ciò farebbe ripetere l’esperienza descritta un’infinità di volte, per far riprovare all’autore la stessa esperienza, con gli stessi effetti, cambierebbe anche pentola e assurdamente per dimostrarne la scientificità, alla fine ripeterebbe la cosa anche con persone diverse, naturalmente il risultato sarebbe di distruggere l’autenticità dell’esperienza, la voglia stessa di ricordarla, una ripetizione artificiale non sarebbe niente altro che una coazione a ripetere, una sovrastruttura patologica che necessita di una nuova elaborazione che non ha nulla a che fare con l’esperienza primaria, ma solo con la compulsività comportamentale dello scienziato del comportamento, una terapia patologica che genera nuova patologia, non c’è niente di più malsano. La psichiatria liquiderebbe tutto con l’espressione di qualche codice che identifica la patologia del paziente.

La cosa più importante, la ricchezza maggiore che l’autore dello scritto ci vuole comunicare è l’importanza della relazione intima che ha dell’esperienza e nell’apparente banalità, assurdità, che può significare per chiunque altro una pentola sul fuoco, la peculiarità dell’esperienza psichica di ognuno. Nel mondo percettivo che si è creato, l’autore del testo sviluppa la capacità di elaborare le sue convinzioni percettive ed emozionali, stabilisce una relazione intima con la profondità della sua immagine archetipo e dall’energia che ne scaturisce, entra in relazione con il suo mondo culturale, stabilendo con esso una relazione dialogica tra le sue convinzioni e le eventuali possibilità dell’esperienza oltre le sue convinzioni, attraverso una partecipazione psichica che investe le sue emozioni, la deduzione dei suoi sensi. L’autore del testo sa benissimo che sta scaldando dell’acqua in una pentola, ma non di meno lascia che la relazione intima che si stabilisce attraverso quell’atto, con il suo mondo psichico trovi un suo sviluppo armonico nella ragion d’essere della qualità della sua vita, nell’espressione stessa del suo progetto originario, nella spiegazione e nei misteri, sapendo, in conclusione come lavarsi con quell’acqua che ha appena scaldato.

Nei suoi scritti Jung ha messo il coraggio di svelarci la sua intimità, e la sua letteratura nella maggior parte non può essere compresa, se non la pensiamo scritta “nella forma originale e nello stile delle relazioni intime di Jung,” la ricchezza maggiore che ne deriva è la nostra capacità di entrare in relazione con questo suo aspetto, con le nostre possibilità di comprensione.

…Non credete al riso degli stolti.

 

 


                                  

 

 

 

                                   Parte II


 

 

1

hghhgs…In tal caso si scoprirebbe che il comitato sarebbe riuscito a guardare se stesso nel più breve tempo possibile, e con il minimo consentito di sguardi, vale a dire x al quadrato meno x di sguardi se i membri del comitato equivalessero a x, e y al quadrato meno y se equivalessero a y. Hguysgggf…muovendosi gradualmente dal basso verso l’alto, fino a giungere alla testa, della quale, come di tutto il resto, disse molte cose, talune buone, talune appena discrete, talune ottime, talune mediocri e talune eccellenti. Hggflagagf…Watt un andirivieni di sequenze e soluzioni ad incastro, di stati di arrivo e di partenza e d’illusioni, la logica di ogni possibile soluzione prive della percezione delle possibili variabili. Un positivista logico come è stato detto, o anche la logica di un comportamento senza senso, o il richiamo di Beckett ad un’epoca senza senso attraverso il senso e il “valore” di Watt. Husiuhj…C’era stata un’epoca in cui gli sarebbero piaciute, con il concetto che suggerivano, che cioè anche il signor Knott era seriale, in una serie vermicolare. Ma ora non più. Perché oramai Watt era una vecchia rosa, del tutto indifferente al giardiniere. Hafytto…La ripetizione finita all’infinito si ripete e non trova una reale soluzione, ma una sorta di dannazione, dove i componenti dell’atto, “le sue persone”, rischiano di perdere ogni possibilità di assoluzione, ogni possibile mediazione. E non si parla di uno stato letterario. Watt chiude così: hfgftfg…Treno udito da Watt nel fossato sulla via della stazione. Il soprano cantava:

 

simboli non ci sono dove non c’è intenzione

 

Parigi 1945

(Il non in grassetto da Watt di Beckett. Traduzione di Gabriele Frasca)

Non c’è più possibilità di scelta, perché gli atti per scegliere hanno sopraffatto la realtà.

2

hdsyaogoaSe sai alcuna cosa, taci. Certo, tacerò, sia pure soltanto per vergogna o per misericordia degli uomini, be’, per rispetto so­ciale. Voglio fermissimamente che il controllo decoroso del ra­ziocinio non abbia ad allentarsi all’ultimo. Ma l’ho veduto, si, veduto finalmente. Era a accanto a me, nella sala; era venuto a farmi visita, inatteso e pur da lungo tempo aspettato; ho parlato con lui a lungo, e solo rimasta mi è la stizza di non saper con certezza di che cosa io tremassi, se per freddo o per paura di lui. Ho forse finto io, ha forse finto lui che fosse fred­do, affinché dovessi tremare e avere certezza ch’Egli era lì, seriamente, come persona a sé? Non è infatti chi non sappia che niuno è sì folle da tremare delle proprie fantasie; queste anzi gli sono gradite, e senza tremore, senza imbarazzo le accetta. O mi prendeva a gabbo facendomi credere con quel freddo cane ch’io non ero pazzo, che Egli non era fantasia, poiché in temen­za e peritanza tremavo davanti a lui? Certo è che Egli è scaltro.

Se sai alcuna cosa, taci. Taccio, cosi, per me. Taccio e scrivo tutto su questi fogli musicali, mentre il mio sodale nell’eremo col quale rider soglio è discosto da me nella sala e si tortura traducendo la cara favella straniera nella propria e odiata. Egli pensa che io stia componendo, e se vedesse che scrivo parole penserebbe che anche Beethoven cosi faceva.

Creatura di dolore, avevo passato tutta la giornata al buio col mio dannato mal di capo e più volte avevo dovuto recere come accade nei gravi attacchi; ma verso sera venne il miglio­ramento inaspettato e quasi improvviso. Potei tenere la mine­stra che la madre mi recò (“Poveretto!”), tracannai un bicchiere di vino rosso (“Beva, beva!”) e fui ad un tratto così di buon umore e cosi sicuro di me che mi concessi persino una siga­retta. Avrei potuto anche uscire, secondo le intese del dì innan­zi. Dario M. voleva introdurci laggiù al Circolo dei cittadini di Preneste altolocati; voleva presentarci e mostrarci la sala, il bi­liardo, la stanza di lettura. Non volendo mortificare quell’ani­ma buona avevamo accettato, ma a uscire fu soltanto Sch., dato che l’attacco era scusa sufficiente per me. Alzatosi da tavola egli se ne andò senza di me con la faccia agra a fianco di Dario, giù per la via verso il convegno dei buoni borghesi e dei bifolchi, e io rimasi solo.

Me ne stetti qui nella sala accanto alle finestre chiuse, presso la mia lampada e mi misi a leggere Kierkegaard dove dice del Don Giovanni di Mozart.

Ed ecco d’un subito colpire mi sento da un gelo tagliente come quando uno se ne sta d’inverno nella stanza calda e all’improvviso una finestra spalancata accoglie il freddo esterno. Ma il gelo non veniva di dietro me, dove sono le finestre; no, mi colpiva in faccia. Alzo gli occhi dal libro, guardo la sala, noto che Sch. dev’essere tornato, perché non sono più solo: c’è qualcuno seduto nella penombra sul divano di crine, che col tavolino e con le sedie sta circa nel mezzo della stanza dove prendiamo la prima colazione. È seduto nell’angolo del divano, con le gambe accavalcate, ma non è Sch. un altro, più piccolo di lui, e non si può dire che sia un vero signore. Il freddo però mi avvolge di continuo.

— Chi è costà? — grido in italiano con la gola un po’ stret­ta, puntando le mani sui braccioli della sedia, in modo che il libro mi scivola dalle ginocchia e cade. Mi risponde la voce calma e lontana dell’altro, una voce che direi di buona scuola, con una gradevole risonanza nasale:

(da Faust di Thomas Mann. Traduzione di Ervinio Pocar)

hgfgggdMEFISTOFELE Presento i miei ossequi all’illustre professore! Però mi avete fatto sudare un bel po’.

 

FAUST Come ti chiami?

 

MEFISTOFELE La domanda mi pare meschina per uno che ha in tanto dispregio la Parola, e, remoto a ogni apparenza, vive solo nel profondo delle entità.

 

FAUST Presso i tuoi pari, signor mio, il nome dice anche l’es­senza, sia che vi si  chiami Belzebù, Abaddona, Diavolo. Dunque tu chi sei?

 

MEFISTOFELE Una parte di quella forza che vuole costantemen­te il Male e opera costantemente il Bene.

 

FAUST Che significa questo indovinello?

 

MEFISTOFELE Io sono lo Spirito che sempre nega. Ed a ragione; perché tutto ciò che nasce merita di perire; perciò meglio sa­rebbe che niente nascesse. Quindi tutto ciò che voi chiamate peccato, distruzione, e, insomma, Male, è il mio vero ele­mento.

 

FAUST Ti dici una parte; ma davanti a me vedo un tutto.

 

MEFISTOFELE Più modesta la verità ch’io ti dico. L’uomo, que­sto microcosmo, si considera un tutto. Ma io non sono che una parte della parte che in origine era un tutto, una parte della tenebra che generò la luce, la superba luce, che ora al­la Madre Notte contende il primato e lo spazio; ma non le riesce, ché, per quanto si affanni, essa è prigioniera dei corpi cui aderisce. Fluisce dai corpi, i corpi fa belli, ogni corpo ne intercetta il passaggio. Perciò, e spero non tarderà molto, as­sieme ai corpi andrà alla malora anche lei.

 

FAUST Capisco adesso la degna tua funzione! Non riesci a di­struggere in grande e ti adoperi a distruggere in piccolo.

 

MEFISTOFELE E certo così si fa poca strada. Ciò che si contrap­pone al Nulla, il Qualcosa, questo mondo massiccio, per quanto io abbia fatto non son riuscito a incrinarlo: inonda­zioni, nubifragi, terremoti, incendi; alla fine mare e terra ec­coli di nuovo tranquilli come prima. Meno che mai, poi, c’è da pensare a distruggere la maledetta genia degli animali e de­gli uomini. Quanti ne ho già sotterrati! E sempre un nuovo fresco sangue torna a circolare. E si va avanti cosi; ci sarebbe da impazzire! È un perpetuo multiforme germinare, nell’aria e nell’acqua e nella terra, coll’umido e col secco, col caldo e col freddo! Se a me non avessi riservato il fuoco, davvero che non ci avrei più neanche una mia specialità!

 

FAUST Dunque all’energia che perpetuamente risana e crea tu opponi il tuo freddo pugno diabolico, che invano si stringe subdolo e minaccioso! Suvvia, cerca di far qualcos’altro, strano figlio del Caos!

 

MEFISTOFELE Ebbene, ci penseremo; ne parleremo la prossima volta…

(Faust di Goethe. Traduzione di Barbara Allason)

hgfgfgsfdaUcciditi ucciditi puoi superare tutto ciò andare oltre queste, queste trappole effimere della vita. Basta che tu ti uccida e sarai libero. Non piú dubbi inganni apparenze; Solo il canto sublime del re­spiro è questa la strada.  Ucciditi.

Non piú essere Artista, non piú studio ricerca pensiero non piú limite. I dubbi ricordi profani. Ucciditi. Non piú tempo, tutto il non piú della vita superato. Ucciditi.

 

Ma chi è chi mi inganna, quale voce tu sei e con quale alibi ti estra­nei da me, sembri esistere. È un velo così sottile quello che sento non dubiterei di te per quel che dici ma non vi è nessuno in que­sta stanza, non sei un desiderio non sei istinto, Ma da loro forse scaturisci. Non hai miei… La tua forza mi sorprende mi ob­bliga a risponderti. Il mio ludico guardarti appartiene al capire, sappi che io so che tu non esisti sei solo un motivo in piú.

Non posso uccidermi per quel che tu mi chiedi ogni sguardo nel buio ricorda il colore dell'esistenza, ogni immagine della notte è una figura, ogni agire contro la vita è un amore sbiadito nel per­nicioso cammino verso i non simboli.

Se io mi uccidessi agirei, darei un nome direi. Non sarebbe andar­sene, nessun superamento ma vano ed inutile simbolo tra i sim­boli. Se mi uccidessi me chiederei: io fuggo dalla paura dell'incer­tezza e nel fuggire mi hanno determinato i simboli; ma tu chi sei per garantirmi la certezza del non nome se con i nomi parli con me.

(dal Faust di Patrizio Marozzi)

HgfhgfagsdMefistofele Non ci sono stanze in cui possa entrare, e le stanze del passato hanno distrutto i loro muri ormai da tempo e non è rimasto molto di “quello” che le aveva generate. Non posso più giocare con le illusione del sapere e a nessuno posso più far credere di avere il potere di tenermi in trappola. Se ciò accadesse più nessuno mi avrebbe in considerazione. Questo mondo oramai mi ha superato in arditezza e quando sa, sa far del male senza il mio consiglio, mi sembra che le parti si siano invertite e io mi alimento come un fuoco spontaneo dell’energia che da esso mi viene.

Faust Se non conoscessi i tuoi modi ti direi che mi stai sorprendendo, quanta sagace modestia nelle tue parole, mi viene di credere che tu alla fin fine abbia rinunciato all’arditezza del male, che ti trovi in quella condizione in cui i fatti superano i migliori propositi, le maggiori intenzioni, fin anche la responsabilità del suo artefice.

Mefistofele Se fossi in te non mi troverei così sicuro, l’uomo non ha sempre desiderato di essere come il suo Dio, lo ha sempre creduto. Il fatto che io gli abbia suggerito come, e lui mi abbia ubbidito dimostra soltanto che non è capace di assumersi le sue responsabilità. Certo non posso non ricordare che per me sia stato molto facile, è stato come suggerire qualcosa a qualcuno così avido da non saper far tesoro neanche della propria esperienza, così sciocco che ha finito per fare una cosa per un’altra. Se io ho dei meriti in questo è quello di aver assecondato la naturale propensione di onnipotenza dell’essere umano, ma che esso continui a capire il bene per male e il male per bene è tutto merito suo, è lui che vuol essere quel che non è Dio.

Faust Dico che continui a sorprendermi se solo non ti conoscessi. Che n’è stato della tua sete d’anime, non hai forse sempre cercato un patto ingannatore con l’uomo. Quando io e te in passato ci siamo trovati nella stanza, non mi hai fatto, come mi hai appena detto, credere addirittura che io potessi intrappolarti in quella stanza, e non hai escogitato quello stratagemma pieno di falsi propositi per avere la mia anima?

Mefistofele Ti stai confondendo, l’epoca delle stanze era quella in cui tu cercavi in me qualcosa di reale, alcuni scrittori hanno avuto l’arditezza di rappresentarmi, di mostrare al mondo come io fossi fatto fisicamente, semplicemente per dire che esistevo, per dire di chi fosse la responsabilità, di chi in realtà stesse seguendo il mondo. E tu Faust di sei trovato a rappresentare un’umanità così meschina che paradossalmente invocava il mio aiuto, per avere il coraggio delle proprie azioni. Hanno giocato con te e l’essere umano per te ha creduto di potermi smascherare, di poter porre delle condizioni a me. L’essere umano è rimasto il piccolo illuso di sempre — ha creduto a me invece che a Dio, mi ha ubbidito ed ora vuole immaginare che sia stato lui a porre delle condizioni a me, che sia stato lui a determinare il suo destino. L’essere umano è destinato alla dannazione perché è così imperfetto da assecondare il male anche senza il mio aiuto, è incapace delle proprie responsabilità, è incapace fin anche di capirle, vuole una cosa e poi dice che non è stato lui a volerla e dice che la colpa è mia. Un misero essere privo di libertà, veramente insignificante per la genia dei tempi. No Faust credi a me, non ho bisogno di raccontar menzogne l’essere umano è naturalmente predisposto al male senza nessuna possibilità di scelta.

Faust Il tuo dire mi schiaccia sotto il peso dei fatti, l’immane tragedia dell’essere umano è evidente ai miei occhi, alla materia del mio corpo che si muove nell’unica stanza rimasta, quella dell’intero mondo. Non oso contraddirti perché ciò non sarebbe che ripetere l’evidenza dei fatti, non sarebbe che conclamare ancor di più il mio stato di essere umano, di essere soggiogato dalle sua stessa natura, dalla sua peritura discendenza che perpetua una stato continuo di lotta tra la vita e la morte. Questa solitudine governa la condizione dell’essere umano, in questa condizione trova la forza per generare il bene che rapidamente distrugge, costantemente, ripetitivamente. La sopravvivenza di questi momenti prima della loro distruzione accompagnano l’essere umano da sempre e per quando l’affanno di una vita priva di sostentamento continui a generare l’essere umano, la traccia invisibile di quei momenti si sedimenta nella sua coscienza e a null’altro che in questo è data la possibilità di una scelta: la possibilità di Dio di sapersi essere umano — nella fede, la conoscenza dell’essere umano di sapere di Dio.

Mefistofele Ma appunto è ciò che intendevo io, l’essere umano non sa di Dio che quel che non sa di non sapere e in questo stato fa di sé una naturale predisposizione al maleè così aderente a tale condizione che come hai ben detto distrugge costantemente anche quello che fa, ma che non sa ch’è bene. Gesù Cristo chi l’ha crocifisso, non mi verrete a dire che anche quella è stata opera mia. Non è stato lo stesso popolo che Dio aveva scelto a metterlo in croce, non è stato il vostro stesso sapere di non sapere a condannarlo a giudicarlo — la giustizia di pilato, vile e senza coscienza. Questo Gesù, in fondo, voleva essere un mio seguace e sentirsi Dio come ogni altro essere umano.

Faust In verità non posso risponderti sul perché l’intero essere umano abbia fatto ciò, ma posso renderti conto dell’atto estremo della vita di Gesù Cristo, della sua aderenza assoluta all’amore, un amore che io comprendo soltanto in parte con il mio pensiero, con le facoltà dei miei perché raziocinanti, soltanto superando il mistero posso accettare il mistero che ne deriva, soltanto accettando come facoltà del mio essere la possibilità della fede posso coniugare il mio pensiero alla logica della vita palese e storica di Gesù Cristo.

Ma dimmi Mefistofele, voglio io farti una domanda, giacché tieni in così in spregio le possibilità dell’essere umano, cos’è che tu vuoi realmente da Dio, che cos’è che forse non hai il coraggio di chiedergli?

 

3

hfafdgfdhEL APICE

 

No te habrà de salvar lo que dejaron

Escrito aquellos que tu miedo implora;

No eres los otros y te ves ahora

Centro del laberinto que tramaron

Tus pasos. No te salva la agonia

De Jesùs o de Sòcrates ni el fuerte

Siddharta de oro que aceptò la muerte

En un jardìn, al declinar el dìa.

Polvo también es la palabra escrita

Por tu mano o el verbo pronunciado

Por tu boca. No hay làstima en el Hado

Y la noche de Dios es infinita.

Tu materia es el tiempo, el incesante

Tiempo. Eres cada solitario instante.

(da La Cifra di Borges)

hgafgfgfgCantar sollievo sarebbe uscire da questo infame pertugio. Che tutti questi figli di puttana, e quando dico puttana dico tutte le rottinculo vergini, insieme alla marea dei froci, che sta per puttane al maschile, continuano a perturbare, infangare con la melma dei loro pensieri. Nobile sarebbe per costoro accettare, anche solo per un istante la materia del tempo. Ma il cantar invano sono destinati e nessuno potrà salvarli e son contenti di dannar pur gli altri con le loro coglionate necessità. Che la spietata realtà gli sopraggiunga all’istante e nessuno potrà salvarli da quell’istante di realtà e tutte le loro coglionerie s’infrangeranno per quel che sono: la menzogna della materia del loro tempo. E sopraggiunga intanto a continuar l’inutile giorno, che si levino le parole della menzogna che continuino a recitar l’illusione dell’infamia – troppo poveri di povertà son costoro per accettare la ricchezza. Continuino a menar per l’aria lo spazio delle loro azioni di vigliacca menzogna. Continuino a sminuir la saggezza della verità. Continuino a diffamare la materia del tempo di chi l’ha, con i segni dell’invidia della loro dannazione, perché eterno è il loro tempo, come la condizione di un ergastolano che attende la propria morte tra le pareti di una cella, ma per di più di costui la morte che sopraggiunge sarà vana per la fine della pena da scontare, perché nessuno li ha mai giudicati. Che venga anch’esso, un momento di sollievo a rammentar l’accaduto della vita, ma soltanto per un istante per rammentare la vanità della memoria che attente inquieta, soltanto, l’ultimo instate, lo scontar della pena che avvolge tutto finanche la perpetua verità, che spaventosa come un lampo mille volte più forte di ogni altro, brucia tutto il tempo, ognuno, chi già morì per infausta fede e chi, nel peggio per lui, per infausta fede crebbe nella menzogna più grande – di una materia senza tempo. Nessuno potrà salvarti. “Tu sei fatto di tempo, di incessante tempo. Sei ogni solitario istante.”

 

Hgfdghgfgf Non posso cambiare il passato, e non credo che lo farei. Non mi aspetto di essere capito. Mi piace quello che ho scritto, i racconti e i due romanzi. Se dovessi rinunciare a quello che ho scritto per guarire da questa malattia, non lo farei.

 

SI PUÒ ESSERE stanchi del mondo — stanchi dei re della preghiera, dei re della poesia, i cui rituali sono un intrattenimento umano e gradevole, ma assolutamente irritante perché non hanno alcuna realtà — mentre la realtà in sé continua a essere molto preziosa. Il desiderio è di intravedere degli squarci di reale. Dio è un’immen­sità, mentre la malattia, questa morte, che è in me, que­sto piccolo evento pedestre circoscritto entro confini tanto precisi, è semplicemente reale, privo di miracoli — o di istruzioni. Sono in piedi su una zattera che ha sciol­to gli ormeggi, una piccola chiatta che si muove sulla fluida superficie scorrevole di un fiume. È precaria. L’i­gnoranza dell’ignoto, l’equilibrio difficile, i sobbalzi e l’instabilità si allargano in ampie increspature su tutti i miei pensieri. Pace? Non ce n’è mai stata alcuna nel mon­do. Ma ora sto viaggiando sull’acqua arrendevole, sotto il cielo, senza ormeggi, e mi sento ridere, con un certo nervosismo all’inizio e poi con genuino stupore. È tutta intorno a me.

(da questo Buio feroce di Harold Brodkey. Traduzione di Delfina Vezzoli)

 

hfggfhfhgfgQuando basta un momento soltanto, solo quel momento, la morte di un attimo per capire, comprendere le sequenze della vita. Ma quando la morte è già sopraggiunta, e non dico perché si è malati o cose di questo genere; quando la morte è eterna e non basta più morire per afferrare la vita. Se il mondo fosse già finito prima della fine della sua materia? L’uomo non è già privo della sua coscienza, non è già seguace di un sistema basato sulla persuasione occulta, non vive seguace dell’illusione, in preda alla menzogna e non ottiene quello che identifica con il bene con l’inganno, con la vanità della dimostrazione, con la viltà del furto dei sentimenti, col proprio bisogno di onnipotenza che non ha più per giustificazione neanche la condizione di inconsapevolezza. Anche i più piccoli ormai son persi. E se solo un uomo fosse fuori da tutto questo, soltanto lui si salverebbe e per questo forse vana sarebbe la sua salvezza. La morte è eterna come uno spavento senza fine, che non conosce niente altro che se stesso e l’inganno più grosso è diventato l’uomo. Un uomo che ha dimenticato ciò che l’aspetta, preferendo l’eternità della morte ad un suo momento; ed anche per questo la morte stessa è diventata un’illusione, la sua vanità la sola consolazione umana, soltanto chi muore non s’inganna.

[…]

 

hgffdgfgfgfgg((Ecco il nostro vero stato. Il quale ci rende incapaci di sapere certamente e di ignorare assolutamente. Andiamo vogando su di un mare vasto, sempre incerti e flut­tuanti, spinti da un estremo verso l’altro. Qualunque termine a cui pensassimo di attaccarci e di assicurarci, tentenna e ci abbandona; e se noi lo seguiamo esso sfugge ad ogni presa, scivola e fugge con una fuga eterna. Nulla si ferma per noi. È lo stato per noi natu­rale, e tuttavia il più contrario alle nostre inclinazioni; noi bruciamo dal desiderio di trovare una positura sta­bile, e una ultima base costante per edificarvi una torre che si elevi all’infinito, ma ogni nostro fondamento schianta, e la terra s’apre fino agli abissi!

 

((Desistiamo dunque dal cercare la sicurezza e la sta­bilità. La nostra ragione è sempre ingannata dalla inco­stanza delle apparenze: nulla può fissare il finito tra i due infiniti che lo rinchiudono e lo fuggono)) (ibid.).

((L’ultimo passo della ragione è di riconoscere che vi è un’infinità di cose che la sorpassano. È ben debole se non giunge a riconoscere ciò. Bisogna saper dubitare dove bisogna dubitare, essere certi dove bisogna, e sot­tometterci opportunamente. Chi non fa così non in­tende la forza della ragione. Ve n’è che peccano contro questi tre principi, o affermando tutto come dimostra­tivo, per poca pratica che hanno alle dimostrazioni, o dubitando di tutto, per non sapere dove ci si debba sot­tomettere, o sottomettendosi in tutto, per non sapere dove si debba giudicare)) (ibid.).

 

 

3.  Mio De Profundis

 

Ma la pagina più difficile di questo libro è ancora da scrivere. La pagina più difficile sei Tu, mio Signore.

Di Te ho scritto insensatamente e all’infinito, e non ho detto nulla: nulla che sia degno di ciò che Tu sei, nulla di quanto si possa immaginare di Te.

Per aggiungere subito che ogni immagine è un tra­dimento.

Il dramma vero dell’uomo sei Tu: Tu dramma a Te stesso, perché anche Tu vivi una passione che non rie­sci a soddisfare.

 

Di Te così ho cantato:

 

Tu

sempre a creare

e noi a morire...

 

E ancora:

 

O cercarTi solo

senza nominarTi,

chiamarTi appena a gesti...

 

Ancora:

 

Baluginosa presenza che acceca

come i raggi schiantati del sole

a mezzodì

sulle rocce salate

del Mare Morto...

 

E ancora:

 

Tu sempre dentro la Tua

divina solitudine, Tu

condannato

a solamente essere:

 

il dramma è Tuo,

o misterioso Amore.

 

Exinanivit..., Egli ci ha spogliati:

 

Si, bisogna distruggerTi, Dio

per crederTi quale Tu sei.

 

E quando il pieno Nulla

avremo raggiunto

finalmente saremo

 

una cosa sola,

o Deità.

 

 

Dramma per la Tua trascendenza a noi sempre irraggiungibile: non c’è altro Dio né lassù in cielo né quaggiù sulla terra. Non l’universo intero Ti può contenere, non i cieli dei cieli, Tu abiti una dimora di luce inacces­sibile:

 

Abbiamo schermi che segnano il fiato:

men che bisbigli di particelle

di raggi in arrivo dalle Galassie;

apparati che registrano pensieri quando

increspano come la luce nell’aria

più tersa del mattino: apparecchi

che registrano il gemito di animelle

ardenti sulle tombe la notte;

ma non abbiamo congegni che annuncino

almeno un ((tic