Caleidoscopio

Le parole di Astrolabio il bello e buono

 

Di Patrizio Marozzi – pag. 45

 

 

 


Del resto cosa dire di quel giorno diverso, come se lo stesso istante non ci fosse che la sua ipotesi di lavoro, ma ogni ipotesi non è solo il richiamo di qualcosa che può sembrare il riposo di un istante ma, ma forse il ricordo di un altro istante l’ipotesi che, ora; dice o si ricorda, fuori da ogni altro richiamo, le cose che si vuole capire sono quelle che ognuno non sa di voler capire ma soltanto ascoltare. Il silenzio non ha che un’ipotesi che non vuole dirci, che non colora la funzione di un interprete, che nel suo teatro guarda ma da osservatore torna interprete. Era lo stesso interprete e la stessa ipotesi. Ora è lo stesso interprete e la stessa ipotesi, nello stesso teatro.

 

Se per un istante si appropinquasse il un altro silenzio forse esso stesso potrebbe diventare una nuova esperienza. Come se ciò ch’è accaduto poi ti desse anche un altro istante in cui, in fondo non cercassi se non la rappresentazione in un racconto, il momento stesso di quello stesso istante, di quel momento della vita, certo l’immaginarlo in sé è già una gran realtà, o meglio la possibilità di una gran realtà, non solo in fondo scenica in quanto artistica, ma come immagine che determina una coscienza: uno spiegarsi e raccontarsi in fondo. E allora l’ulteriore ipotesi, in definitiva, trova una catarsi reale, questo nel comune essere, o ancor meglio nessuna ipotesi di rimpianto, ma la scoperta di un altro pensiero che non poteva essere nel momento in cui il pensiero realizzato è stato, l’idea stessa si è formata nella realtà, come la realtà ha sviscerato ancor più della realtà. Di fatti perché le cose accadano nella realtà non possono esserci forzature, non possono esserci inganni più o meno, rappresentati costantemente nella o dalla realtà che si sviluppa nell’istante, senza autore o senza gli autori; il silenzio tra gli autori o nel silenzio rappresentativo dell’autore è già al di là di un progetto convenzionale di un ripetersi di standard conoscitivi privi d’esperienza, e di già il progetto non può che essere il tentativo coerente dell’impegno di conoscere, conoscersi in quanto realtà che si rappresenta, come possibile e come silenzio del possibile. mettersi in cammino per realizzare un progetto, o come la scoperta del progetto realizzato; la possibilità non agisce per mezzo della forzatura della negazione della possibilità, ma in definitiva cerca di rendere possibile ciò ch’è vero: la rappresentazione come narrazione, l’evento del narrato come esperienza, con la sua voce e le possibili voci dei silenzi, certo il tutto – questo – può stare nel silenzio della realtà di quel che si compie. Non c’è un rammarico più o meno strutturale né un vuoto collettivo che si assembla tribalmente per mostrarsi (una mancanza che si nega) come rappresentazione della mancanza di scelta personale, ma la realtà di un idea che si compie rappresentativamente o per mezzo dell’esperienza in un teatro senza teatro: il cammino di un significato che vuol conoscere: mettere in atto una realtà di conoscenza che non può negarsi alla chiarezza della possibilità del reale, come peculiare narrazione del possibile, non solo per mezzo della rappresentazione dell’autore nella possibilità ma come conoscenza che armonizza, in definitiva, il progetto con l’altro autore della realtà e della rappresentazione dell’esperienza: la peculiarità come individuo e la peculiarità come persone, la rappresentazione come mancanza di teatro, ma come coerenza della verità, con i possibili silenzi teatralmente rappresentabili della realtà, in un richiamo e un conoscersi che danno al significato l’unicità della creatività; la peculiarità dello sguardo e l’esserci nell’esperienza: il tentativo si compie pur sempre in un cammino e nell’apparente ricerca di una stasi silenziosa che ascolta se stessa, o meglio in cui si è in ascolto. Di sé e se stessi.

 

Una delle regole del socializzare,  meglio del conoscere sta proprio nella possibilità di dialogo, nel sapere che in fondo l’esperienza non può che essere conosciuta per condivisione e nella fattispecie espressione della propria libertà. La relazione per qualsiasi motivo non può che partire dal dialogo e dalla generosità della disponibilità, in fondo dalla libertà della curiosità, come del conoscere ciò che si vuol condividere nella relazione che si comunica, l’andare verso le cose che si rappresentano in fondo ci porta ad avvicinarci ad una ragione di comunicazione; ma in fondo è un po’ come sedere o condividere un posto in treno o una panchina in un giardino o una piazza e parlare con qualcuno che pochi istanti prima non si conosceva. In definitiva è fatto che la parola è il mezzo più semplice e più ricco al contempo per dire e condividere la verità, e la libertà della propria esperienza. Ma l’aspetto più libero in fondo è la possibilità di cambiare la propria conoscenza, come nel manifestare le proprie intenzioni che si conoscono, non solo per la realizzazione di un progetto, che si vuol tentare o liberare nella realtà, ma anche per dare condivisione al movimento del proprio corpo che per mezzo della coscienza cerca un modo per conoscere l’altro luogo e la persona. Sta in fondo che se il concetto è vero più che il privato ciò che si comunica è la realtà intimamente conosciuta e la narrazione può essere sia fatta che narrata, in definitiva il luogo non è una proprietà ma il rispetto con cui si cerca di conoscere e lo spostarsi non è solo una ricerca di realtà, ma l’aspetto più vero della comunicazione, o della ricerca di un suo possibile silenzio come ascolto delle sue possibili espressioni di comunicare. L’atto che si raffigura nel conoscere un ambiente non è lo stesso di quello che si determina per mezzo dell’espressione tra persone, che in fondo non sono in nessun luogo se non quello che in definitiva si rappresentano dentro se stessi il più autenticamente possibile; e allora l’esperienza più che al tempo è legata alla sua profondità, il rapporto con la conoscenza e con la saggezza, sta forse al di là della sola propria rappresentazione del pensare, ma non può che essere al di là di questo non in un luogo o in un tempo, ma in tutto il tempo e in ogni luogo, ciò che si conosce non è solo lo spazio in cui ci si trova, l’apertura al dialogo che in quel luogo si determina o che cerchiamo che avvenga o più realmente la verità che vi si conosce e con cui ci conosciamo. Ma la saggezza in fondo sta all’esperienza come il silenzio sta al pensiero che conosce la verità dell’esperienza che vive, in un luogo o in un altro, ma in fondo in nessun luogo, forse con qualcuno, ma mai senza ciò ch’è vero. E che realmente è condivisibile come ascolto e fattore d’esperienza, di un tempo o di un altro tempo.

 

C’è qualcosa da ricordare? Sto pensando alla verginità, c’è in fondo qualcosa da ricordare, credo proprio tutto, c’è non c’è possibilità più autentica del fruire sessuale del desiderio d’amare ed in realtà è proprio difficile dimenticare questi momenti. È proprio che ti si ricordano nell’attimo stesso in cui ricordi questa intima realtà. Voglio per esempio dire che nella possibile trasformazione del corpo non vi è solo quell’istante, quasi esso fosse un dominio o un’esclusiva del tempo, quant’anche questa unica volta è stata per chi ha amato nell’infondersi dell’amarsi – ora forse la questione della rappresentazione si è trasformata nella logica stessa del corpo rappresentativo di acquisire un costume che dia una forma di potere, quasi che in potere sia stato nel prendersi qualcosa dell’altro essere, ma qui vorrei che si smussassero definitivamente le questioni del costume sociale, non vi è nulla di peggio che ridursi in un fenomeno collettivo al di là del proprio essere individuale – E allora i momenti di verginità, questo sentire in proprio corpo, in armonia con l’amore e con l’unicità degli esseri che vi sono coinvolti, al di là di ogni enunciazione rappresentazione di costume sociale e, privo di storia personale. Se l’un l’essere è per l’altro, ciò che non è mai stato prima e che prima non è mai stato in nessun dopo come avvenimento già conosciuto al di là del momento d’intimità dell’istante di verginità: i due esseri sono quei due esseri e null’altra cosa, se non quel che essi sono e la verginità è nell’autenticità più profonda di sentirsi in questo, come apertura totale di se stessi e della propria intimità. Mi son chiesto spesso che cosa sia la lacerazione dell’imene, un dolore diverso dal piacere dall’orgasmo, ma in fondo l’intimità della verginità è oltre la rappresentazione parziale della fisiologia, è ovvio, è l’intimità dell’amore che dà a questo unico episodio quel che manca e che si rinnova, e che fa sì che questo sentire dell’essere si trovi in propria armonia e ricordi nitidamente questi momenti: più essi sono autentici più essi sono indelebili, non contemplano il tradimento, l’inganno, il desiderio ma di conoscere l’intimità dei pensieri e delle sensazioni, la realtà che si intimizza. Di fatto che cosa è la verginità in un uomo, se non il rinnovarsi di un sentire profondo ogni volta che si è nell’intimità dell’amore con la persona amata, o l’amata che si vuol amare. E allora la verginità è una scoperta continua o più esattamente un sentire costante il desiderio d’amare in ciò, con ciò ch’è più autentico dell’intimità che si apre, la verginità è l’atto stesso dell’amore che si rinnova con l’essere con cui si è.

Se questo momento in una storia d’amore o nelle storie d’amore si rinnova, di fatti in fondo esso non può essere così puro nella memoria quanto lo è stato nel momento vissuto se c’è un tradimento che lo ha sfiorato come tentativo di dominio, che lascia la volontà del ricordo in chi non lo ha infranto: non ci si libera da se stessi negandosi, fingendo una mala interpretazione, in fondo una rappresentazione sulla realtà che finge di rappresentare la realtà, affinché il proprio apparire dimentichi nascondendosi dietro la volontà di dominio delle proprie giustificazione inventate, quasi a profanare la verginità stessa; e allora la lacerazione dell’imene non è un dolore in-autentico, ma sia esso uomo o donna il dolore può essere il tentativo di non perdere la verginità vissuta come propria intima scoperta e realtà autentica, anche nel tentativo della rappresentazione. Il teatro non ha spettatori così attenti, eppure così è la memori stessa che non cerca di dimenticarsi.

Il solo appare inaudito, fin tanto che non sa di ascoltarsi, da essere il possibile e perché no il tentativo dell’impossibile, per tornare in pieno al sentire la verità dell’intenzione da realizzare, fin a far apparire la verginità un’infinità possibilità possibile solo nell’autenticità, intimamente autentica di se stessa e della vita.

Alcuni incontri amorosi con delle vergini:

Quel che rende spontanea e vera la verginità dell’imene in fondo è anche nel totale abbandonarsi alla recettività della personalità che immediatamente ti si dà, non può in fondo non esserci una delicata spontaneità nel desiderio d’amarsi, non importa se fin allora si è resistito, ma proprio in quel momento ogni resistenza svanisce, le paure appaiono il modo per superarle e ogni inganno sovrastrutturale scompare, non ci sono processi intenzionali o tentativi coercitivi: il consenso non esiste, non è un atto del calcolo, ma un equilibrio assoluto con la libertà che ti rispetta, che non ti obbliga ma si dà; non c’è una parola che finga, non un tentativo di dominio è una lealtà così spontanea da rendere superflua la parola matura, è esperienza che si fa rispetto del sentire, come possibilità dell’immediato che dà tutta l’importanza alla capacità di superare il ruolo, ma è nella possibilità che si conosce e che non chiede all’attimo che di essere più vero che può, una vergine d’oggi non può in fondo che affidarsi in questo modo, a se stessa e all’amore, che gli appare improvviso, vero e totale. Diamo un nome a questa ipotesi – che di fatto non sapete se è tale – facciamo che si chiami Tamara e la facciam anche di Verona, quasi che aleggi sulla storia un che di rappresentazione teatrale, seppur essa non abbia nulla del dramma di Romeo e Giulietta. In fondo potrebbe già bastare, ciò, questa descrizione che l’ha accompagnata a rendere già spontanea l’immagine, e in fondo l’episodio per chi guarda cos’è: Una Tamara di un altro tempo, dalla pelle gradevole i seni spontanei e regolari tra le braccia di qualcuno che le parla mentre l’accarezza, che la bacia e la guarda e che le ha detto che tutto resterà così come si sono conosciuti: d’amici. Già come s’immagina che una vergine arrivi a tanto e si lasci conoscere? Nel modo più semplice e spontaneo tutta presa dal suo cuore, un’instate prima era lì che guardava il mare, poi ha guardato lui, che con sua sorpresa le si è fermato dinnanzi e dopo essersi presentato, proprio appena dopo essersi presentato, le ha chiesto se la sera si sarebbero potuti incontrare e cosa ha fatto lei se non accertarsi che fosse un invito vero. Se dopo alcune sere come la cosa più giusta del mondo, si baciano e si accarezzano l’uno tra le braccia dell’altra che cos’è quell’imene in attesa se non la verginità del loro incontro. Tamara dopo quell’amore fisiologicamente rimase vergine, non perché lei non volesse, ma perché lui per quella volta la preferì così. Ora diamo il caso che fossi io l’istante di questa storia e allora potrei dire che rincontrai Tamara dopo un anno, o forse più e lei nella sua prima volta mi raccontò la famigerata prima volta dell’imene, e mentre mi diceva e parlava di lei e del desiderio che aveva avuto con me, del disagio che aveva provato per la deflorazione a me mi è sembrato di vedere la stessa vergine che avevo conosciuto io e che quel che in fondo voleva gli dicessi, era che la rassicurassi che sarebbe stato bello ogni volta: e con il sorriso e le parole glielo dissi, era l’unico modo in quel momento per dirgli che era sempre se stessa, ed era vero.

Dunque vergine può essere anche una vedova prostituta e madre di due figli, foss’anche per un impossibile istante.

Ora Sono appagato da queste mie parole e non parlerò delle altre cose che volevo aggiungere. 

 

Fosse anche un giorno o il tempo che passa ciò che si sprigiona come un colore profondo, o un silenzio più invisibile, così come  niente fosse quel che si trasforma non ha costrizione, ma l’essenza stessa di quel che è. E se la bellezza di quel che si è, conosciuto che si conosce, gli amori e l’amore di donne, il proprio essere si apre ancor di più nella pienezza dell’integrità del sentimento, non c’è niente di più assoluto della libertà, della libertà di ascoltare come di rispondere, e per quanto tutte le culture di massa o questa generazione o le altre culture di massa, finiscono sempre nell’ostentazione delle proprie immagini, troppo spesso e ora sempre consone, alla volgarità e all’ostentazione del potere, più che altro ignoranza. Ma ciò in fondo non risponde a niente e lascia sempre il tempo che trova, e forse tutta la sapienza di un saggio non abbandona forse lo stesso tutto se stesso, prima o poi anch’essa non scomparirà come esperienza dei compartecipativi della conoscenza e della verità? Eppure è tutt’altra cosa dall’esperienza collettiva di immagini senza corpo. Se ognuna di queste apparizioni in fondo non trova l’avvenimento come integrità di se stesso, quale può essere l’unione e il principio, del tempo come dell’amore? Cos’è che spinge all’unisono l’esperienza a trasformare la volontà in consapevolezza o armonia dell’essere e a tendere alla pienezza come tempo vissuto e non mancante? L’amore. Il rumore delle immagini sembra condizionare i pensieri, fin forse a generare urla sconnesse e insensate, invidie precoci e incoscienti, volontà di prevaricazione e frustrazione. Se la bellezza di un corpo di una donna è l’infinità bellezza, la sua nudità il principio di un linguaggio, cos’è che toglie espressività al contenuto che vi è in essa? Le possibili mille esperienze dell’amore son sempre la stessa, ma hanno ognuna, ogni donna un suo mondo, e quando essa tace il corpo non ha più anima. Per quando, la bellezza del suo corpo possa essere palese e il pensiero che la guarda contempli un principio, ciò che lo spegne è l’immagine in sé che non ha espressione. Cos’è che spinge il mio desiderio nel desiderio e nell’eccitazione, nella contemplazione e nel piacere se non la capacità di amare, ed essere amati, sentire l’amore che si libera. Di fatti queste immagini senza anima spesso prive di coscienza e di parola. Lasciano l’istante della fantasia poco dopo che la fantasia stessa le ha rappresentate. Non è solo un’indagine, una scoperta, la voce reale dell’amore, spinge la conoscenza nella più profonda intimità degli esseri: a possibilità di amare e lasciarsi amare. E allora che cosa è che rappresenta il mondo nel suo evento di realtà, se non questa necessità di integrità dell’essere, questa dimensione della coscienza e dello spirito. Ma da questo istante e principio così diretto e vero, nel bisogno di una profondità così reale, nel naturale sviscerarsi di lasciare quelle immagini senza anima, mi ritrovai in un tempo di palese castità, o meglio di una castità che lasciava al tempo la sua libera espressione. Non che ci fosse una volontà da voluta che perseguisse questo, ma il sentire continuamente il silenzio e la voce hanno lasciato che il tempo si esprimesse compiutamente nella sua realtà in questo abbandono all’accadere della realtà, come espressione intima della verità. Non c’è da dire quanto sia pieno il mio essere, perché lo è stato anche quando questo evento, esserci, era con la sensualità con i sensi stessi di una donna. In definitiva la domanda di qualsivoglia donna o la mia stessa domanda alla donna è possibile più che in ogni altro tempo, ma il fatto che compie questo accadere accende ed evidenzia l’impossibilità, l’insufficienza ad amare, senza questa stessa profondità ed intensità dell’essere. Cos’è che impedisce la naturale conseguenza del volere naturale se non una disarmonia competitiva per il dominio, più che per la realtà o la conoscenza, e allora l’amore siffatto la realtà della verità tra un uomo e una donna non si compie, se non vi è quella integrità e purezza, che non infrange, ma ch’è tutt’una con l’esperienza e la ricerca di essere nella propria realtà e verità. Seppur io mi trovassi nella più perfetta condizione, se ciò che ho detto non è il silenzio che osservo non è puro, e il rumore dell’immagine compete con se stesso, il caos non ha giustificazione, la disarmonia apparirebbe in lei per quel che è: rompere il caos e il rumore, ma se non vi è quel che deve esserci, rimarrebbe solo la viltà e l’orgoglio stupido della paura, quello che trasforma i pensieri e distoglie le parole dal proprio significato. Fosse di mille anni la mia vita senza l’infinità essenza del corpo di una donna, o forse di sette qual mi appare essa in fondo non è niente di meno, di tutte le volte che insieme ad esso son accadute le cose più perfette. La castità delle mie parole è un suono così forte che frastaglia i mille vocie della, immagini della cultura di massa, che non sa che essere, è qualcosa d’altro di ciò che tutti insieme cercano di pensare, o che la solitaria paura di ognuno fa pensare di vedere e per paura finger di sapere e inverosimilmente giudicare. Non c’è nessuna domanda sincera che non abbia risposta, basta volerla conoscere nel proprio silenzio.

 

Non vi è niente di più bello che l’accadere quando accade. E se per tutte le cose che accadono i sogni fosse anche impossibile fermarli, essi continuerebbero ad accadere ogni volta che noi non li conosciamo. Se fossero solo il momento, di sogni ad occhi aperti, ciò che sappiamo è quel che noi stessi non c’illudiamo che siano. E allora i giorni e i momenti hanno sempre la visione del possibile come pensiero stesso di quel che infinitamente possibile sentiamo. Che cosa sono in fondo gli incredibili eventi di quel che accade, quasi che un miracolo si rappresentasse in ogni istante, quasi che appaia impossibile che essi non accadono, che noi stessi non riusciamo a stare nell’esserlo; è proprio il volervi esserci che ci libera di più, non una semplice illusione da raccontare a nessuno, ma proprio il racconto che si compie che si realizza che è come possibilità che si libera e che si abbandona a quel che sentiamo che sia. È un sogno o una realtà o più semplicemente la risposta più vera per conoscere. E allora mentre accadono le cose accadono, si rendono esistenti, infrangono le barriere e i sogni appaiono la notte limpidi e solitari, le parole parlano e raccontano e non vi è niente che non stia accadendo e che si realizza mentre accade. Il controllo si vanifica nella conoscenza e l’illusione nella responsabilità che vuol partecipare alla realizzazione. Ma appunto noi parliamo dell’infinito limite dei sogni e l’accadere che il nostro essere lascia che accada è appunto così libero da riguardare solo noi stessi, i nostri pensieri e la libertà di darli. Quale più assoluta voce o silenzio può renderci partecipi di quel che sentiamo, e quale incredibile stupore ci procura ciò, mentre sentiamo quel che sta accadendo, che esso sia lo sguardo più semplice, o il pensiero più partecipe della verità che sentiamo, e la parola più coraggiosa che vogliamo pronunciare. E allora si è anche disposti ad ascoltare, ad essere sorpresi dal sogno che si realizza, a vedere che accade qual che sta accadendo e che altro coraggio ci è chiesto, quello di non deludere lo sguardo più sincero che sentiamo; che esso sia in noi e che perseveri, come un profondo accadere, come un cammino costante ma senza tempo, che faccia della solitudine lo stupore più grande che condivide l’incontro, l’accadere accade oltre l’accadere e il sentimento non è più una prigione di stati emotivi, ma la possibilità che non controlla nulla, che non è forse in nulla, ma che ci accompagna come un pensiero silenzioso, come quel silenzio dei pensiero di certi, forse strani momenti, in cui si rimane assorti nel pensiero come se esso stesso non ci sia. Voglio dire non un ebetismo, ma un momento di profondità infinitamente silenziosa, e poi tutto si riaccende e quel che eravamo un attimo prima lo siamo ancora, ma forse c’è un rumore eccessivo intorno a noi, mille immagini che si nascondono, che si difendono da se stesse, troppe voci senza suono; e allora il significato può essere ancora più chiaro, eppure l’incredibile è ancora possibile, la sua integrità è ancora certa: ma l’abilità per quanto abile possa essere, non può essere un alibi per ingannare se stessa. E allora l’infinito possibile è la capacità che si riempie di tutto ciò ch’è l’essere libero e in cui crede, può immaginare ma lascia che quel che accade accada, senza che l’illusione lo distolga dallo stupore e dalla meraviglia dell’incredibile silenziosa possibilità di essere nell’accadere stesso di se stessi. La coniugazione più impossibile di un personale con un impersonale, non si abbandona all’illusine in-condivisibile dell’evento che si rappresenta, ma rappresenta l’incredibile realizzazione di un sogno che fa accadere la verità, non vi è dominio non vi è controllo, non l’illusione, ma il puro stupore dell’accadere della realtà che cerca di coniugarsi con la verità più vera e profonda, del sogno infinito e reale dell’amore: Ora e non prima si scardinino i silenzi o si affreschino i luoghi, ma nulla di più accade dello stupore più naturale della meraviglia di una sguardo che guarda il mutarsi e lo scorrere nel vento di una nuvola. E allora che la parola non si inibisca, che la domanda non tema la risposta, ma che essa sia libera e che sia più profondamente nell’essere stesso che la vive, senza che l’inganno si sostituisca allo sguardo, che il giudizio al sapere e il sotterfugio alla meraviglia: chi vuol essere lieto sia di doman non v’è certezza, eppur l’accadere più certo m’appare come il suo doman infinito, lieto sia di sognar o di essere.

 

Se quel che sto ascoltando non fosse proprio un bel niente se del resto, tutti questi chiacchieroni non avessero niente altro da fare che quello che ogni altra persona non sopporta, io che cosa in fondo c’entrerei con ciò. Il mondo mi si libera dinnanzi e le sue infinite frantumazioni non sono che illusioni, e allora il giovane richiamo non è solo una frantumazione ma il fatto stesso che non appare, che non sta in mostra, ma che si guarda presente nel suo stesso vedersi, tanto più per quanto naturalmente invisibile. E allora sospeso a mezz’aria o con i piedi per terra, solitario e libero, molto, libero è il lieto sentire. Se ogni attenzione più intima apre all’esistenza tutte le possibilità, sta di fatto che non accade un bel nulla se non l’impossibile accadere, un accadere più autentico dell’autenticità, invisibile agli occhi dei molti e dei più. Proprio un atto del fare all’amore o del più profondo e reale parlare, un’essenza altissima della semplicità che scuote l’aria non più del suo movimento e dà al vento tutta la sua realtà. Un altissima qualità dell’essere, un indimostrabile dimostrazione della verità, un’innata qualità della vita. forse talento innato del capire, con la purezza del proprio essere e la fragranza dell’ineluttabilità che non risorge. Un silenzio dalla parola così chiara, o l’espressione così vera che l’intelligenza è libera di essere soggiogata senza che sia meno di tutta se stessa; e la caducità è soltanto la caducità che non capisce, l’essere è senza che essa debba esistere. L’inutile caducità che continua a voler dimostrare e a chiedere dimostrazione, a mostrare e mostrarsi, a dichiararsi per urlare le proprie intenzione, quasi che più esse si ascoltino e più possano essere vere, certe volte fino a chiudersi le proprie orecchie, tanto il rumore provocato.

Io sono tra le braccia e lei è tra le mie braccia e l’impossibile che accade ogni volta, è incredibile e mi rende anche altrove senza esserlo, perché sono proprio lì e non aspetto altro, sono con lei, ma per quando; incredibile possa apparire ciò, il silenzio che racconta; è nell’istante stesso in cui la coscienza e l’intelligenza sono all’unisono e allora essere quel che si è, è anche nella più autentica solitudine, quella che non vuole e non ha bisogno di appagamento, che ti fa guardare il mondo senza che non esista neanche l’ipotesi dell’istante, dentro di te, che possa farti sentire che ti stai tradendo. Lei c’è s’è questa, altrimenti il passo è solitario ma tu sei questa – io son questa – che per quanto il tempo dica, nulla in te ti racconta se quel che io ti racconto, l’intelligenza che non sei e per questo non un frammento bisognoso d’apparire ti rappresenti, ma non ti rappresenti, ma sei dove io tengo la coscienza che è bel altro del semplice esser svegli, ch’è nell’ipotesi del tempo e del pensiero della storia, non più di quanto appaia tutto il tempo che non c’è, non c’è misura o limite, questa è l’ipotesi; c’è quel momento autentico ch’è sempre presente, ma così pratico da non essere misurabile, che conosce in fondo quel limite… ma che non è altro che essere, che viaggia leggero e libero, come fosse il più bello già per sempre.

E allora l’intelligenza non già caduta si sente ma palese frammento in un mondo che non rappresenta la frammentazione e che l’intelligenza sta per capire, al di là di se stessa, in un mondo che non ha nessuno sguardo se non quello della coscienza, che se anche smette di riflettere, non sa in fondo cosa sia quel che sente; e se il giorno appare come la notte, l’autenticità di quel che si è svanisce liberamente non per ciò che è apparsa, ma per l’essere stesso di quel che si è. Se l’eternità ci rende liberi, l’autenticità ci rende coscienti dove il tempo ci rende presenti.

Di quel puro momento io mi nacqui e tra le braccia la strinsi e mi strinse come l’esistenza ed oltre: la vita e io che sono.

 

Non c’è giorno in fondo, se il cammino ha tutta la sua misura, ed è come se fosse costantemente presente. Ma nei momenti più strani, non quelli che appaiono incommensurabili, o forse per certi modi d’intenderli proprio quelli, in un batter d’occhio sembra che la stupidità, l’ottusità vanifichi tutto ciò che si fa partecipe dei momenti più pieni della solitudine umana, dove nulla scompare. Ed è in questo camminare dove non si è colti dal bisogno e dove si è sempre per tutti gli ammezzo agli altri del modo, che si sente vivo l’evento della partecipazione più intima. Non c’è un bisogno a cui soggiacere, non una necessità, né un nascondersi, un guardarsi fino in fondo un cercare di capire abbandonandosi alla comprensione, un essere da pari a pari con se stessi cercando di sentire Dio. Forse non vi è dialogo più partecipe eppur spietatamente vero quando le parole raggiungono l’altro o si ascoltano in se stessi, se la verità è uno strumento e non la libertà che ci fa percepire la verità, dove non s’inganna con il possesso o con la coscienza umana e non vi è nulla di spietato: vi è il cammino e il tragitto e il coraggio di guardar le cose dove esse sono, oltre tutte le voci e la apparenze. Ma allora che cosa è questo strano gioco del dovere esserci, di credere di poter mentire anche a se stessi, quasi che niente e nessuno esista, questo bisogno di giudizio, negazione dell’amore stesso che giustifica nella rappresentazione quasi che la risposta di un prossimo sia l’unica sicurezza, l’unico modo per dire che se esiste l’illusione può essere vinta per mezzo della convenienza della partecipazione, come giustificazione stessa del perché della convenienza; non è forse questa la rappresentazione di un mondo di servi e di schiavi, e cosa può nascere da ciò di altro se non vuoto riempito da potere e potere e subalternità che fa del bisogno la necessità della convenienza. E dimmi Dio esiste in fondo, motivo più profondo di odio, razzismo più assoluto come quello che divide il bene e il male tra la convenienza della libertà per mezzo dell’apparenza della convenienza, che ci rende così uguali nelle necessità da stabilire un ordine che dica che l’appagamento dell’uno è il desiderio di appagamento dell’altro, non nasce in fondo da ciò l’impossibilità della parola e della coscienza di esistere solo se si esibisce in qualcosa di mefistofelico apparire senza neanche l’illusione ma solo la legittima convivenza dell’invidia. E di già non parlo di quel modo di essere di chi ha maggiori poteri materiali rispetto a chi non li ha, di quella inconsulta e primitiva invidia che si nutre di esibizione e di reazione. O di quella incredibile del sapere che per quanto faustiano trova redenzione o dannazione per volontà dell’autore letterario o per l’esperienza della sua conoscenza? Questo forse è uno strano interrogativo da porre a Dio, sembra quasi che Dio non sia altro che l’interrogarsi dell’uomo sulla sua coscienza. E di fatti c’è un piccolo grande inganno in questo, che forse è più debole di ogni ipotesi di un Faust, chiudere ogni confine della propria possibilità d’immaginare, facendo dell’immaginazione non l’interrogante voce della bellezza, ma il controllo che determina la coscienza e le sue proiezioni bisognose. L’inganno del sapere diviene la parola stessa dell’illusione, che non si trascende per mezzo della verità dell’arte, ma dà all’espressione umana il bisogno di certificare la propria posizione rispetto alle volontà predominanti, il talento diviene non tanto l’esaltazione dell’ignoranza, ma il potere consegnato in totale esaltazione all’ignoranza che si fa volontà di predominio. E allora Dio rammenti quello che poc’ansi dicevo sull’invidia che si fa portatrice d’identità, come di coscienza sostanziale della verità del bisogno, che racchiude la dignità umana solo nella sua rappresentazione materiale e nella sua esibizione materialmente conveniente per un ordine consociativo. E allora Dio qual è il pensiero comune che si incontra tra la gente e qual è lo stato della coscienza? Se non quello di dominare la verità con l’esibizione più conveniente non alla paura di un Faust, ma di ogni schiavo e servo che per mezzo della propria invidia giustifica le proprie ambizioni, la propria posizione di potere come il diritto alla propria subalternità in conformità di determinare un invidia al talento della libertà. Quale più demoniaca condizione è presente nell’animo umano, quale azzeramento di ogni realtà di carità, quale controllo della parola e dell’atteggiamento della coscienza, quale negazione al dialogo da parte di chi è schiavo o servo nei confronti di chi vive da pari pari ogni realtà umana senza rispettare l’ordinamento della schiavitù, ogni condizione umana non ambisce alla libertà di coscienza alla compartecipazione dell’esperienza e alla facoltà di libertà dell’intelligenza, ma alla convenienza di essere dominante in un modo o nell’altro per mezzo dell’invidia nell’ordinamento della schiavitù. Il dominio è il potere sul momento come possibilità di essere invidiato nel momento stesso in cui ci si appaga della convenienza della propria condizione. L’essere umano ambisce a prevaricare più che essere condiviso da pari a pari, l’invidia è un alimento della coscienza a cui non rinuncia, a nessun ordine della schiavitù esso appartenga. Ci sono organizzazione e rappresentazioni umane che ambiscono a null’altro che alla dannazione, per quanto la verità autoriale di un’opera letteraria possa esprimere la condizione faustiana di mefistofele la sua invidia per la rappresentazione di se stesso sembra del tutto banalizzata dal bisogno demoniaco di sfuggire alla vita dell’uomo contemporaneo. Che null’altro esalta che la dittatura dell’invidia, sembra Dio che vogliano che tu gareggi con Mefistofele a chi invidia di più, e che satana in persona giochi questa partita.

E allora caro Dio come si può esser liberi e da pari a pari; quando si fugge dalla libertà; se non essere profondamente in ciò che accade e che forse proprio non partecipa a tutto ciò, ch’è solo l’illusione del ripetersi. E se l’uomo e la donna sono solo in fondo una biologia funzionale, che non parlano ma si rappresentano che dominano e invidiano. Vorrei sapere perché continuano a vivere di mille costruzioni, funzionale, mentali con cui giustificare le proprio richieste e invece non rispondano, alla, domande? Quasi volessero interrompere con il ruolo conforme al ruolo del dominio, la libertà e il dialogo da pari a pari che intimamente avviene nella verità e nella libertà dell’essere che s’interroga e che sa che la propria coscienza e la coscienza che tu meglio vedi e che intimamente ti si chiede di farci capire e che intimamente ti si chiede di accettare.

 

Che strana cosa è quel posto che dice di essere il tempo, e sembra che ogni volta con la stessa voce non faccia che ripeterlo: io sono la storia, o magari per una sorta di variazione – tanto che per un attimo la memoria breve, mi ha fatto mancare il ricordo del pensiero successivo – e la variazione in quella forma in cui l’avevo pensata già non c’è più. E allora che cosa mi stava dicendo la storia, di fatti molte, cosa, ma in fondo sembra la stessa cosa come se l’esperienza non possa far a meno di ripetere quel che conosce e che magari ha dimenticato. Tanto che certe volte sembra tutta costruita per negare quello che non conosce, fino a negare persino quel che conosce, e in definitiva non darsi mai compimento, ma sembra solo trasformando le cose per ripeterle allo stesso modo ma con tempi diversi. Le soluzioni che l’intelligenza nella storia sviluppa sono per lo più autentici sistemi per avere il controllo stesso sulla storia e tramite ciò la sua rappresentazione universale del tempo storico. In definitiva come superare il bisogno di mangiare e dimenticare la morte, tutto ciò all’interno del tempo storico. Che sia chiaro una volta per tutte che tale percezione materiale non può che terminare non nella trasformazione della materia, magari dell’essere umano stessa, ma soltanto con la morte, che non è una inevitabile conseguenza di ciò, ma l’essere stesso della materia priva di coscienza. Ora il dominare la materia per mezzo della materia stessa non può che produrre altra materia, o più semplicemente da un osservazione di conoscenza uno scambio d’informazione tra la materia, che sul piano della coscienza rimane incosciente del suo modificarsi. In fondo la cosiddetta consapevolezza dell’intelligenza umana vieppiù fa esperienza della sua conoscenza proprio dal comprendere le informazioni, e molto più spesso solo interpretandole come possibilità e uso della sua coscienza che attraverso i propri sensi trasforma la materia nel suo equilibrio, tra il suo tempo come riferimento materiale e il tempo naturale della materia; questo di già determina un certo rimbambimento dell’intelligenza umana – ci si chiede: se la materia ha un suo epilogo perché quella umana vuole differenziarsi con la storia per dire che il tempo è una sua realizzazione? E allora la conoscenza diviene ripetizione storica delle informazioni materiali dell’intelligenza umana. Ora si badi bene che la scienza per quanto si dica riproducibile e per questo si fa intendere sicura, in realtà non sa un bel niente del perché una cosa è riproducibile, osserva che in natura le cose hanno un loro compimento e svolgimento e che per lo più la materia umana può da questo avere dei benefici materiali. Ora il rimbambimento più grosso dell’intelligenza umana sta nel fatto che dice – o chi per lei – che se io controllo un fenomeno materiale, la materia ch’è soggetta a tale fenomeno è controllata da me. Quindi per mia stessa volontà determinata e creata. Con tale logica ci si impossessa delle informazioni della natura e si stabilisce come devono essere usate e in definitiva da chi. Per controllare tale fenomenologia della materia l’intelligenza umana ha determinato storicamente che le informazioni della natura e le derivazioni che ne hanno fatto gli esseri umani per estendere l’uso dei propri sensi fossero contenuti nel concetto materiale del possesso del denaro. Oggetto materiale inventato per simboleggiare il possesso dell’informazioni della natura e determinare l’uso che da, tali informazioni si vuole fare. Di pari passo la scienza ha smesso di cercare di conoscere le informazioni espresse liberamente in natura e tramite il progresso materiale dell’essere umano ha deciso paradossalmente di cambiare le informazioni naturali della materia con i propri tentativi, alquanto limitati e bizzarramente deterministici: in definitiva per dire che la propria natura materiale può essere modificata in altra natura materiale e il concetto paradossale al quadrato sta nel fatto che voglia trasformare la natura incosciente in altra natura incosciente che per sua stessa definizione non può che rimanere invariata, e da questo assunto incontrovertibile il paradosso al quadrato diventa del doppio quadrato, perché in definitiva in tal modo si presume non di approdare alla conoscenza della natura in sé, ma ad una nuova conoscenza che prima non esisteva della materia incosciente che si badi per principio è rimasta invariata in quanto arbitrio della materia e delle sue informazioni incoscienti, che per quanto siano modificate; dell’intelligenza dell’uomo rimangono di questa essenza. Su questo principio si è stabilito che il denaro è l’informazione che determina il volere del possesso dell’informazioni scientifiche che determinano la spiegazione e l’effetto della volontà della quantità delle informazioni, che si posseggono e in questo la libertà dell’uso che se ne fa, come delle possibilità stesse della libertà per mezzo dell’intelligenza. Con il controllo per mezzo del simbolo del denaro dei comportamenti umani, si è passati di fatto alla sublimazione del mangiare, come concetto di superamento del bisogno naturale dell’informazione della materia naturale e per mezzo del bisogno di tale fattore si è costruito il principio della libertà dai bisogni naturali e della conoscenza dell’intelligenza dei bisogni naturali, come eventi naturali della propria natura. L’osservazione dell’informazioni della materia naturale si è spostata sull’osservazione e riproduzione dei comportamenti umani per determinare la legittimità della conoscenza umana e dell’uso materiale della nuova condizione della materia umana prima come potere economico, poi per compensare il determinismo materiale dei fattori economici con la politica che teoricamente dava maggiori possibilità di eterogeneicità alla spostamento della materia di cui è composto l’essere umano e alle sue strutturazioni sistemiche: ed anche la distribuzione materiale e un fattore culturale come possibilità materiale per sublimare la morte individuale in una frapposizione collettiva o di genere. Dove il principio del possesso dell’economia spesso stava ai fattori di volontà della politica: la materia umana come organizzazione suprema dell’informazione della natura della materia e come genere o razza o nazione, come volontà che identifica nella propria esistenza materiale la superiorità del sistema che decide il possesso dell’informazione e le sue manipolazioni economico politiche e la logica dell’intera lotta per il predominio dei fattori di modificazione e controllo e di volontà generale della materia, del genere umano come realtà dell’intelligenza umana che conosce e modifica le informazioni umane per il potere sui principi dei processi materiali, come nuova materia naturale.

Si dice che l’unico appagamento che deriva da tutto ciò, o meglio c’è chi dice sia l’unica realtà di intelligenza, che superata l’osservazione e la conoscenza della materia naturale è l’unico motivo, in definitiva senza la causa, e appunto per questo che ci libera definitivamente dalla percezione delle conseguenze e dai motivi di ricercare soluzioni, ma nel più pieno appagamento delle possibilità di determinare se stessi. La comunicazione della materia e le informazione interpretate della pubblicità e delle infinite manipolazione deterministiche delle scienze e gli oggetti - non più come estensione dei sensi, ma la materia umana come derivazione ed estensione del possesso e dell’utilizzo degli oggetti delle informazioni da cui essi derivano in quanto possessori materiali della materia incosciente che non ha bisogno né di conoscere né di possedere, ma che basta solo possedere. L’esperienza dei sensi nell’intelligenza deterministica dell’appagamento nell’illusione di superare il mangiare e dimenticare la morte.

In questo lungo cammino materiale dell’essere umano, lungo apparentemente se relativo alla storia, in fondo presente se relativo alla coscienza è vissuta la presenza del suo essere spirituale del suo stesso cammino come conoscenza incompiuta che cerca per mezzo di se stessa di capire il mondo dell’anima del sentimento, ma ancora di più il rapporto della sua materia non con la trasformazione soltanto della materia, ma in definitiva della possibilità della spiritualità di esistere come possibilità che dà alla materia la sua dignità quanto la sua compiutezza, non privandola delle possibilità della coscienza ma dando alla conoscenza l’universale più libero e spontaneo del tempo e dello spazio, non solo come conoscente, ma anche come volere che dà alla percezione l’inalterabile disponibilità a capire tutto quel che l’esistenza rende partecipe dell’esperienza, coniugandosi con tutto l’essere, per liberarsi dalle illusioni che i bisogni sono sì partecipi dell’intelligenza, ma che la soluzione delle cause non può essere un’illusione. La possibilità è un atto dell’intelligenza individuale che non si ferma alla storia ma che dà al motivo primario della materia la causa del suo essere, e il mistero di ciò che la modifica, è ancor più da scoprire, e che l’evento è immutabile in quanto libero, quanto la conoscenza che lo indaga non può che esprimersi nella libertà, che dà al potere i limiti della materia e non delle possibilità anche sconosciute della spiritualità, e che i limiti della conoscenza materiale sono da questi ultimi capiti e possibilmente con quest’ultima dati all’intelligenza, come possibilità della materia, che non per questo nega la sua spiritualità. Se il pensiero ha indagato se stesso lo ha sempre fatto concependo le sue possibilità come le sue impossibilità, ma se la cultura nasce da un atto di libertà non può non confrontarsi con le riflessioni dell’esperienza del proprio cercare come del proprio capire spirituale, del proprio desiderio di conoscere senza l’obbligo di possedere, con l’intimità di dare possibilità di conoscenze profonde che riguardano l’essere tutto, e la materia in quanto spiegazione o osservazione e spiritualità in quanto linguaggio dell’osservazione, che si esprime anche materialmente in quanto cultura e non dominio o possesso. La capacità della vita e del suo creare non può eludere ciò che la conoscenza spirituale dà come possibilità, non può ridursi a logica deterministica, ma  libertà che cerca in qualche modo di rendere libera la propria sapienza, come percezione intima e in fondo, soltanto liberamente coscientemente condivisibile, nella persona che dà alla materia il suo aspetto e il suo mutarsi materiale. L’arte indaga dandosi un linguaggio nell’esperienza e nella spiritualità del suo autore, fino ad indagare se stesso spiritualmente, nell’autenticità della cultura come sguardo sulla vita che cerca di capire come poter vivere, nella verità della spiritualità delle comunicazioni del mondo e nelle informazioni stesse del suo rappresentarsi.

Dio stesso è nel mondo affinché il mondo stesso sia libero dalla schiavitù dell’odio e dalla necessità del dominio. Affinché la materia dell’essere umano non sia schiava e sia libera di camminare, anche in carrozzella.

Non so certe volte gli oggetti entusiasmano, forse questo termine è eccessivo, però in effetti c’è una sorta di rispetto nel significato dell’uso di un oggetto, un po’ come una meraviglia per quel che con esso è possibile fare, e il rispettarne il suo migliore utilizzo, come far sì che non si deteriori materialmente è un po’ rispettare le proprie possibilità di capirne le informazioni e decisamente andando oltre ciò che di reale vi si può fare attraverso la propria conoscenza, in fondo è un modo astratto per rispettare un fare umano in cui si ha un oggetto da esso costruito, se tutti gli oggetti fossero dei gran libri la qual cosa sarebbe oltremodo interessante, ma ci sono oggetti che non sono così esplicitamente chiari e reali, ma se la coscienza non sottostà a nessuna dittatura il contenuto di un libro è l’espressione del chiaro uso di un oggetto. È possibile immaginare una dittatura che sviluppa i comportamenti umani e androporfizzanti sulla repressione e manipolazione del contenuto degli oggetti, magari per mezzo degli oggetti stessi, è un po’ come se si verificasse il fatto che nell’espressione di un pensiero, si cerchi di controllarlo per mezzo del movimento degli oggetti in un quadro di riferimento, psico percettivo in quadri associativi umani che utilizzano degli oggetti. Nei confronti dell’autore dell’essere umano che l’ha pensato. Non credo vi sia rispetto in questo, il rispetto per gli esseri che hanno creato l’oggetto che racchiude quel contenuto. E allora si può odiare utilizzando l’oggetto, o per esempio il suo danneggiamento affinché la dignità della persona che lo utilizza ne sia colpita, o ancor più si può colpire la dignità della persona dando all’oggetto la possibilità e la volontà non propria di arrecare disturbo alla coscienza e conoscenza della persona utilizzando e associando all’oggetto la volontà umana con cui reprimere la libertà dell’essere umano anche nella sua individualità. E allora in una logica così distruttiva e mostruosa, se l’uomo non sa che derivarsi, dall’oggetto e su ciò costruisce il potere su cui formare la volontà e sconfiggere la responsabilità della libertà, per percepire la forza come eternità immanentemente già presente, mi chiedo gli oggetti sono capaci di amarsi tra loro? in fondo anche se sono spostati e mossi dal movimento degli esseri umani; ma dobbiamo distinguere tra quelli che appartengono alla tecnologia dell’informazione costruita dell’uomo e quelli che sono naturalmente già in natura, questi ultimi hanno un loro naturale processo di comunicazione e di relazione con la realtà globale del processo naturale materiale, in fondo più che un utilizzo ed una utilità hanno una reciprocità che diventa utile per l’equilibrio della realtà in cui si formano, possono essere percepiti utili nel momento che una coscienza ne è partecipe, dei loro principi di reciprocità naturale. Poi esistono quelli tecnologicamente sviluppati dalla conoscenza dell’essere umano, e questi se di fatti trovano un loro sviluppo incosciente ed in fondo invariante, appena rientrano nel processo naturale, spesso con le informazioni assemblate dall’uomo nel suo modo di costruire nuove temporalità alla comunicazione delle informazioni tra gli esseri umani – ma spesso solo associazioni – finiscono per modificare le informazioni naturali in processi di relazione incosciente fino a determinare la possibile non sopravvivenza della materia di cui è composto l’essere cosciente. E allora mi rifaccio la domanda questi oggetti sono capaci di amarsi tra loro? Gli oggetti si amano? Immaginare un modo dove gli oggetti si cercano, anche quando si trovano, non è proprio dire che si amano, o più propriamente essi riescono a darsi l’un l’altro la possibilità dell’amore che cerca una reciprocità nella coscienza? Tutto lascia presupporre che la qual cosa sia irrilevante per loro. E allora se tecnologicamente sono predisposti per almeno rappresentare un modo in cui si raffigura l’amore, è possibile dire che essi si amano? Ma anche con ciò saprebbero muoversi e incontrarsi e conoscersi l’un l’altro non come riproduzione dell’informazione ma come realtà che si sente? Insomma si può dire che l’amore è solo forma quantunque essa fosse riprodotta secondo il suo costruttore perfettamente secondo la sua idea materiale? E il mentire umano è più vicino a ciò, o ciò è più vicino all’incoscienza della materia? Se l’immagine in sé può apparire immateriale la materia rimane quel che era incosciente, seppur nella forma. E allora due persona per esempio che istruiscono altre persone su come fingere nella vita per manipolare le proprie percezioni, più per essere riproduzione materiale della forma ch’è autentica in quanto materia che coscienza, sono altro da due attori che recitano e rappresentano uno stato della coscienza che si interroga e che al di là del narcisismo della fama e delle conseguenze del denaro, cercano di capire la libertà, e allora l’uomo che cerca la creatività quotidianamente che bisogno ha di mentire o di dominare la forma per impadronirsi della comunicazione e dell’informazione, fino a falsificare non solo la realtà, ma la naturale comunicazione della verità esperita e la qualità della rappresentazione; e ancor più il valore letterale o della parola è capace di autenticità e di amore? Se è sì come essere umano, è sì come essere che ama, non già della forma che finge di rappresentare, della tecnologia materiale della sola figura.

Gli oggetti si amano, in questo caso il possedere e il volere possedere per mezzo degli oggetti è dare e capire in certo qual modo umano o è solo un trattenere o spostare gli oggetti in funzione del rendere l’amore solo funzione materiale e possesso della sua rappresentazione come figura che mostra il possesso delle informazioni più che la libertà del suo contenuto dalla sola figura? E allora gli oggetti si spostano e si amano materialmente. E che cosa succede agli oggetti quanto si spostano e comunicano tra di loro? In fondo essi possono trovarsi ovunque, per amarsi basta che comunichino, ora l’essere umano sembra sia diventato utile a questo scopo, perché svolge la precisa funzione di accendere gli oggetti tecnologici e attraverso i propri sensi riesce a farli funzionare, questo modo di comunicare della materia con la materia, stabilisce che la materia debba essere rappresentata ovunque nello spazio e nel tempo, la stessa necessità che la materia comunichi dà alla forma valore di ascolto indipendentemente dal contenuto di verità, se l’intera materia si vede basta ascoltare la sua forma a prescindere dal suo contenuto, l’essere umano è pienamente nelle informazioni della materia sul piano della stessa visibilità materiale, quanto invisibilità della comunicazione cosciente di ciò che vede o tocca, sostituito in pieno dalla forma visibile: di fatti è come se gli oggetti tecnologici comunicassero tra loro da ovunque senza il bisogno o la necessità che ciò avvenga se non come potere stesso della materia; e allora l’invisibilità negli esseri umani che eseguono gli spostamenti sta nel fatto che lo spazio circostante sia formato da muri invisibili anche se apparentemente trasparenti come pura forma della figura, dove gli uni e gli altri si parlano senza mai incontrarsi, in una intimità globale delle percezioni sensoriali ed emotive, che si nutrono per mezzo della materia che scambia informazioni, l’esperienza immateriale quanto visibilmente invisibile di un muro prima, di un labirinto poi, pone la questione dell’incontro tra gli esseri umani non sulla questione delle percezioni invisibili, ma sulla questione della coscienza come conoscenza reale tra un individuo e un altro individuo, senza l’interposizione della materia che comunica associativamente prima della relazione e in esperienze della comunicazione associabili per motivo allo spostamento della materia e alla sua mera figura. Il tempo come possibilità della conoscenza di conoscere la coscienza e la spiritualità, nel dialogo interiore ed esteriore al contempo: l’essere nel tempo della relazione. Non so in definitiva se Perseo ha fatto bene a cercare Arianna e se ha ucciso il Minotauro, potrei anche non ricordare bene questa storia, sta di fatto che è un labirinto questo infinito muoversi degli oggetti della materia che comunicano tra loro, tanto che si trovano sempre anche senza vedersi, è tale che chiedere un’informazione utile e sensata in quanto reale a costoro è pura illusione della materia e Perseo fa prima a trovare il filo.

 

Cerco tra i sentieri quel che già trovai, scoprii le cose come le cose erano e parole libere per la realtà del loro senso. Se dei flutti del tempo non seppi altro che liberarmi, or anche ripeto quel che ho appena detto, tutto, come presente. Se degli inganni mi libero, non per altro che per quello che c’è e che non c’è, ma che non può dirsi inesistente, mi sono liberato della nazione della famiglia e del potere dell’ignoranza, dalla schiavitù che ambisce che i colori siano diversi come i giorni apparenti, che la morte sia uguale e la vita come soltanto i criteri della morte. Mi sono liberato delle frustrazioni del non sapere, per conoscere e null’altro, come la verità che è e che non appare. Guardo sempiterni invidie come ciò che non ho voluto conoscere; guardo quel che è, senza il bisogno di essere sotto la luce o il buio. E che i giorni e le fatiche son stati tutti senza essere un avere o un obbligo, sono scorso come l’acqua che evapora e che si ferma nei laghi, che scorre per i fiumi, ma supera salite, e se di giorno in giorno tutto è diventato più sentito e più vero, lo devo alla perseveranza mia e la bontà della vita. Non ci sono inganni da scoprire, essi sono solo spesso perdita di tempo e non figure caotiche, che  null’altro sanno se non quello per cui sono stati ammaestrati. Ci sono i giorni che si sono condivisi e più ancora i momenti: quelli condivisi con un sentire intimo e profondo, lo stesso che si mostra raro e presente in chi ha. Quei giorni inconsueti, ma per ognuno d’essi incredibili, meravigliosamente pieni di verità, di un amore quantunque anche sofferente, ma ricolmi di realtà come solo ciò ch’è libero e vero è. Ogni incredibile confronto più vero dell’intero immaginarsi di tutto il conoscere che s’inganna e solo quell’acuta forte voce dell’amore più vero visibilmente mostra la realtà di quel che c’è, se vi è questo la realtà appare immanente e presente, eterna e condivisibile, anche esperienza e conoscenza sia essa meravigliosamente piena della solitudine, che autentica e sincera ovunque e con chiunque. Sono i giorni che appaiono incredibili e quelli che appaiono tranquilli e sereni, sono fatti di momenti e di eternità insieme di felicità, e quando vi si pensa in fondo mai di infelicità. Sono gai quando lo si vuol essere, quando non sono tremendi. Sono tutto quanto, in fondo e insieme a tutto son sereni per chi è sereno veri per chi è vero, reali per chi è reale, amano il tempo e chi l’accompagna, amano chi è vicino, ma anche chi è lontano. Parlano e dicono quel che essi stessi ascoltano, e non ricordano le sofferenza se non per tutto quel ch’è creativo, la stupida arroganza appare per quel che è e forse questo, quel che appare è banale  e insopportabile come colui che vuole potere in tal modo. Sono stati condivisibili anche questi giorni, per costoro che hanno saputo capire e cambiare, più che rubare il tempo e i momenti al significato e alla sua libera scoperta. Se di cultura vi è questo modo, la cultura forse vi è così in questo tempo, e pure per qualcosa c’è motivo che sia allora. Mi sovviene, così, ora di quel racconto che non ha ripetizioni né commenti, di quel giorno infinito che non ha giorno, e che non perde tempo con le conseguenze, né a salvare né a punire che con tal calandro scelto il suo fare. Sarà giorni senza giorni può darsi per costoro, forse immemori, ma pieni di memoria, troppa da sentirsi imprigionati. E allora se le fuselle ritornano sul prato la calma ha i meriti che le spettano, e la parola e gli sguardi non appaiono solo per richiamo, un po’ barbaro e funesto, ma sono limpidi fiumi che incontrano limpidi mari, con gli azzurri cieli che li aspettano.

 

Sembra che nel tempo che si è compiuto di presso ad un ricordo, o dietro d’esso, non c’è che qualcosa che annulla il suo tempo. E quando parlo, sia solo e solidariamente o come essere che scruta e appartiene, non c’è silenzio tra una parola ed un'altra che non fluisca nel presente. E allora si svelano le maschere e dietro ad ognuna d’esse non ve n’è mai un’altra, se qual dunque anche questa maschera sia da togliere e diretti per fare quel che viene fatto e compreso, non già di fatto dal solo volere intendere, ma dalla realtà stessa che viene fatta. Se dunque la maschera fluisce via, non dunque si rappresenta, ma si è e si sta e si fa, ma ancor quantunque di tutte queste ciò che accade è la speranza, ma appunto anche oltre e ancor di più, giacché il silenzio fluisce nel presente sempre, seppur tenendo in mano le parole, non come sconosciute o insignificanti, ma come dire stesso del dirsi, o ancor meglio dirsi nel dire, e questo è forse, è l’ipotesi della maschera, quella che del teatro fa l’apparire e che svela al di là del dire stesso, appunto raccontando e rappresentando, non per cambiare il dire del fare ma per esserlo così. Ma allora in tutto questo si parla d’altro, o meglio di ciò ch’è ancor più del fare e che al fare dà significato, non già di fatto solo nel sapere, ma appunto nell’essere stesso del cercare di essere, se medesimo, e, l’altro medesimo e sé. Se dunque svelata è la maschera ciò che si fa è ancor di più che il solo disvelamento; è dire senza apparire senza che l’apparire sia dunque altro da dove si è, con chi si è, essere nel luogo stesso dove ci si guarda senza che l’altro lo sappia, se non mostrandolo a se stesso, non quale appare la rimostranza che ti guarda e basta, ma appunto dove è il significato stesso del, quel che non appare come qualcosa che fa al di là dell’ipotesi, che dice al di là dello sguardo, che prima di mostrare è. Non si ingannino ora qui i discorsi del leggere, non parlo della solidarietà della coscienza come evento che parla con il singolo individuo, il singolo individuo che parla con se stesso, che non interroga il mondo, ma solo il prossimo e che in fondo si dà a tutto il mondo, quando mostra la realtà della maschera che lo rappresenta come il suo sguardo sul mondo; ma parlo di quella profondità della conoscenza che abbandona la futilità, non all’inutilità ma alla per sua insolvenza nei confronti della coscienza, la sua trappola a chi cerca un appagamento nel nascondersi, per altro nella vanità della futilità che lo vuol guardare e mostrare per celebrarsi. Parlo della profondità più partecipe della realtà della comunione della coscienza con se stessi, di un sentire tutto senza che niente appaia, di quel fare dell’anima che così profondamente ci appartiene e che ci dà la possibilità, la libertà di appartenere sia nella conoscenza che cerca che nell’in-conoscenza che si vede. Non vi è una misura dell’utilità come di una giustizia che misura le gerarchie ma un fluire al di là dei limiti della logica come regola sociale della convenienza, che giustifica e determina. Non vi è una ricerca della morte, come non vi è un potere sulla vita se non per abbandono della conoscenza come possibilità che conosce e agisce e fa per più di quel che sa, con il fare invisibile della volontà, col dire un sì palese e un no cosciente senza che esso sia mai privato della libertà, un no che non nega ma che libera nel fare stesso del suo autore, ciò che si mostra però è invisibile come l’invisibilità dell’anima, non una logica della convenienza, ma il silenzio come parola che si liberà, per quanto indimostrata dai limiti della convenienza; nel parlare, non si mostra per ciò che viene negato, ma per la libertà stessa del suo dialogo, la condivisione che sa e che non ambisce, ma che vive, che sorride: ascolta la voce che parla e qualcosa d’altro si percepisce senza che si mostri, che sia spiritualità e ancor più l’anima.  

 

Se iniziassi con le parole della frase: che sei tu? Sembrerebbe che io cercassi di dimostrare qualcosa, o in definitiva che si dimostrasse qualcosa come se interrogando il suono stesso che ti rappresenta, io potessi avere una risposta certa. Ma io so qual tu sei, ma non è questo ciò che ci rappresenta, che rappresenta. E allora donna non chiedermi quasi che tu fossi un unico sistema rappresentativo, un unico riferimento esistenziale, quasi non ci fosse che vano riferissi a se stessi, come unica dimostrazione di ciò che sei. Non so dirti o dimostrarti ogni volta solo per quello che tu vai a vedere, quasi che quel che ti accade sia al di là di quel che immagini. Se di fatti non una sei ma molteplice, quasi che ogni volta unica ti parrebbe di essere, per ogni parola pronunciata da me; sembri impaurire e fuggire da quel che sei, cerchi simboli narcisistici o rappresentazioni esteriori non della realtà come concretezza, ma come materia incosciente a cui associarti, sia essa fatta di carne o oggetti. E bada che io quando dico io, parlo di me e non dell’uomo nella sua astrazione, io in carne ed ossa e pensiero e sentimento e spirito, se più ti è grato. E difatti non vi è dubbio, che il tuo mostrarti non fa che riferimento a tutto quello che spesso il mondo stesso vuole si rappresenti, o il mondo degli uomini, in quanto proprio esseri umani, sia maschi che femmine. E allora come ti dicevo io forse non ho più pazienza di sapere se puoi o non puoi, giacché è ben poca cosa quel che vuoi, che se solo tu capissi in un istante quel - che in quel momento ti do, non fuggiresti, e non dico di altro, che in coscienza per la tua coscienza. Ti apparirò polemico, ma in fondo questo sembra l’unico modo per esserlo; dei tuoi eroismi sembra proprio non sia rimasta traccia eppur così grata sembri essere a quegli zotici o zotiche, che vi sia il pari significato, con cui non vuoi far altro che mostrarti, ti senti importante, ma di cosa? Non c’è un istante in cui non riesci a dimostrarmi la tua supponenza senza che non vi sia anche una consociazione tra convenienza e mostranza, che tutto quel che fai non è altro che una fuga nell’esibizione, sia essa la più idiota che la più utilitaristica materialmente. Della tua pratica non rimane che il calcolo con cui appaghi le rimostranza della tua condizione sociale, per mezzo dei pappagallismi dei contenuti siano essi uomini o finzioni. E già tu non sei proprio più vera, non ci sei ma ti vuoi impossessare del posto che gli altri non sanno neanche, quel è: e allora dici ch’è tuo, e che significa questo? Che argomento è che cerchi di impormi, ma di cosa stai parlando? Se hai paura di conoscerti, se trovi per questo poco conveniente conoscermi perché non ti dai pace, invece di continuare ad importunarmi con la tua logica di potere, che non fa altro in fondo che sparare, competere, con i tuoi complessi d’inferiorità, più che con la mia libertà d’intelligenza, che cosa vuoi dominare il sapere? Il sapere non si domina si ha la responsabilità di viverlo, non s’immagina quel che dovrà essere solo perché è il modo che ti dà più protagonismo: vuoi essere e allora impara ad essere invece di dirmi una cosa che non sai, come se la sapessi, e ne fossi coerente. Vuoi monetizzare il tuo tempo, e allora che vuoi da me se non ti bastano i più soldi che c’hai per compensare quello che non vuoi essere e sentirti competitiva con me, ma di cosa stai parlando di amore? E cosa vuoi da me se tutto quello che vuoi non l’hai ed è l’unica cosa che vuoi, e se io ti do più di quel che tu, o t’interessa ti sia donato, in fondo tu ovunque sei stata mi sei sempre andata bene comunque sei stata e che ci posso fare io se poi non sei quello che credi di essere e non sei capace di esserlo, e giochi solo a rimpiattino con le svalutazioni e con le insoddisfazioni. Se hai qualcosa da dare chi ti ha mai impedito di esserlo, non già mostrarlo, o dominando il ruolo, con cui si ristringe il cerchio del tuo piccolo mondo mentale, che seppur ci sto neanche ti va bene, perché non sei il centro del mio universo, ma nessuno t’impedisce di esserlo o di rappresentarlo in pieno, è che devi controllare il mondo e chi ti lo fa vivere, quasi sia meglio pagare qualcuno per dire ch’è intelligente che essere intelligente con chi è intelligente, che poche cose ti rimangono da mostrare. Allora mia cara donna chi è quella che io immagino, quella che io credo che esista, non di già un’ideale inesistente, in fondo c’è stata anche la madonna, ma quel che dico è che cosa è che mi fa credere che esista qualcuna che ogni volta che può essere vi rinuncia, e che non per questo mi fa dire che non esiste, di fatti non fai che fuggire anche da un minuto di realtà, quasi vorresti rubarmi anche questo minuto, che puoi avere senza nessun furto, ma allora la coscienza a chi la stai rubando? Non certo a me, a me forse la possibilità di vivere la realtà con te, ma non di certa la verità e anche la realtà che vivo di te, per quel che è realmente. Ciò che non conosci non esiste, tutto il mondo ti fa voce in questo, ma non ci si può fare niente se poi esisto. E allora mi domando veramente ed anche se continuo ad immaginarti, anche se ormai sei incapace di parlare, di pensare se non con le mille parole che mettono in bocca a chiunque, se questo mio ipotetico ma reale: in attesa di te o di lei, ma no proprio di te, sia ormai sensato, se ciò non sia un modo di pensare non determinante, forse possibile di essere rappresentato, in qualche modo concretamente vissuto, se solo in fondo fingessi di impegnarmi, più che di essere realmente concreto e reale? Di fatti il mio tempo senza di te, in certo qual modo così ricco e amato, non mi dà la illusione virtuosa di ridurti ad una funzione, forse potresti avere una mansione, ma proprio non basta che tu mi dica che sei intelligente, per poi costringermi a far finta di niente per farti sentire importante anche quanto sei cretina, senza mai farmi capire perché saresti intelligente con me, e non sei neanche capace di prendere l’amore che si dà e ti do con tutto il cuore; anche ad una cretina, che non smetterà mai di volersi sentire più importante del centro del mondo stesso: come un’oca che quando fa la papera crede di esserlo - qualche virtù l’avrà pure – E allora che cosa vorresti dire, e perché fingi di non volerla dire a me, se non perché hai paura di dirla a te stessa, e perché continui così!? Da qualche parte starai, ma mi sembra proprio che sei sempre la stessa e allora dove dici di essere, forse immagini di essere ovunque, così, mi sembra proprio di no e dovunque mi sembra proprio in nessun posto, neanche in te stessa. Che faccio immagino solo l’apostasia femminile, in verità me la sono proprio dimenticata, che se quantomeno ti facessi palpare forse saresti più concreta, e meno materiale, il problema è che non sai quale informazione materiale della materia sei diventata e con quale finzione dell’informazione materiale è più conveniente stare. Insomma quando vorrai qualcosa di vero sai dove trovarmi e cosa dire, e questa è una frase veramente astratta, perché la dico ad un’ipotesi di donna, o perché non è vera? L’ipotesi o il dire, per il resto il fare il mio è sempre stato reale, è per questo che questa frase è vera, sei ancora tu che esiti se non qui, quale io sono, se tu non vuoi essere anche altrove. Io comunque sono qui e altrove. Ti fischio un’altra volta? Guarda che devi rispondere, ch’è educazione rispondere.

 

Non trovi che in fondo – questo in fondo che si ripete – il sesso non ha null’altro a che fare con la libertà se non per il fatto che la libertà stessa è interpretata per mezzo delle logiche culturali della sopravvivenza. Voglio dire in natura non c’è niente che vieti il sesso. Ma dimentichiamo il pensiero del sesso come fatto esclusivamente della nascita di un'altra vita. Allora più che di sesso è sensato parlare della sensualità, eppure la sensualità se nel mondo animale è preclusione di una sorta di corteggiamento innato, il sesso in sé trova il giusto compimento procreativo. Di fatti l’atto del procreare meccanicamente non è molto complesso o difficile da realizzare, ma quello di cui ti voglio dire è della sensualità come scoperta non meccanica del sesso. E allora si potrebbe dire, ma il sesso non è indispensabile. Il sesso come spontanea procreazione non si pone un simile problema, e immaginare un mondo creativo che si compone; non fa della contrapposizione tra il sesso e la sensualità il ruolo su cui determinare il concetto di superiore ed inferiore. Di fatti se la sensualità fa della curiosità l’atto del conoscere, il ruolo sessuale finisce culturalmente per essere il concetto di volontà, non come partecipazione o condivisione, ma io ti faccio fare e tu fai. Sul piano sessuale tale paradosso è insostenibile per mezzo dell’intelligenza e può essere solo affermato sul piano della forza dell’identificazione sociale. Non in una realtà di conoscenza, ma in una funzione di visibilità dell’immagine scenica dell’interpretazione dell’intenzione per lo più priva di conoscenza reale, e dell’esperienza, mancante non solo della rappresentazione come elaborazione riflessiva che non manipola la curiosità, ma, appunto, per le mancanze della libertà di parola dell’analisi interiore e in astrazione esteriore, dell’ipotesi come della conoscenza creativa della realtà della curiosità, che non si identifica nella volontà, ma è nella conoscenza che può anche volere. Tale volere ha in se stesso un suo principio morale che non preclude al sesso la sua realtà d’esperienza, ma dà alla possibilità la pragmatica della conoscenza come possibilità, intima del proprio essere. E curiosità della condivisione. Non che in fondo tutto quel che conosciamo è sessuale, tutt’altro è propri tutto quel che conosciamo che è altro e quando ci porta a conoscere per mezzo della curiosità si apre a moltissime altre cose, e la sensualità è in tutto il mondo creativo, di questo tutto curioso, ma intelligente, e meglio ancora vero. E allora quando la sensualità si rende partecipe delle cose sessuali non già più di solo sesso stiamo partecipando, ma della nostra conoscenza che intimamente si svela e che non dà una modalità di superiorità, ma di reale e reciproca condivisione della conoscenza. Innatamente la sensualità non è omologata né preordinata sessualmente, non nasce solo per partecipare, ma ha in sé il desiderio di conoscere e farsi conoscere, non quale ruolo, ma propri al di là dell’immagine conclamata e come conoscenza stessa delle cose innate, a cui la persona con il suo essere è e, vi partecipa. La sensualità non può essere invidiosa, non è fatta per controllare o inibire, ma cerca un senso alla realtà, dell’identità di cui è parte, non un limite, non agisce per mezzo della volontà, ma per partecipazione del volere che vede, che pensa e conosce, che interroga e riflette sulle risposte, che non perde la sua dignità per mezzo della mera curiosità, quella che non domanda e non sa chiedere, che non risponde, quella che non immagina e pretende. E non cerca l’espressione autentica. La sensualità non offende se stessa, perché non cerca l’offesa, ma il senso per essere partecipe, non si nega se sa responsabilizzarsi nell’essere che è. E allora ti dico quante volte la sensualità viene tradita nella sua stessa essenza più pura e libera, quante volte essa nel conoscere è mal giudicata, scrutata ingannevolmente dalla irrappresentabilità delle rappresentazioni esteriori prive di comunicazione e conoscenza vera, quasi che con le stesse parole si possa dire chi è che fa fare a chi, nella più assoluta e paradossale mancanza d’intelligenza nella mera curiosità di chi non sa neanche quale sono le conclusioni a cui la conoscenza della curiosità sensuale porta, o hanno portato? E quante persone ancor di più intimamente hanno tradito la propria più spontanea sensualità, nella ricerca appagante di un ruolo, e di un atteggiamento, spesso, violentando la loro stessa sensibilità dell’essere che è ben altro del sesso della sua interpretazione – sembra che moltissimi inizino presto a perdere la propria purezza e la cultura di cui essa è parte, la conoscenza, e parte della coscienza, quasi che agiscano per fame, ma tutta la creatività non può essere ridotta solo a questo, fin anche fossero la maggioranza degli esseri umani a volere essere fatti solo per questo.

 

Se le lacrime avessero un sono più istantaneo del presente, quasi come un sorriso, il giorno non avrebbe, non vi sarebbe nel giorno il tempo, di farne qualcosa di diverso da quel che appare. Se tutte queste volte questi istanti non si perdessero di questo modo nelle ripetizione perché si vorrebbe che il giorno non sia presente per quel che è. Dove sono le cose inconsapevoli, tra i fatti che accadono come se dovessero essere per loro stessi più complessi della realtà: come se qualcosa o qualcuno debba essere procrastinato ritardato, o anticipato governato da un tempo che tiene fermo il presente, che è tutto limitato, ma che per questo, in fondo non dà proprio comprensione, quasi che non se ne conoscano le conseguenze, gli effetti e non li si comprende su se stessi. Come si prendesse qualcosa, all’insaputa stessa di se stessi e non si capisce che si è quel che si è per gli effetti di tale qualcosa, più che perché si è quel che si è, e sapersi in quel giorno, credersi qualcuno ed esserne un altro, o la persona che cerca dove non c’è. E allora la complessità appanna tutto, perché fa del giorno qualcosa che non immaginiamo, appunto qualcosa di inatteso come un indigeno che si ubriaca per la prima volta e non sa la causa di quel che prova; in ogni giorno c’è un momento siffatto, quasi che tutte le proprietà segrete delle cose abbiano bisogno di un rapporto profondo tra il proprio essere e la realtà, come gli antichi sciamani che davano all’altra realtà la visione non di una sostanza, ma di una coscienza che scrutava se stessa per andare oltre se stessa e conoscere la realtà, oltre l’incondivisibile, del rapporto tra la materia e lo spirito. E cosa c’è di più profondo del giorno, dell’istante stesso della lacrima e del sorriso, che dà al tempo dell’esperienza dell’inconosciuto la sensibilità necessaria a capire lo sconosciuto a capire l’identità che non ha bisogno della complessità, del complesso regolo dell’inconoscibile che si manifesta di tutto il procrastinare o anticipare del tempo, ma si dà consapevole del tempo delle anime come sguardo non del tempo ma della sapienza che si manifesta, e non di già la coscienza come momento presente del giorno del momento autentico sconosciuto, che non comprime per mezzo dell’essere vivente se stesso, ma che dall’essere vivente lascia che appaia il compiuto, non come giorno presente, non già come manifestazione, ma come tutto il tempo visibile. Il giorno ha ascoltato l’essere umano, non ha trovato una modalità ripetitiva, ma la coscienza delle manifestazioni invisibili dell’anima, delle manifestazioni profonde della conoscenza e della consapevolezza del modificarsi del proprio istante, del sentire stesso tutto il giorno e tutto il tempo. Se per tanto tempo come il tempo manifesto lo spirito ha pervaso il mondo della rappresentazione dell’essere, non di meno il mistero si è vissuto come mondo aperto, come conoscenza visibile dell’istante naturale e dell’istante invisibile, del significato e del tempo eterno, e ciò che ha permeato la coscienza è stata la libertà della rappresentazione l’incontenibile suo manifestarsi e la caducità come significato dell’anima, questo ambito aperto <tra> ha dato alla coscienza della spiritualità animistica il manifestarsi della realtà come armonia, spesso ricerca d’equilibrio, sostanziando questo nella stessa qualità dell’amore che conteneva il libero e spontaneo manifestarsi del tutto nel rapporto con il tutto. Se la goccia d’acqua del sorriso ha pervaso una sostanza ha anche stabilito una conoscenza profonda tra la materia e la percezione della conoscenza come stato impermanente della materia e della sostanza della materia conosciuta. Come rappresentare la coscienza che non si conosce è stato il fenomeno materiale della complessità del fenomeno. Malauguratamente il fare umano ha finito, spesso, per determinare ciò solo nella possibilità di controllo del fenomeno per mezzo del possesso della materia, per stabilirne l’uso più utile al dominio del tempo come rappresentazione cosciente della rappresentazione del volere del tempo, come fenomeno della materia. Che domina la materia di cui l’essere umano stesso è composto. Se le più profonde realtà animistiche dell’amore, cercavano uno spiegazione per l’armonia stessa della coscienza e del suo significato rappresentato, come compimento anche della tragedia della morte, che non conosce, ma può conoscere se stessa. Nella percezione dello sguardo sul fenomeno, si evidenziava la necessità non solo di guardare liberamente ed immaginare profondamente, ma la liberazione tra la schiavitù e il principio della libertà dell’anima dell’essere, non nella tangibilità del possibile della materia, ma nella rappresentazione della coscienza che indaga i principi che hanno dato sostanza alla narrazione del significato di creazione come volontà stessa dell’essere. E come non riconoscere in sé le possibilità che anche se non sono in sé sono in Sé in quanto possibilità della creazione stessa di sé. La creazione come atto stesso delle possibilità del creato, come possibilità infinita di amore e libertà di essere tutt’uno con il creato e il suo manifestarsi e mostrarsi nelle possibilità conosciute e sconosciute, ma tra il visibile e l’invisibile lo spavento della rassicurazione umana dell’idolatria come spiegazione e possibile riscatto dalla morte, per mezzo della possibilità dell’immagini della materia che divinizzano l’utile della coscienza e la sua volontà, come controllo della creazione e fenomeno della spiegazione. La liberazione dalla schiavitù, e la ricerca dalla liberazione dalla schiavitù, danno limiti stessi alla libertà, che deve mostrarsi nella complessità e lotta con la paura e tutto lo sconosciuto appare nemico come il suo rappresentarsi, la storia trova la sua transeunte spiegazione, diviene materiale e spirituale e visibilità fenomenologia, controllo stesso dell’uso della materia, della sua utilità, l’uomo si fa non essere del creato, ma creato stesso, si parcellizza e rende l’amore rassicurante più che vero, ricco di potere esecutivo più che di libertà, misterioso ma irrilevante.

Dio esiste non perché creato dall’uomo, ma di per sé perché è già Dio; e allora tutto ciò si riempie di profondità e quel che c’è è solo quel ch’è vero, non già tutti i disastri appaiono solo, per chi immagina, ma tutta, il giorno, la lacrima e il sorriso al contempo che c’è e c’è sempre stato, Dio non immagina se stesso, si mostra libero dalla complessità, entra nella materia e ne sopravive, sconvolge per sempre l’idolatria con l’amore e rende libera la coscienza dell’essere umano di rappresentarsi e di capirsi, non nega, ma dà al principio il giorno per guardarlo, in ogni, in ogni momento, responsabilmente libero d’amare.

 

Il silenzio la solitudine, la voce o il buio. Quando una persona e perché non io passeggio di notte, tra la folla o in strade, meglio se percorsi solitari, non propriamente strade, il buio ha sempre una sua fisionomia, come se quel che resta non sia quel che resta della luce, ma il buio stesso che vi si mostra, e quando il buio è così buio da essere solo, in quel momento fors’anche si avverte il silenzio, non già la sordità dello sguardo, ma i significati che non appaiono. Eppure muoversi nel buio è come ascoltare, e di certo trovarsi, e allora la solitudine è ovunque, forse, identica e allora stabilire la differenza non rappresenta un significato e pensare è pensare, non già in quale modo, ma nella voce che si ascolta, senza che il suono stesso trovi un silenzio. Ma di già cos’è che per voce stessa si parli in questa situazione, con la certezza che nessuno ascolti, eppure ci si rivolge a qualcuno, si pensa in qualcuno, o si respira in qualcuno: ci scopriamo forse, eppure il significato non cerca qualcun altro, è che di già si sa che si ascolta proprio come il buio; eppure si sa che per quanto soli c’è qualcosa che ci rappresenta, è avvertibile come qualcosa che esiste. Non già le immaginazioni delle paure, per ciò che non sappiamo possa accadere, non già le nostre emozioni che si rappresentano invisibili. Quel che esiste è qualcosa che può svanire, ma non si sa come, perché non si sa, e il silenzio e la voce, il buio e la solitudine, non ci sono più, ognuna per suo conto, sono una pienezza che accompagna questo sentire e percepire, quasi che la coscienza non guardi ma viva quel che sa, che sappia con stupore e meraviglia quel che sta vivendo. E se non c’è nessuno non altra sensazioni i sensi percepiscono il silenzio tra i respiri e la meraviglia della natura, e si avverte profondamente che la solitudine sono semplicemente io stesso e la meraviglia è la libertà dell’intelligenza che guarda quel che accade pienamente, perfettamente in armonia anche con ciò che non comprende profondamente, realmente per quanto vera essa sia. E la meraviglia si volge allo stupore come il possibile all’impossibile, con la stessa naturalezza tra il silenzio e il suo respiro. E allora c’è una grandezza che appare nella solitudine, non solo quella di condividere la verità, fosse anche la sua umanità, ma che quel che è non appaia al di là di quel che è e appare, e che liberamente si ha e che liberamente si dà, e che volontariamente si condivide; non c’è clamore nel buio e nel silenzio e la voce è pienamente sola e non si rivolge alla paura per esistere, non ti obbliga alla dimostrazione, essa è già, spontaneamente udibile presente in chi è presente. Ma già si è lasciato o forse è stato impossibile fermarsi e anche pronunciar parola in un silenzio ancora più profondo e limpido che in questo cammino notturno o al chiaro di luna, quasi che il dì di giorno di già si mostra; è quell’avvertire che se il corpo sembra lasciarci soli, c’è un che, un che nella bellezza della più vera solitudine così limpida e aperta, così travagliata e molestata, ed anche coraggiosa, che mi dice come si facesse ascolto pieno che al di là del clamore ed anche di così breve disattenzione, qualcuno che parla e non solo ascolta, ma non si dimostra: ama e non capisco perché continuare a crocifiggerlo perché disperare che odi, se l’uomo è simile a Dio, perché volere che Dio non sia se stesso.

 


Viaggio da solo, o più esattamente cammino solitariamente, quasi che non ci sia bisogno che del silenzio, di quella concentrazione che più che attenzione è stato naturale dell’essere, di quel che si è. Eppure appropinquandomi a questo nei luoghi di quel che si sente bello, o nei luoghi che son belli per questo, nei luoghi in cui mi sento, non sovente e diciamo neanche raramente, ma ne l’una né l’altra cosa accade unicamente che ci sia un incontro, ma qui siamo appunto solitariamente e chi è che mi sento accanto, che mi sta dinanzi o insieme come parlo e che parla?

Solitariamente, appunto, ma se c’è una concreta apparizione, che non da più sensazione di essere così, ma che tocco e che stupisce lo stesso mio pensare ascoltandola, come di fatto l’apparizione nell’essere si rappresenta, allora il mio essere non più di apparizione parla, ma ascolta e si sente, solitariamente tra due esseri e con l’essere che anch’esso mi tocca, parla e ascolta, se ci sia il dialogo che non sia sol di parole, ma che solo con esse tocca il silenzio, o il significato, o ancor più non il possibile, ma l’atto che scopre, che non assomiglia ma che si guarda costantemente, che sento presente anche solo in un abbraccio, che deve solo ascoltare, capire pensare senza che ci sia una categoria, ma soltanto la verità che scruta e non ha paura di ascoltare, che risponde e che accetta, che non ha già stabilito, ma stabilisce di conoscere, senza frantumare il silenzio e la solitudine: l’inenarrabile solo con ciò cerca la possibilità che ciò che stabilisce di conoscere, non sia un atto, anch’esso, del perenne conflitto, che tutto infrange e che distoglie l’essere con il significato di un tempo dell’apparire, di una affermazione dell’apparire.

Solitariamente in cammino si rimane nella solitudine del significato si stabilisce di conoscere, di parlare e ascoltare, di liberare l’anima dalle categorie, di potere essere dove è un altro essere: l’amore che guarda l’amore senza contrapporsi, ma che accetta di essere.

Solitariamente.

 

Ancora un attimo, e, quantunque io fossi qui, non tanto perché il silenzio… ma soltanto come un tempo che si costruisce – so bene che già questo termine è infausto – suona insufficiente c’è modo di essere e in questo, stare il più autenticamente possibile con ciò che è vero, con ciò ch’è impossibile alla scoperta del vero, non so se il mondo della gentilezza è non rimanere prigioniera di ciò – come pronunciare questo termine al femminile se non ascoltando le parole che come estrema impossibile: stare subentra una protagonista che posso stare a guardare mentre colei che non è parla. Eppure deve accadere questo, non può essere solo immaginato, deve proprio accadere, e, l’intuizione deve farsi conoscenza. Se il mondo dell’essere veri, e in questo caso costei che così vera sta parlando proprio dove in fondo mi trovo or ora – e non vi è un prologo – lei è qui perché, essa appartiene soltanto a ciò che soltanto è – e non vorrei che ci fosse qualcuna che per somiglianza pensasse di essere lei, come del resto nessuno può essere chi io sono in questo momento – ciò non è un gioco letterario – lei è qui davanti a me la vedo, chiaramente – è vero non riesco a essere in un luogo più vero di questo, è come se fosse l’unico spettatore seduto di una platea di un teatro immaginario – me che immaginario non è – e lei è davanti a me che mi sta parlando, ed è questa sua immaginazione, forse, che rende questo posto così come è, e, allora manca qualcosa alla sua presenza quel silenzio maggiore che la porta via da ogni altro luogo, da questo luogo: ci si guarda come soltanto si è senza bisogno di vedersi, ma quel che accade è perché accade, lo si sente, lo si osserva e le parole si dicono e le mani toccano: il teatro ora è veramente vuoto, perché non una rappresentazione: vera, accade, non un sentimento un pensiero da osservare da un altro punto di vista, profondità da comunicare, ma nel teatro ci siamo solo io e lei, ed ora il teatro è un non luogo della mente, e quel che accade, accade solo perché può essere vero: non importa dove io sono in questo momento, ciò che sta accadendo può essere reale, se questa verità qui sa farsi reale. Or questo mio pensiero così comunicato è un momento della mia coscienza, che mi è venuto in mente, in questo istante, mentre lei è davanti ai miei occhi, in questo luogo, lei non conosce ancora questo che io ho appena pensato, ed è questo il teatro vuoto che appare, in cui io sono. E allora perché non tacere, perché non dare alla realtà l’indimostrabilità di viverla? Perché non quietare quel termine che lei ha usato, come, costruire, che proprio per questo non sentiva pienamente autentico, di quel che deve accadere senza questo significato: un creato intero si dischiude alla nostra anima, è, una solitaria e unica esperienza della nostra anima: una immagine unica e indivisibile, una coscienza senza contrapposizioni, senza l’immagine; e allora il luogo è rappresentato dai luoghi, che non hanno a dirsi ma che stanno in ogni altro luogo dell’immaginazione, non per una complicata illusione, ma come scoperta di quel che si è e che si fa, non per costruire, ma per essere dove non si dice di stare nell’anima che ha se stessa: ora si è tangibili e reali come la presenza e in luogo possibile di un’altra.

Volete ascoltare le parole ed osservare ciò che accade tra me e lei che ho di fronte, volete scoprire quali sono le mie verità e le sue, volete sapere la verità che le supera – questa – lascio il punto interrogativo alla bellezza che si vorrebbe svelata, non solo per pura immaginazione, ma perché lei si pone come non osate, come forse conoscete, o capito, ma che con tale coscienza non accettate: la verità sorprende sempre, oltre la vostra immaginazione, e, per bellezza e per realtà.

 

 

 

 

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